I convegni, le
memorie, i dibattiti, gli incontri di studio in occasione del giorno
della memoria, hanno sottolineato alcune valutazioni anche
dialetticamente confrontabili e che tuttavia possono trovare poche
sintesi condivise e conclusioni proficue.
Intanto la necessità del ricordo, su
cui tutti consentono: ricorre continuamente il dovere di ricordare,
senza odio e senza intendimenti di vendetta. E tuttavia il ricordo
deve riguardare la totalità dei vari olocausti della storia; lo
stesso olocausto ebraico richiama nel sacrificio tutti gli olocausti
subiti dai vari popoli della terra. Se i lager nazisti costituiscono
un evento catastrofico, probabilmente senza uguali, nessuno può
dimenticare il destino fatto oggi a tante popolazioni africane ed ai
cristiani perseguitati dal fanatismo ammantato di matrice religiosa.
La necessità del ricordo non può fare distinzioni, non può operare
discriminati di nessuna specie o categoria soprattutto ideologica.
Ci sono poi questioni che hanno aperto
tutta una serie di interrogativi e che forse continueranno ad
interpellare gli uomini dei secoli futuri. Alcune in particolare mi
hanno colpito.
Una prima domanda riguarda la
componente della violenza come risposta inevitabile, ma comunque
sempre problematica, alla persecuzione ed all’offesa dell’umanità.
Se la vendetta è comunque e sempre da rifiutare, c’è da valutare
la legittimità della risposta violenta ai soprusi quando si arrivi
ad una scelta obbligata e senza sbocchi alternativi. Per quanto si
ponga la necessità di bandire la violenza, per quanto i problemi
connessi costituiscano, a fronte di eventi coma la shoah ed in
presenza di persecuzioni politiche e religiose, dei macigni sulla
coscienza degli uomini, sembra difficile non spiegare le risposte di
forza alla tirannide prolungata nelle istituzioni e sull’uomo. La
questione non sembri superata dagli avvenimenti del nostro tempo, in
cui parecchi esempi di resistenza passiva hanno ottenuto effetti
straordinari; ancora oggi di fronte a tante situazioni di sopruso
continuato, di persecuzioni sanguinose e generalizzate contro etnie,
confessioni religiose e pensiero democratico, il problema si pone e
con difficoltà trova risposta adeguata.
Anche perché il filo tra offesa e
diritto alla difesa è molto sottile. Ad esempio, Dossetti, che ha
partecipato al movimento di resistenza in ruolo di responsabilità,
ha finito per capire la necessità delle armi, ma continuerà la sua
vita nella donazione religiosa di sé; Ezio Franceschini, uno dei
personaggi più rappresentativi della resistenza cattolica, arrivò a
parlare di uccidere l’avversario ingiusto, senza odio e rancore.
Inquietante e radicale fu la testimonianza di Dietrich Bonhoeffer
quando gli fu posto il problema della sua partecipazione alla
congiura che avrebbe dovuto sopprimere Hitler. In particolare gli fu
chiesto, come, lui sacerdote e pastore della Chiesa riformata e
confessante, poteva conciliare la violenza con il suo cristianesimo:
la risposta fu semplicemente illuminante per qualunque perplessità
residua. “Quando un pazzo lancia la sua auto sul marciapiede, io
non posso, come pastore contentarmi di sotterrare i morti e consolare
le famiglie. Io devo, se mi trovo in quel posto, saltare e afferrare
il conducente al suo volante”.
Un'altra questione emersa è stato il
problema delle persecuzioni ebraiche e della loro storia nel contesto
delle civiltà occidentali. Di fatto si potrebbero richiamare
parecchie convergenze di specifiche culture occidentali di valenza
antigiudaica. A lungo si è richiamata, con insistente prevalenza, la
responsabilità della Chiesa cattolica; si tratta di responsabilità
non contestabile, ma sicuramente per nulla esclusiva.
Nel complesso dei ragionamenti, in ogni
caso, occorre però fare le opportune distinzioni tra l’antigiudaismo
e l’antisemitismo; nel primo caso si tratta di inaccettabile
intolleranza culturale e religiosa, nel secondo caso si tratta di ben
peggio. Si arriva a proclamare l’inferiorità di una razza e di
un’etnia che come tale va soppressa, indipendentemente dai
comportamenti e dalle scelte e dalle confessioni ed idee professate.
Certo l’antigiudaismo non era, in sé,
razzista, ma quando i presupposti del razzismo si sono affacciati
sulla scena ideologica, anche attraverso le dottrine del secondo
ottocento, queste ultime hanno trovato nell’antigiudaismo un
terreno sicuramente favorevole. Un terreno che aveva annientato nella
storia, gli anticorpi dell’aberrazione della “razza e del
sangue”.
Anche qui non bisognerebbe dimenticare.
L’intolleranza culturale, anche se non arriva alle estreme
conseguenze della degradazione del genere umano e della sua
sostanziale unità, costituisce però una premessa assolutamente
pericolosa per le derive più inquietanti.
Si comincia ad urlare all’avversario
politico sconfitto di andarsene a casa, anziché rispettarlo come
polo della dialettica democratica e si rischia un percorso gravido di
conseguenze, molto spesso non prevedibile.
A questo punto mi sembra fondamentale
allora cogliere la pregnanza dell'invito lanciato dalle vittime dei
lager: “non odiate, ma non dimenticate.” Mi chiedo cosa
significhi il non dimenticare; forse parecchi, anche tra i più
attenti e sensibili si soffermano ai fenomeni finali e devastanti
dell’intolleranza, in nome dell’attualità dei singoli problemi.
Bisognerebbe prestare attenzione alle dinamiche di lungo periodo;
bisognerebbe intervenire sulle cause profonde dei destini spesso
dagli esiti devastanti per l’umanità offesa. Andrebbero valutati i
percorsi profondi dell’aberrazione nei rapporti tra gli uomini ed i
popoli.
A.B.
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