venerdì 27 febbraio 2015

"Oggi...non ci sono più i viandanti che passano nei paesi...Sono rimasti i <<barboni>> nelle città,ma hanno vita grama perché suscitano non compassione ma odio,appaiono insopportabili agli occhi di molti. Come dice acutamente l'amico Michele Serra,a causa del benessere obbligatorio,della micidiale fregola di normalità,di bei vestiti,di carriera,costoro appaiono semplicemente osceni. Nessuno vuole conoscere la loro storia : disturbano e quindi vani rimossi."
ENZO BIANCHI

giovedì 26 febbraio 2015

“Io, infermiere vi racconto l’eutanasia silenziosa nei nostri ospedali” 
di MATTEO PUCCIARELLI su REPUBBLICA.IT

FIRENZE - Come possiamo definirla? "Eutanasia silenziosa". Per noi è un fatto di tutti i giorni. Lo affrontiamo con grande difficoltà, ma sicuri di fare sempre la cosa più giusta", dice Michele (lo chiameremo così). Una laurea, la specializzazione, il master, la carriera infermieristica, oggi è caposala all'ospedale Careggi di Firenze. Ha voglia di raccontare quello di cui, chissà se per pudore o se per una congiura del silenzio, nessuno parla mai. E di farlo evitando la politica, "ma con il buonsenso di chi sta in prima linea".

Premessa: Michele non è ateo, anzi, è un cattolico praticante, va a messa due volte alla settimana. Sorride di questa apparente contraddizione, "ma qui Dio non c'entra nulla. Sono un professionista, ho studiato. Se teniamo in vita artificialmente un paziente, siamo noi che ci stiamo sostituendo a Dio...".

Ogni anno, in un grande reparto come quello dove lavora Michele, medici, infermieri e operatori sanitari hanno a che fare con almeno 30-40 casi di persone sospese in una terra di mezzo dove il confine tra cosa è eutanasia e cosa no è sottilissimo. "Dal punto di vista normativo siamo obbligati a nutrire e idratare anche un vegetale. In queste condizioni un paziente può andare avanti per mesi, o anni", spiega.

Un po' come avvenne con Eluana Englaro: "Ho perso il conto di quanti malati ho visto così. E da fuori, quando si sta bene, non ci si rende conto di quanto sia facile ritrovarsi in quelle condizioni. Il caso Eluana ci diede una lezione: nessun riflettore, silenzio sulla materia con l'esterno. Poi però mi chiedo se è giusto omettere la verità".

martedì 24 febbraio 2015

Bendato in strada: ''Sono musulmano, abbracciatemi'', un esperimento sulla fiducia
"Sono musulmano ed etichettato come terrorista. Mi fido di te. Ti fidi di me? Abbracciami", così recita il cartello di Mustafa Mawla, musulmano canadese, protagonista dell'esperimento sociale nelle strade di Toronto. Nato dall'idea di Assma Galuta, studentessa universitaria, il progetto si intitola "Blind trust project", in collaborazione con Time Vision, e vuole essere una risposta ai recenti episodi di odio e bullismo contro i musulmani, a dimostrazione che gli appartenenti alla comunità islamica sono parte integrante della società canadese e soprattutto che si fidano. Mustafa, membro dello staff della casa di produzione si è fermato bendato in mezzo alla strada con i due cartelli in attesa delle reazioni. E la sorpresa è stata immensa. In centinaia lo hanno abbracciato: il Canada ha un grande cuore.

lunedì 23 febbraio 2015

NO AD UNA SECONDA GUERRA IN LIBIA!
L'abbattimento del regime di Gheddafi ha riportato la Libia al clima politico ed economico di due secoli fa, prima della colonizzazione italiana e ancora prima della presenza ottomana. In altre parole, si è tornati ad una tribalizzazione del territorio. Scomparsi i confini amministrativi, ogni tribù difende le proprie frontiere e sfrutta le risorse petrolifere.
Non c'è alcun dubbio che Muammar Gheddafi è stato un crudele dittatore...
...La Libia è nel caos più completo e già si parla con insistenza di risolvere la questione inviando truppe dall'estero per organizzarvi una seconda, micidiale e sciagurata guerra. Nel corso della prima infausta guerra, voluta soprattutto dalla Francia di Sarkozy, il paese ha subìto danni immensi, 25 mila morti e distruzioni valutate dal Fondo Monetario Internazionale in 35 miliardi di dollari.
Poichè le voci di un intervento militare italiano si fanno più frequenti, noi chiediamo alle autorità del nostro Paese di non commettere il gravissimo errore compiuto nel 2011 quando offrimmo sette delle nostre basi aeree e più tardi una flotta di cacciabombardieri per aggredire un paese sovrano, violando, per cominciare, gli articoli 11, 52, 78 e 87 della nostra Costituzione.
In un solo caso l'Italia può intervenire, nell'ambito di una missione di pace e dietro la precisa richiesta dei due governi di Tripoli e di Tobruk che oggi si affrontano in una sterile guerra civile. Ma anche in questo caso l'azione dell'Italia deve essere coordinata con altri paesi europei e l'Unione Africana(UA).
Animati soprattutto dal desiderio di riportare la pace in un paese la cui popolazione ha già sofferto abbastanza.
Ci appelliamo al nostro ministro degli esteri Gentiloni, chè non si faccia catturare dai venti di guerra che stanno soffiando insistenti. Ma sopratutto chiediamo a tutto il movimento per la pace perchè faccia pressione sul governo Renzi perchè l'Italia , come ex-potenza coloniale, porti i vari rivali libici attorno a un tavolo. Questo per il bene della Libia, ma anche per il bene nostro e dell'Europa.
Angelo Del Boca e Alex Zanotelli


venerdì 20 febbraio 2015

UN CONSIGLIO DI LETTURA.



Fateci caso. Le persone capaci di importanti gesti di cura, quando spiegano i motivi del loro agire, forniscono risposte di rara semplicità: ho fatto quel che dovevo, chiunque avrebbe fatto lo stesso, non c’era altro da fare... Il che non significa che dietro l’azione non ci sia un pensiero: «Il pensiero c’è ma è radicalmente semplice. Nel senso che è essenziale: sa dov’è l’essenza delle cose». Questo pensiero è passione per il bene dell’altro, «con una forza etica che non viene prima della coscienza ma piuttosto è la voce di una coscienza che sa ciò che è irrinunciabile e da la lì orienta il suo essere».

