giovedì 28 gennaio 2016

IL GIORNO DOPO LA MEMORIA

I convegni, le memorie, i dibattiti, gli incontri di studio in occasione del giorno della memoria, hanno sottolineato alcune valutazioni anche dialetticamente confrontabili e che tuttavia possono trovare poche sintesi condivise e conclusioni proficue.
Intanto la necessità del ricordo, su cui tutti consentono: ricorre continuamente il dovere di ricordare, senza odio e senza intendimenti di vendetta. E tuttavia il ricordo deve riguardare la totalità dei vari olocausti della storia; lo stesso olocausto ebraico richiama nel sacrificio tutti gli olocausti subiti dai vari popoli della terra. Se i lager nazisti costituiscono un evento catastrofico, probabilmente senza uguali, nessuno può dimenticare il destino fatto oggi a tante popolazioni africane ed ai cristiani perseguitati dal fanatismo ammantato di matrice religiosa. La necessità del ricordo non può fare distinzioni, non può operare discriminati di nessuna specie o categoria soprattutto ideologica.
Ci sono poi questioni che hanno aperto tutta una serie di interrogativi e che forse continueranno ad interpellare gli uomini dei secoli futuri. Alcune in particolare mi hanno colpito.
Una prima domanda riguarda la componente della violenza come risposta inevitabile, ma comunque sempre problematica, alla persecuzione ed all’offesa dell’umanità. Se la vendetta è comunque e sempre da rifiutare, c’è da valutare la legittimità della risposta violenta ai soprusi quando si arrivi ad una scelta obbligata e senza sbocchi alternativi. Per quanto si ponga la necessità di bandire la violenza, per quanto i problemi connessi costituiscano, a fronte di eventi coma la shoah ed in presenza di persecuzioni politiche e religiose, dei macigni sulla coscienza degli uomini, sembra difficile non spiegare le risposte di forza alla tirannide prolungata nelle istituzioni e sull’uomo. La questione non sembri superata dagli avvenimenti del nostro tempo, in cui parecchi esempi di resistenza passiva hanno ottenuto effetti straordinari; ancora oggi di fronte a tante situazioni di sopruso continuato, di persecuzioni sanguinose e generalizzate contro etnie, confessioni religiose e pensiero democratico, il problema si pone e con difficoltà trova risposta adeguata.
Anche perché il filo tra offesa e diritto alla difesa è molto sottile. Ad esempio, Dossetti, che ha partecipato al movimento di resistenza in ruolo di responsabilità, ha finito per capire la necessità delle armi, ma continuerà la sua vita nella donazione religiosa di sé; Ezio Franceschini, uno dei personaggi più rappresentativi della resistenza cattolica, arrivò a parlare di uccidere l’avversario ingiusto, senza odio e rancore. Inquietante e radicale fu la testimonianza di Dietrich Bonhoeffer quando gli fu posto il problema della sua partecipazione alla congiura che avrebbe dovuto sopprimere Hitler. In particolare gli fu chiesto, come, lui sacerdote e pastore della Chiesa riformata e confessante, poteva conciliare la violenza con il suo cristianesimo: la risposta fu semplicemente illuminante per qualunque perplessità residua. “Quando un pazzo lancia la sua auto sul marciapiede, io non posso, come pastore contentarmi di sotterrare i morti e consolare le famiglie. Io devo, se mi trovo in quel posto, saltare e afferrare il conducente al suo volante”.
Un'altra questione emersa è stato il problema delle persecuzioni ebraiche e della loro storia nel contesto delle civiltà occidentali. Di fatto si potrebbero richiamare parecchie convergenze di specifiche culture occidentali di valenza antigiudaica. A lungo si è richiamata, con insistente prevalenza, la responsabilità della Chiesa cattolica; si tratta di responsabilità non contestabile, ma sicuramente per nulla esclusiva.
Nel complesso dei ragionamenti, in ogni caso, occorre però fare le opportune distinzioni tra l’antigiudaismo e l’antisemitismo; nel primo caso si tratta di inaccettabile intolleranza culturale e religiosa, nel secondo caso si tratta di ben peggio. Si arriva a proclamare l’inferiorità di una razza e di un’etnia che come tale va soppressa, indipendentemente dai comportamenti e dalle scelte e dalle confessioni ed idee professate.
Certo l’antigiudaismo non era, in sé, razzista, ma quando i presupposti del razzismo si sono affacciati sulla scena ideologica, anche attraverso le dottrine del secondo ottocento, queste ultime hanno trovato nell’antigiudaismo un terreno sicuramente favorevole. Un terreno che aveva annientato nella storia, gli anticorpi dell’aberrazione della “razza e del sangue”.
Anche qui non bisognerebbe dimenticare. L’intolleranza culturale, anche se non arriva alle estreme conseguenze della degradazione del genere umano e della sua sostanziale unità, costituisce però una premessa assolutamente pericolosa per le derive più inquietanti.
Si comincia ad urlare all’avversario politico sconfitto di andarsene a casa, anziché rispettarlo come polo della dialettica democratica e si rischia un percorso gravido di conseguenze, molto spesso non prevedibile.

A questo punto mi sembra fondamentale allora cogliere la pregnanza dell'invito lanciato dalle vittime dei lager: “non odiate, ma non dimenticate.” Mi chiedo cosa significhi il non dimenticare; forse parecchi, anche tra i più attenti e sensibili si soffermano ai fenomeni finali e devastanti dell’intolleranza, in nome dell’attualità dei singoli problemi. Bisognerebbe prestare attenzione alle dinamiche di lungo periodo; bisognerebbe intervenire sulle cause profonde dei destini spesso dagli esiti devastanti per l’umanità offesa. Andrebbero valutati i percorsi profondi dell’aberrazione nei rapporti tra gli uomini ed i popoli.
A.B.

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