lunedì 10 agosto 2020

LA VULNERABILITA'

Se c’è una cosa che il Covid ci ha insegnato, imprimendola dolorosamente nei corpi di tanti, è la nostra vulnerabilità. Di tutto il resto – degli effetti economici, sociali, politici – si può discutere. Ma non di questo. Siamo esposti alla sofferenza e alla morte. Certo, lo sapevamo da sempre, di dover soffrire e morire. Ma non così. Di potere essere travolti, all’improvviso, tutti, senza riparo. Quello che nel giro di qualche mese è cambiato non è la nostra vulnerabilità, ma la percezione di essa: non siamo anche, ma essenzialmente, vulnerabili. Gli esseri umani non sono solo caratterizzati, ma definiti dalla vulnerabilità. Ma per penetrare ancora più a fondo nel tema in questione bisogna risalire all’esperienza di una pensatrice,donna ed ebrea, in fuga dalla Francia occupata dai nazisti e morta in esilio: Simone Weil. Al centro della sua esperienza l’esposizione dell’essere umano alle ferite fisiche e morali. Il rischio estremo – ben presente, non solo negli anni in cui Simone scriveva – è costituito dalla spoliazione integrale che lascia la vita nuda, priva di ogni qualifica propriamente umana. Ciò accade quando la sopravvivenza, in una condizione disperata, diventa l’unico obiettivo perseguibile. Allora la vita si raggomitola su se stessa, perdendo ogni attenzione nei confronti dell’altro. Del resto è difficile rivolgere vera attenzione a chi soffre – alla carne nuda, inerte, sanguinante. Alla vita sul ciglio di un baratro, accatastata nei carnai senza nome nelle periferie del mondo o anche annidata nei crepacci delle nostre società. L’attenzione sfugge la sventura. La scorge appena, prima di volgere altrove lo sguardo: «Il pensiero prova ripugnanza a pensare alla sventura – scrive Simone – così come la carne prova ripugnanza di fronte alla morte». Eppure solo da quel punto, ignorato, rimosso, cancellato, si delinea l’altro polo che caratterizza l’essere umano, originato proprio della consapevolezza della vulnerabilità: l’obbligo nei confronti dell’altro sofferente. L’essere umano, proprio perché essenzialmente vulnerabile, è sempre in obbligo verso chi condivide la stessa sorte. È il punto decisivo che fa di Simone Weil la maggiore pensatrice contemporanea: il primato dell’obbligo sul diritto. Solo perché gli uomini sono in obbligo verso i propri simili, questi hanno dei diritti. Non viceversa: «Un uomo che fosse solo nell’universo, non avrebbe dei diritti, ma avrebbe degli obblighi», qualcuno verso se stesso. L’obbligo nei confronti dell’essere umano precede ogni relazione. Non è relativo, ma assoluto. Bastano queste parole di Simone Weil è rivelare la modestia intellettuale ed etica delle polemiche politiche sui migranti. Non si comprende che essi vanno salvati non perché abbiano dei diritti – difficili da definirsi – ma perché noi abbiamo un obbligo assoluto verso di essi. Poi la politica può fare scelte diverse, in considerazione del contesto, delle situazioni, dei rapporti di forza. Ma senza confondere i piani. L’obbligo non si basa su situazioni contingenti, sulla giurisprudenza, sui costumi. Esso non risponde al diritto, ma alla giustizia. Certo il diritto può, e anzi deve, tendere ad approssimarsi alla giustizia, ma sapendo di non essere mai giusto. Diritto e giustizia si rivolgono allo stesso oggetto – la società umana. Ma cambia il punto di vista da cui la guardano: il diritto dalla prospettiva dell’immunità, la giustizia da quello della comunità. L’incomparabile grandezza di Simone Weil sta nel rivolgersi, senza mai sovrapporli, al reale e al giusto: «Su questa terra non c’è altra forza che la forza». L’unica forza, non di questa terra, che la contrasta è la giustizia.

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Estratto di Roberto Esposito in “la Repubblica” del 8 agosto 2020


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