L’ultimo libro di Luigina Mortari si intitola<<Filosofia della cura>>(Ed.Raffaello Cortina, pp. 226, euro 19), una cura che lei definisce «fenomeno ontologico sostanziale all’esserci ». Tradotto: una vita buona non può tralasciare la premura verso il prossimo, la sollecitudine a favorire il benessere del-l’altro, l’impegno a far fiorire le sue possibilità. Chiarisce il concetto ricorrendo alla parabola del buon samaritano, che invece di tirare dritto come gli altri passati prima di lui, vide l’uomo per terra, lo guardò ed ebbe compassione: «Il buon samaritano ha visto un’ingiustizia, l’ha registrata e ha pensato di dover agire. La presa in carico dell’uomo ferito è stata preceduta da una valutazione razionale, per quanto fulminea, che informa e dirige l’azione. Perché la compassione non è un atto irrazionale ma è intriso di pensiero. C’è il pensiero alla base di ogni azione di cura. Per questo alla cura si può essere educati».
L’essenza della cura: «Consiste nell’essere una pratica e accade in una relazione, è mossa dall’interessamento per l’altro, orientata a promuovere il suo ben-esserci; per questo si occupa di qualcosa di essenziale per l’altro».

«La cura è non un sentimento o un’idea ma un atto, perché è qualcosa che si fa nel mondo in relazione con altri. E se – come sostiene Heidegger – gli esseri umani 'sono ciò che vanno facendo', allora si può dire che il modo di fare la cura rivela il modo di essere».

Perché ben-agire e ben-essere sono coincidenti: «Ci sono azioni di cui sentiamo la necessità. Vedere la giustezza della cosa da fare ci decide a metterla in atto, a prescindere dal calcolo di cosa potrebbe derivarne. Si fa gratis perché qualcosa di buono accada, ricavandone un piacere etico». «La cosa più importante è lavorare per il bene ma anche stare bene. Questa convinzione dà forza alla mia mente. Le idee inerti non portano a nulla, mentre quelle vive si nutrono di passione».


Quando un essere umano comincia a esistere, di fatto comincia a coesistere: «Essere consapevoli di avere bisogno di abbracci e di carezze, di una parola gentile e di uno sguardo benevolo non è sentimentalismo ma una cosa umanamente vitale. Sentirsi dentro una relazione di cura è una necessità ineludibile che ci accompagna per tutto il tempo della vita».


Ma cosa mette in moto questa relazione? «L’interesse per l’altro. Guardarlo sentendosi in connessione con lui, cogliere la sua situazione di necessità.È facile individuare le necessità biologiche, però c’è anche molto altro».
«Il segreto è prestare attenzione, consentire all’altro di mostrarmi le sue esigenze, accogliere quello che dice di sé, interpretare le differenti necessità. Senza mai essere remissivi. Educare significa coltivare, noi stessi e la nostra anima, dare una forma migliore al nostro essere. Educare anche alla passione per sé».

La cura è un atto culturale e non esiste vita senza cura. Eppure, nella pratica è continuamente svilita: i medici prescrivono terapie e gli infermieri le somministrano senza più prendersi il tempo di stabilire una relazione vera con il paziente, costretti dai tagli di bilancio a sacrificare l’empatia all’efficienza, a stare dentro i tempi dettati dal mercato del lavoro. La stessa cosa capita a scuola, dove si rincorrono programmi ed eccellenze trascurando la grandezza che ciascuno porta in dote e che dovrebbe essere stimolato a scoprire e mettere a frutto. «L’attenzione è un gesto cognitivo primario. E quando è appassionata, concentrata sull’altro – dice Luigina Mortari – niente la può smuovere. Diventa anche un gesto etico. Tenere l’altro nel proprio sguardo è il primo gesto di cura».

L'AGENDA DI PAPA FRANCESCO...





CITTA' DEL VATICANO -L'episodio è accaduto martedì 10 febbraio ma il papa lo ha reso noto solo oggi durante l'incontro con il clero romano. Durante la consueta messa alla Domus Santa Marta, Bergoglio ha affrontato il tema del matrimonio dei sacerdoti.

Alla celebrazione erano presenti sette preti che festeggiavano il loro 50esimo di sacerdozio, ma anche cinque sacerdoti che hanno lasciato il ministero perchè si sono sposati. Alla domanda di uno dei preti presenti, don Giovanni Cereti, sulla questione dei preti sposati (nella quale si ricodava il caso delle Chiese Orientali, dove gli uomini sposati possono essere ordinati sacerdoti e le migliaia di preti sposati di rito latino che invece non possono celebrare), Bergoglio ha risposto a sorpresa: "Il problema è presente nella mia agenda".

Si tratta di una nuova apertura del Pontefice che segue quelle emerse durante i lavori del Sinodo straordinario sulla famiglia, come quelle sulle gay e sull'eucarestia ai divorziati risposati e . Secondo notizie pubblicate in Brasile, alcuni mesi fa il papa avrebbe scritto al cardinale brasiliano Claudio Hummesuna lettera sulla possibilità di avviare una riflessione sul celibato ecclesiastico relativa ai cosiddetti "viri probati" cioè a uomini di età non giovane, sposati, che conducono una vita familiare e religiosa esemplare, e ai quali alcuni ritengono che possano essere affidati compiti nella Chiesa al pari dei sacerdoti. La notizia della lettera di Francesco è stata però ridimensionata dal portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi, per il quale "non c'è nessuna lettera del Papa al cardinale Hummes sulla materia indicata". Ma, ha aggiunto il gesuita, "è vero invece che il Papa ha invitato in più di una occasione i vescovi brasiliani a cercare e proporre con coraggio le soluzioni pastorali che ritengano adatte ad affrontare i grandi problemi pastorali del loro Paese".

Ai sacerdoti romani riuniti nell'Aula Paolo VI, Bergoglio ha chiesto di "recuperare il fascino della bellezza" cioè "quello stupore che ti attira e ti tiene in contemplazione, generato dall'incontro con Dio" e ha dedicato un lungo passaggio alle omelie, a "quell'ars celebrandi" che per i sacerdoti rappresenta "una vera e propria sfida". Proprio ai sacerdoti il papa ha dedicato un nuovo tweet: "Dove ci sono uomini e donne che hanno consacrato la loro vita a Dio, c'è gioia".
"Non siate showman", ha detto Francesco al clero presente all'incontro, dopo aver accennato alla divisione fra quei sacerdoti che predicano spontaneamente e quelli che invece lo fanno in un'atmosfera artificiale, lontana da quell'autentico "stupore" che deve derivare dalla preghiera e dall'incontro divino. Francesco ha insistito sullo "stupore" ma anche su altri aspetti come "entrare e fare entrare nel mistero": "Se sono eccessivamente rubricista e rigido, allora - ha spiegato - tutta la forza è in quella forma. Se sono il protagonista nemmeno faccio entrare nel mistero". Invece, con il suo atteggiamento il sacerdote "deve fare in modo che il Signore provochi". A chiedere al Pontefice una "riflessione su un tema molto importante per i sacerdoti, che predicano bene ma che possono sempre migliorare" è stato il cardinale Agostino Vallini, vicario del Papa per la diocesi di Roma, che ha definito l'ascolto del Papa un "bagno salutare e una luce nel cammino sacerdotale".
Nell'introduzione il Papa ha raccontato anche un simpatico aneddoto: nel 2005, quando intervenne sul tema delle omelie ad una "plenaria" della Congregazione per il culto divino e i sacramenti, il cardinale Jorge Mario Bergoglio si beccò due rimproveri da colleghi illustri, entrambi tedeschi: il cardinale Meisner (che era l'arcivescovo di Colonia) e l'allora cardinaleJoseph Ratzinger che lo riprese perché nel suo intervento mancava il "sentirsi davanti a Dio". "Aveva ragione, di questo non avevo parlato", ha rivelato oggi Papa Francesco.
da REPUBBLICA.IT

Papa Francesco apre ai preti sposati.

“La questione è nella mia agenda”

 Plaude a Papa Francesco l'associazioe dei sacerdoti lavoratori sposati, fondata nel 2003 da don Giuseppe Serrone.“Ora i tempi sono maturi per una svolta epocale nella pastorale della Chiesa che deve tornare ad utilizzare i sacerdoti sposati nella sua Missione di evangelizzazione”.La questione dei sacerdoti sposati è presente nell’agenda di papa Francesco. Lo ha detto lo stesso Bergoglio in occasione dell’incontro in Vaticano con i sacerdoti della capitale lo scorso 10 febbraio 2015 celebrando a CasaSanta Marta con sette preti che festeggiavano il 50esimo anniversario di sacerdozio. A quella messa erano presenti anche cinque sacerdoti sposati.

giovedì 19 febbraio 2015

L'amaca
di Michele Serra,in “la Repubblica” del 19 febbraio 2015.

Chi ha visto in tivù il filmone sulla tratta dei neri “Dodici anni schiavo”, un po’ oleografico ma molto intenso, ha potuto fare memoria del cumulo di atrocità, violenza e dolore sul quale, fino a meno di due secoli fa, si sono rette l’economia di Europa e America, nonché del pianeta intero. Dico questo non tanto per dare la stura a un senso di colpa che non è mai buon consigliere e per giunta non riguarda noi figli dei figli dei figli. Ma perché l’uso del terrore come strumento di dominio è antico come tutte o quasi le società umane: cristiane, musulmane, induiste o altro. A fare eccezione, rispetto alla norma ferina, non è dunque il recente rinfocolarsi delle pratiche di sterminio e di tortura; è, semmai, la loro cessazione, almeno nei paesi europei (a parte la carneficina post-jugoslava) per quasi settant’anni. L’eccezione sono la pace e la libertà nelle quali abbiamo avuto l’incommensurabile fortuna di vivere, vedere nascere i nostri figli e salutare i nostri genitori. La pace — come l’amore liberamente scelto, come la libertà di religione — è una conquista della civilizzazione, una novità moderna. Al cospetto della comune storia barbarica del genere umano,sono princìpi rari, preziosi e fragili, e proprio per questo tocca battersi per difenderli.

NON DOBBIAMO RISPONDERE CON IL TERRORISMO DI STATO

Ci siamo già dimenticati dell’attentato terroristico di Parigi? Appena successo l’attentato c’è stata indignazione perchè, di fatto, è stato un crimine abominevole che non si può giustificare o difendere. Ma l’indignazione non  basta, occorre cercare di capire analizzando i motivi e le cause che provocano gesti simili.
Una prima analisi deve farci considerare che, anteriormente a questi fatti estremi, c’è un contenuto oscuro di vite umiliate, di emarginazioni, di discriminazioni e anche di stragi o di guerre preventive che hanno causato migliaia di morti nei territori musulmani.
Si prenda, ad esempio, la Francia dove vivono oltre 6 milioni di musulmani, per lo più emarginati nelle periferie delle grandi città, conducendo un tipo di vita molto precario. E’ un triste segnale di discriminazione, ma nello stesso tempo, forse, è anche un segnale di islamofobia.
Nei giorni dell’attentato di Parigi non sono mancati atti che, se non hanno raggiunto il livello di drammaticità come contro i vignettisti francesi, hanno dimostrato qualcosa di simile al terrorismo islamico: si è sparato contro una moschea, un ristorante musulmano è stato dato alle fiamme, i giovani studenti, molti dei quali musulmani, che non hanno aderito al minuto di silenzio imposto nelle scuole per ricordare le vittime, sono stati denunciati alla polizia, rischiando di essere accusati  di apologia di terrorismo…
Se c’è un dato da apprendere è che il comportamento vendicativo deve essere superato e prima di tutto da persone che, nello sviluppo della loro civiltà, hanno dato un particolare peso al significato del diritto, della giustizia, della democrazia e della libertà. La vendetta, così come la violenza, crea una spirale di odio interminabile nel provocare una catena di vittime, molte delle quali estranee ed innocenti.
Inoltre è emblematico, e pertanto bisogna considerarlo, quanto è successo dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 alle torri gemelle: il presidente di allora, Bush, si è lasciato andare a dichiarare “guerra infinita” al terrorismo, soprattutto islamico. Le sue parole,pronunciate forse in un momento di rabbia e di confusione, si tradussero nel giro di pochi giorni nel “Patriot Act”,che consentiva di rafforzare il potere della polizia e del corpo di spionaggio per ridurre il rischio di attentati, intromettendosi esageratamente nella privacy dei cittadini. Soltanto dopo 6 anni la legge del Patriot Act è stata dichiarata incostituzionale. Ma in tutto il territorio degli USA e in altre parti del mondo i terroristi dichiarati o presunti tali, finirono di vivere in condizioni disumane e torturati come a Guantanamo. Lo stesso vale per l’azione condotta in Iraq nella quale, oltre alle forze militari degli USA, parteciparono anche paesi alleati occidentali: quanti furono i morti e quanti i feriti?…
Penso che non sia fuori luogo affermare che una delle finalità dell’attentato di Parigi possa essere stata quella di creare panico nella società francese e in quella europea perchè, così agendo, si occupa la mente delle persone, rendendole succubi della paura. Probabilmente il terrorismo islamico si preoccupa di insidiare le menti dei cittadini europei, più che occupare dei territori. Si tratta di una vittoria malefica riuscire a destabilizzare emotivamente l’opinione pubblica europea, a creare diffidenza nei confronti di persone musulmane, a vivere nella paura.
Ma sarebbe altrettanto malefico pensare di reagire al terrorismo islamico con un terrorismo di Stato.
Certo è che, per quanto è successo prima, durante e dopo l’atto terroristico di Parigi, siamo molto lontani dall’atteggiamento e dallo spirito che manifestarono nel 1996 i sette monaci trappisti sgozzati dal GIA (Gruppi islamici armati) a Tibirine in Algeria, ben evidenziati nel testamento spirituale che il priore della comunità, Christian de Chergé, ha scritto alcune settimane prima di essere ucciso. Lo propongo per intero all’attenzione dei lettori perchè quanto è stato scritto ci induca a riflettere, ad analizzare, ma a non far cadere nell’oblio quanto è successo a Parigi o in altre parti del mondo, non per spirito di rivalsa o di vendetta, ma per ritrovare il filo conduttore per saper convivere, condividere e comprendere.
Se mi capitasse un giorno di essere vittima del terrorismo mi piacerebbe che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese. Che pregassero per me. Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato. La mia vita non ha un prezzo più alto di un ‘altra.. Non vale di meno né di più. In ogni caso non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per considerarmi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che mi può colpire alla cieca. Non posso auspicare una morte così; mi sembra importante dichiararlo. Infatti non vedo come potrei rallegrarmi del fatto che un popolo, che amo, sia indistintamente accusato del mio assassinio. Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che forse chiameranno la grazia del martirio, doverla a un algerino qualsiasi, soprattutto se questi dice di agire nella fedeltà a ciò che crede di essere l’islam. Conosco le caricature dell’islam che un certo islamismo incoraggia. E’ troppo facile mettersi la coscienza in pace, identificando questa religione con gli integrismi dei suoi estremisti. L’Algeria e l’islam, per me, sono un’altra cosa, sono un corpo e un’anima. Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno considerato con precipitazione un naïf o un idealista. Ma queste persone devono sapere che la mia più lancinante curiosità verrà finalmente soddisfatta. Ecco che potrò, a Dio piacendo, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come Lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua Passione, investiti dal dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre stabilire la comunione, ristabilire la rassomiglianza, giocando sulle differenze. Questa vita perduta, totalmente mia, totalmente loro, rende grazie a Dio.   E anche a te, amico dell’ultimo minuto, che non sapevi quel che facevi. Sì, anche per te voglio prevedere questo “Grazie” e questo “Addio”. E che sia dato a tutti di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piacerà a Dio, nostro Padre comune. Amen! Inschiallah!”.

mercoledì 18 febbraio 2015

«Lottate, ragionate col vostro cervello, ricordate che ciascuno è qualcuno, un individuo prezioso, responsabile, artefice di se stesso. Difendetelo il vostro io, nocciolo di ogni libertà. La libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere».
Oriana Fallaci

lunedì 16 febbraio 2015

LIBERA CHIESA IN LIBERO STATO?

da"Il FATTO QUOTIDIANO" | 16 febbraio 2015
La messa è finita, ma per i politici italiani non è mai cominciata. Papa Francesco ha deciso di non presiedere la celebrazione eucaristica con deputati e senatori durante la quaresima che inizierà con il mercoledì delle ceneri il 18 febbraio prossimo. A differenza del 2014, quando davanti a 500 parlamentari italiani, ai presidenti di Senato e Camera, a 9 ministri, 19 sottosegretari, 3 eurodeputati e 23 ex parlamentari Bergoglio aveva tuonato contro i corrotti, quest’anno non andrà in scena la sfilata di auto blu sotto al colonnato del Bernini in piazza San Pietro. Al posto di Francesco, sarà, invece, il vescovo ausiliare di Roma, monsignor Lorenzo Leuzzi, cappellano della Camera dei deputati, a presiedere la messa quaresimale in preparazione alla Pasqua con i parlamentari nella chiesa di San Gregorio Nazianzeno a Montecitorio.

Nessuna spiegazione ufficiale, neanche quella di un’agenda papale troppo fitta, difficile da rendere credibile con un Papa che celebra quasi tutti i giorni nella cappella di Casa Santa Marta. Le ipotesi, invece, sono tante. Prima fra tutte quella che Francesco non avrebbe apprezzato i commenti delusi dei politici dopo la sua dura omelia contro i corrotti. Nel 2014 era stata più che palpabile, infatti, l’amarezza dei parlamentari all’uscita dalla Basilica Vaticana dopo la messa col Papa. Un rito, iniziato alle 7 del mattino, che aveva costretto deputati e senatori a levatacce per essere puntali, con Bergoglio che non li aveva degnati nemmeno di uno sguardo e di una stretta di mano né prima, né dopo la celebrazione : si limitò, infatti, a salutare soltanto i presidenti del Senato e della Camera, Grasso e Boldrini, e il sottosegretario del Consiglio Delrio.

Ma ad accrescere l’amarezza dei parlamentari erano state le parole pronunciate da Bergoglio. Il Pontefice, infatti, ricordò che al tempo di Gesù c’era una classe dirigente che si era allontanata dal popolo, lo aveva abbandonato, incapace di altro se non di seguire la propria ideologia e di scivolare verso la corruzione. Dominavano soltanto interessi di partito e lotte interne. “Il cuore di questa gente, di questo gruppetto – aggiunse il Papa – con il tempo si era indurito tanto che era impossibile sentire la voce del Signore. E da peccatori, sono scivolati, sono diventati corrotti. È tanto difficile che un corrotto riesca a tornare indietro. Il peccatore, sì, perché il Signore è misericordioso e ci aspetta tutti. Ma il corrotto è fissato nelle sue cose, e questi erano corrotti”.

Proprio in quella omelia Francesco aveva sottolineato, inoltre, che i corrotti sono “uomini di buone maniere, ma di cattive abitudini”. Parole che sono state citate dal neo presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso di insediamento. Intanto, il prossimo 17 febbraio, nella sede dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede si terrà il vertice italo-vaticano, nell’anniversario della revisione del concordato. Per la prima volta Mattarella incontrerà il Segretario di Stato di Sua Santità Pietro Parolin, alla presenza delle più alte cariche delle due sponde del Tevere. In Vaticano si vocifera che il neo presidente della Repubblica potrebbe chiedere molto presto udienza a Papa Francesco che, subito dopo l’elezione, gli ha augurato di essere “al servizio dell’unità e della concordia del Paese” e di “promuovere il bene comune”.
Appello per la difesa della libertà religiosa in Italia
a cura del Comitato Promotore nazionale della Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico

L’approvazione da parte della Regione Lombardia di una legge che limita la possibilità di realizzare luoghi di culto, con l’obiettivo dichiarato di impedire la costruzione di moschee, viola la “Dichiarazione universale dei diritti umani” dell’ONU, l’art. 6 del Trattato dell’Unione Europea (e art. 17 del Trattato di Funzionamento UE) e la nostra Costituzione agli articoli 2 (tutela dei diritti fondamentali), 3 (principio di uguaglianza), 8 (tutela delle confessioni religiose), 19 e 20 (libertà di culto).

La libertà religiosa, peraltro, è calpestata anche da molti organi di informazione che, quotidianamente ed in modo esasperante, diffondono notizie, spesso non verificate o false, che tendono a creare un clima di intolleranza e violenza verso i credenti musulmani prendendo spunto dalle azioni di gruppi terroristici, se-dicenti islamici, negando così di fatto il principio costituzionale sancito dall’art. 27 il quale stabilisce che “la responsabilità penale è personale”.

Per tali motivi il Comitato promotore nazionale della giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico, composto da associazioni, giornali, singole personalità della cultura sia musulmani sia cristiani, insieme alle redazioni dei giornali che di seguito vengono riportati, lancia un appello per la difesa della libertà religiosa in Italia, e segnatamente per la realizzazione di una Legge sulla libertà religiosa.

Chiediamo a tutte le persone democratiche, alle organizzazioni laiche, a tutte le confessioni religiose italiane di prendere posizione contro tutte le iniziative legislative o amministrative o contro tutti quei mass-media che sostengono una nuova guerra di religione e fomentano il razzismo religioso che, quando si scatena, colpisce tutte le religioni indistintamente.

Non abbiamo bisogno di guerre, e meno che mai di quelle combattute nel nome di una qualsiasi fede o di Dio! Condividiamo l’idea espressa recentemente da alcuni consiglieri comunali di Pisa là dove si afferma che «Chi usa il nome dell’Islam per giustificare il proprio terrorismo offende e diffama l’Islam così come chi usasse il nome del Cristianesimo per giustificare la propria violenza diffamerebbe il cristianesimo».

Nessuno più deve essere discriminato per la sua appartenenza religiosa. Basta antisemitismo, basta islamofobia, basta cristianofobia!

Chiediamo infine alla società civile, a tutte le realtà associative e laiche, a tutte le comunità religiose cristiane e musulmane che dal 2001 hanno dato vita alla Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico di riprendere le iniziative di sensibilizzazione della popolazione per impedire che il nostro popolo sia tirato dentro ad una sciagurata e folle guerra di religione scatenata per motivi politici.

Roma, 30 gennaio 2015

domenica 15 febbraio 2015

Don Milani: un profeta contro la guerra
di Mauro Matteucci e Don Massimo Biancalani
Siamo dunque tragicamente nel reale. Allora la guerra difensiva non esiste più.
Allora non esiste più una “guerra giusta” né per la Chiesa né per la Costituzione.
In questo mese di febbraio ricorre un anniversario che probabilmente molti ignorano – ma che in questa drammatica fase storica è ancora più necessario ricordare - quello della decisione da parte di don Lorenzo Milani di scrivere una lettera di risposta ai cappellani militari, che l’11 febbraio del 1965 ( sono perciò 50 anni) – in un comunicato comparso su La Nazione, avevano considerato un insulto alla patria e ai caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà. Il maestro di Barbiana venne denunciato da alcuni veterani di guerra per la sua lettera – rileggeva stando dalla parte degli ultimi, la storia d’Italia e del suo esercito – che, dopo averla discussa e scritta in un mese con i suoi ragazzi, aveva inviato alla stampa: in realtà fu pubblicata solo dal periodico comunista Rinascita. Essendo da tempo gravemente ammalato, don Lorenzo non poté presentarsi al processo, ma inviò la Lettera ai giudici, che rimane insieme all’altra uno dei documenti più alti sul piano educativo della storia del nostro paese. Don Lorenzo venne assolto, ma, in seguito al ricorso, il contenuto della lettera venne condannato. Il priore di Barbiana era scomparso il 26 giugno 1967 prima della sentenza definitiva.
Ricordare oggi le lettere di don Lorenzo è di straordinaria attualità, mentre siamo in presenza di una devastante – e ignorata o mistificata dai media e dai politici – terza guerra mondiale a pezzi, che dissolve stati, provoca centinaia di migliaia di vittime civili, esodi di milioni di rifugiati......
Don Lorenzo aveva profeticamente denunciato e previsto tutto questo, quando diceva con grande fermezza e lucidità che le guerre moderne sarebbero state sempre più guerre contro le popolazioni civili e che gli pareva coerente dire che a una guerra simile il cristiano non potrà partecipare nemmeno come cuciniere.
L’obbedienza milaniana presuppone l’ “I CARE”, il “mi sta a cuore”, l’assunzione di responsabilità e di senso civico, di cura per l’altro che soffre. La pace deve porsi perciò all’interno di un processo che riguarda le nostre scelte, il nostro quotidiano. Ogni nostro gesto può contenere i semi della pace o della guerra. Se vogliamo essere rispettosi dell’insegnamento di don Milani, guerra e pace dipendono da ciascuno di noi.

CONTRO IL FANATISMO

" Ora mi torna in mente una vecchia storiella, dove uno dei personaggi - ovviamente siamo a Gerusalemme e dove sennò -è seduto in un piccolo caffè, c'è una persona anziana seduta vicina a lui, così i due cominciano a chiacchierare. E poi salta fuori che il vecchio è Dio in persona. D'accordo, il personaggio non ci crede subito, lì per lì, però grazie ad alcuni indizisi convince che è seduto al tavolino con Dio.Ha una domanda da fargli, ovviamente molto pressante. Dice: "Caro Dio , per favore dimmi una volta per tutte, chi possiede la vera fede? I cattolici o i protestanti o forse gli ebrei o magari i musulmani? Chi possiede la vera fede?"Allora Dio, in questa storia, risponde: "A dire la verità, figlio mio, non sono religioso, non lo sono mai stato, la religione nemmeno mi interessa.."

(Amos Oz)

sabato 14 febbraio 2015

Il cardinale Wuerl risponde a Burke (e ai dissenzienti)


ANDREA TORNIELLICITTÀ DEL VATICANO
 «Una delle cose che ho imparato è che c'è un filo comune che attraversa tutti questi dissidenti. Essi sono in disaccordo con il Papa, perché lui non è d'accordo con loro e non segue le loro posizioni». È questa la conclusione a cui arriva il cardinale arcivescovo di Washington, Donald Wuerl, in un articolo pubblicato sul suo blog, intitolato «Il Papa, pietra di paragone di fede e unità».

L'oggetto del commento del cardinale statunitense sono coloro che all'interno della Chiesa esprimono il loro dissenso verso il Papa. Wuerl non cita nomi, ma dice di aver ricevuto per posta elettronica «un'intervista» e «un articolo» di «confratelli vescovi». Nei giorni scorsi aveva fatto molto discutere l'intervista del cardinale Leo Raymond Burke con un programma della tv France2, durante la quale il porporato aveva affermato di voler «resistere» al Papa nel caso decidesse di aprire alla possibilità dei sacramenti per i divorziati risposati.

Wuerl racconta di essere stato presente domenica scorsa all'Angelus del Papa, di fronte a decine di migliaia di persone, ricordando come «questo popolarissimo e venerato successore di Pietro» abbia parlato «della tenerezza di Gesù, della sua compassione amorevole e nello stesso tempo del nostro bisogno di essere attenti e compassionevole con gli altri esseri umani». Ma, ha osservato il cardinale, l'ammirazione che si riscontra in ogni parte del mondo nei confronti di Francesco  «non è condivisa da tutti».

Racconta il Cardinale Wuerl che quando era un giovane seminarista,aveva sperimentato per la prima volta il «dissenso dalla dottrina e la prassi di un Papa». Quel Papa era Giovanni XXIII, e l'insegnamento che non venne «bene accolto da tutti» fu l'enciclica Mater et magistra. Uno dei dissenzienti aveva usato un'espressione che ebbe successo in certi circoli: la Chiesa, «madre sì, maestra no». «Insieme a un certo numero di miei compagni di classe, ricordo di essere rimasto scandalizzato da questo rifiuto dell'enciclica».

Nel 1963 san Giovanni XXIII di nuovo divenne oggetto delle ire di quanti non amavano la sua enciclica Pacem in terris, come pure il beato Paolo VI per la sua enciclica Populorum progressio nel 1967 e certamente per la sua enciclica Humanae vitae nel 1968. Il dissenso di alcuni preti verso l'insegnamento dell'Humanae vitae li ha portati a lasciare il loro ministero sacerdotale».

Ma Wuerl aggiunge: «Su un livello molto meno importante, c'è stato un notevole sconcerto tra alcuni nel 1969, quando il Segretario di Stato di Papa Paolo VI ha pubblicato un'istruzione riguardante la veste dei vescovi e dei cardinali. Lo sforzo di razionalizzare e di farla finita con cose quali la cappa magna (il lungo mantello di vescovi e cardinali, con una lunga, lunga coda) sconvolse un po'».

Il cardinale statunitense ricorda che anche il breve pontificato di Papa Luciani «non fu privo di critiche. Alcuni scrissero di aver trovato il suo sorriso non degno di un Papa in quanto diminuiva la gravitas (gravità o serietà) del suo ufficio».

Poi, ricorda ancora Wuerl, arrivò san Giovanni Paolo II. «Tutto ciò che ha scritto ha ricevuto qualche critica, dalle sue encicliche sociali, come Laborem exercens del 1981 o Sollicitudo rei socialis del 1987 o Centesimus annus del 1991, alla sua enciclica sulla permanente validità dello sforzo missionario della Chiesa, Redemptoris missio. Ci sono stati alcuni che continuamente lo hanno criticato per i suoi viaggi, anche se ha aiutato nei suoi quasi 27 anni come Papa a rivitalizzare la Chiesa. Personalmente, ho sempre trovato le critiche di san Giovanni Paolo II particolarmente dolorose perché ho tanto affetto e ammirazione per lui».

Il cardinale ricorda, infine, i dissensi che hanno accompagnato il pontificato di Benedetto XVI, «buono, brillante e santo pastore della Chiesa». Non ci si doveva quindi aspettare che Francesco sarebbe rimasto immune al fenomeno. «Una delle cose che ho imparato in tutti questi anni, a partire da quei primi ingenui giorni del 1961, è che, esaminando più attentamente, si riscontra un filo comune che attraversa tutti questi dissidenti. Essi sono in disaccordo con il Papa, perché lui non è d'accordo con loro e non segue le loro posizioni. Il dissenso è forse qualcosa che avremo sempre, deplorevole in quanto tale, ma avremo anche sempre Pietro e suo successore come una roccia e pietra di paragone della nostra fede e della nostra unità».

giovedì 12 febbraio 2015

Divorziati e risposati, cardinale Burke contro Bergoglio: “No ad aperture”

Burke, non nuovo ad attacchi durissimi controBergoglio, non ci sta a rimanere in silenzio nei mesi precedenti il secondo Sinodo dei vescovi sulla famiglia che si terrà nell’ottobre 2015 e dal quale dovranno uscire soluzioni concrete per l’accesso ai sacramenti dei divorziati risposati.

Per il porporato, infatti, “non c’è dubbio che quello che stiamo vivendo è un tempo difficile, doloroso e preoccupante. Io non vorrei – sottolinea Burke – fare del Papa un nemico”. Anche se la sua opposizione alla linea di Bergoglio è netta e chiara: “Non posso accettare che si possa dare la comunione a una persona che sta vivendo un’unione irregolare perché è adulterio. E la questione delle unioni tra persone omosessuali non ha niente a che fare col matrimonio. Questa è una sofferenza che alcune persone hanno di essere attratte sessualmente, contro la natura, da persone dello stesso sesso”. Per il cardinale, quindi, nessun tipo di apertura per idivorziati risposati e nemmeno per gli omosessuali, nonostante Francesco abbia affermato, pochi mesi dopo la sua elezione: “Chi sono io per giudicare un gay?”. E alla vigilia del primo Sinodo sulla famiglia abbia chiesto di “prestare attenzione ai battiti di questo tempo”.

Per Burke, però, nonostante questo acceso dibattito, “la Chiesa non è minacciata perché il Signore ci ha assicurato, come ha detto a san Pietro nel vangelo, che le forze del male non prevarranno, non praevalebunt come diciamo in latino, che non avranno la vittoria sulla Chiesa”. Eppure gli attacchi del porporato contro Papa Francesco si intensificano e si fanno sempre più pesanti. “Molti – aveva raccontato Burke dopo il primo Sinodo – mi hanno manifestato preoccupazione in un momento così critico, nel quale c’è una forte sensazione che la Chiesa sia come una nave senza timone, non importa per quale motivo”.
E su Bergoglio aveva precisato: “Ho tutto il rispetto per il ministero petrino e non voglio sembrare di essere una voce contraria al Papa. Vorrei essere un maestro della fede con tutte le mie debolezze, dicendo la verità che oggi molti avvertono. Soffrono un po’ di mal di mare perché secondo loro la nave della Chiesa ha perso la bussola”. Eppure c’è chi in Vaticano ricorda che, una volta, per attacchi simili al Pontefice, a un cardinale sarebbe stata tolta la berretta rossa.
in "IL FATTO QUOTIDIANO",12/2/15.

mercoledì 11 febbraio 2015

Educazione religiosa
Michael Kuhn (Comece:Commissione degli Episcopati dell'Unione Europea) spiega che tutto nasce dalla spinta alla laicità con la conseguenza di un insegnamento sempre più radicalizzato e sottratto allo sguardo pubblico. Occorre , invece, "condividere e scambiarsi tra gli Stati Membri le 'best practice' realizzate. Occorre incontrarsi e parlare su cosa possiamo fare per combattere la radicalizzazione, come educare alla tolleranza religiosa"

Cosa insegnare?
“Ci sono molte discussioni a riguardo. È desiderio comune dei genitori che i ragazzi possano ricevere informazioni esatte sulle altre religioni alla luce del fatto che in Europa le nostre società sono sempre più pluralistiche e siamo sempre più confrontati con la presenza di persone di altre fedi e culture. Se si guarda, per esempio, al sistema educativo in Francia, si vede che esso è fondato sulla neutralità partendo dal presupposto che la religione è un fatto totalmente privato. Questo approccio però non tiene conto del fatto che le persone sono differenti e queste differenze dipendono anche dall’appartenenza religiosa. Sono cattolici, ortodossi, protestanti, musulmani, ebrei, indù… o non hanno alcuna fede religiosa. Qui sta la sfida e l’Europa ha difficoltà a trattarla sebbene si tratti di una priorità”.

Quindi?
“Dobbiamo accettare il fatto che viviamo in una società plurale e dobbiamo insegnare ai ragazzi come comportarsi in una società in cui non ci si combatte gli uni contro gli altri, ma pur appartenendo a religioni e convinzioni diverse, si condividono valori comuni, si rispettano gli stessi diritti e doveri e insieme si contribuisce a costruire il bene comune”. Cosa si sta facendo a livello di Unione europea?

Cosa si sta facendo a livello di Unione europea?
“Il sistema educativo è una materia che viene gestita dagli Stati membri e l’Unione europea non ha competenze in merito in questo campo. In alcuni Paesi, come la Germania per esempio, il sistema educativo dipende addirittura dai länder. È quindi normale avere approcci differenti che dipendono anche dai rapporti che gli Stati hanno con le Chiese. Il rischio comunque è che se noi non abbiamo un buon sistema educativo a scuola, il percorso educativo rispetto all’insegnamento delle religioni tenderà sempre più a privatizzarsi e verrà offerto in luoghi dove poi è difficile porre un controllo effettivo. È sicuramente un problema emergente e non solo in Francia o nel Regno Unito. Quello che si può fare è condividere e scambiarsi tra gli Stati membri le ‘best practice’ realizzate in campo. E questo realmente si può fare. Occorre cioè incontrarsi e parlare su cosa possiamo fare per combattere la radicalizzazione, come educare alla tolleranza religiosa. Non possiamo avere programmi comuni, ma almeno possiamo avere una sorta di piattaforma di dialogo alla quale guardare per favorire la tolleranza, la comprensione reciproca, l’apertura per le altre religioni”.
Da SIR - 11/02/15
Il card. Ortega: «Il disgelo contagi il mondo intero»

 «Permettetemi in questo giorno di ringraziare il Signore per quanto è avvenuto recentemente a Cuba». Lo ha detto il cardinale Jaime Ortega, arcivescovo dell'Avana, durante la messa a San Giovanni in Laterano per i 47 anni della Comunità di Sant'Egidio.

«Come sapete, dal mese di dicembre - ha affermato Ortega -, per la straordinaria iniziativa di Papa Francesco, è avvenuto il miracolo di un disgelo, la fine di un tempo che sembrava non finire più. Il muro di diffidenza che divideva gli Stati Uniti e Cuba sembrava incrollabile. La storia pareva ferma. Nulla però è impossibile a Dio se non ci si rassegna».

«Lungo gli anni - ha proseguito il porporato cubano - non abbiamo perso la speranza. La storia è piena di sorpresa. Lo dico anche per consolarci, quando siamo presi dal pessimismo. E ancora oggi il mondo vive vere crisi internazionali. Possa il segnale di disgelo a Cuba contagiare il mondo intero, perché si affermi il dialogo laddove ci si combatte. Preghiamo oggi anche per i Paesi che soffrono la guerra, dall'Ucraina alla Siria e l'Iraq».

«La pazienza nel tessere il dialogo e la perseveranza nella preghiera - ha detto ancora Ortega - hanno portato il frutto benedetto di un nuovo tempo per Cuba e gli Stati Uniti: un tempo di incontro e dialogo. Il dialogo è portatore di bene per tutti. Il mio cuore è pieno di grande speranza per il futuro del popolo cubano e sono lieto di condividere questa gioia con voi questa sera».

Durante la cerimonia il cardinale non ha mancato di ricordare la figura di mons Romero: «Noi tutti, per sperare, abbiamo bisogno di vedere icone di speranza. Una di queste, che la Chiesa ci ha da poco indicata, è monsignor Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador, amico di Dio, dei poveri e del suo popolo. Un vescovo indimenticabile per la sua fede e la sua parola, un martire dei nostri tempi».

Un disperato bisogno di dialogo
di Desmond Tutu in “La Stampa” del 10 febbraio 2015
L’umanità appare tragicamente intenta ad autodistruggersi da quando i terroristi hanno sferrato un attacco al cuore degli Stati Uniti dirottando degli aerei, nel settembre di 14 anni fa.
La natura estrema degli attacchi dell’ 11/9 avrebbe potuto concederci una pausa per pensare e condurre a qualche profonda e concreta riflessione sulla nostra vulnerabilità come persone - e sulla
nostra interdipendenza. Ma prima che il mondo avesse un momento per considerare il contesto socio-politico ed economico globale che ha dato origine a quel terribile attacco e pensare al modo migliore per porvi rimedio, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno risposto con estrema forza, invadendo l’Iraq e l’Afghanistan - e creando a Cuba un centro di detenzione che è diventato simbolo di immoralità e di violazioni dei diritti umani.
Piuttosto che concentrarsi sulla priorità della risoluzione del conflitto in Terra Santa, che gioca un ruolo fondamentale nel radicalizzarsi degli atteggiamenti tra i seguaci di fedi diverse, si è lasciato che la violenza si incancrenisse, che le divisioni si intensificassero. L’estrema violenza che Israele ha scatenato l’anno scorso contro Gaza può aver fermato temporaneamente i razzi di Hamas - ma è anche servita a rafforzare ulteriormente l’odio.
Nuovi gruppi che affermano di agire in nome di Dio sono emersi a terrorizzare l’Africa e il Medio Oriente, e a seminare la paura in tutto il mondo. E competono per attirare l’attenzione su di loro commettendo atti sempre più mostruosi. E le nazioni potenti rispondono nell’unico modo che sembrano conoscere, con più bombe e droni e uccisioni.
Con la recente immolazione del pilota giordano Moaz Kasasbeh il comportamento umano ha raggiunto un nuovo vertice di bassezza ed è deplorevole anche la risposta della Giordania,l’esecuzione capitale dei prigionieri. La violenza genera violenza. Il mondo ha disperatamente bisogno di dialogo, non di risposte rabbiose, non di guerra. L’umanità ha bisogno di leader dotati di una visione abbastanza ampia da riconoscere l’umanità di tutti, non solo dei loro simili o di quanti condividono gli stessi valori culturali.
Non importa da dove veniamo o in quale Dio crediamo, siamo alla fine sorelle e fratelli di una stessa famiglia, la famiglia umana, l’unica famiglia umana, la famiglia di Dio - noi tutti - e questa terra limitata che condividiamo è l’unica che abbiamo. Solo parlando e ascoltando e rispettandoci a vicenda possiamo creare un mondo migliore, più giusto e più compassionevole. Il mondo sicuro che la stragrande maggioranza di noi vuole, che valorizza tutte le persone, che riconosce la loro interconnessione - che capisce che il mio benessere è il vostro benessere e il mio successo è legato al vostro.
Questa è la più grande sfida del nostro tempo.
(Diffuso per la Desmond Tutu e Leah Legacy Foundation da Oryx media)

lunedì 9 febbraio 2015

Bressanone, il Sinodo
affronta i "temi tabù"
Irene Argentiero (*)
Lo scorso fine settimana a Bressanone l’assemblea dei sinodali che partecipano al secondo Sinodo diocesano si è espressa chiaramente a favore dell’abolizione del celibato sacerdotale, del diaconato femminile, dell’ordinazione femminile, la comunione per i separati divorziati e l’amministrazione dell’unzione degli infermi da parte di laici.
Non essendo argomenti di pertinenza di un vescovo diocesano, l’assemblea non li ha votati, ma ha comunque espresso un’opinione, che confluirà in un documento che - fin dall’inizio del Sinodo - il vescovo di Bolzano-Bressanone, Ivo Muser, si è detto disponibile a presentare ai vertici della Chiesa.
Al di là dell’analisi della consultazione - da cui emerge che con molta probabilità non solo i laici, ma anche alcuni consacrati si sono dichiarati favorevoli al diaconato femminile, alla comunione ai separati risposati e all’amministrazione dell’unzione degli infermi da parte di laici - quello che è emerso dalla terza assemblea sinodale invita a riflettere. E non tanto sulla materia in sé (che tutti sanno essere di competenza della Chiesa universale), ma sulle ragioni che hanno portato ad una chiara posizione di fronte a quelli che vengono considerati i “temi tabù”.
Non c’è dubbio che la notizia è di quelle che danno fiato al dibattito sui vari mezzi di comunicazione e che qualcuno può addirittura pensare che possa “far tremare le colonne del tempio” (anche se, sinceramente, sono convinta che il colonnato del Bernini, che ha retto splendidamente per tanti secoli, riuscirà a sopportare anche questo scossone).
Non credo sia un atteggiamento costruttivo fissare la propria attenzione sul “dito che indica la luna”: per quanto “diocesi di confine”, quella altoatesina non è una diocesi “rivoluzionaria”.
Non spetta certo a noi, inoltre, puntare tutte le nostre energie a fissare la luna. Non ci è dato sapere se fra dieci, venti o trent’anni ci saranno le donne-prete o se “anche i preti si potranno sposare” (come cantava Lucio Dalla ne “L’anno che verrà”). Non possiamo neanche sapere se in futuro ci saranno dei laici incaricati di amministrare l’unzione degli infermi (che in questo caso sarà svincolata dal sacramento della riconciliazione).
Quello che possiamo cercare di osservare è la mano da cui si è alzato quel dito che indica la luna. Perché se quel dito si è levato in alto, superando la paura di essere criticato, giudicato e messo in disparte per le proprie idee, una ragione c’è. Ed è su quella ragione che noi, oggi, come Chiesa locale e come Sinodo diocesano, possiamo cercare di fare qualcosa. Senza avere la supponenza di risolvere certo tutti i problemi o di avere la bacchetta magica in tasca. Ma con chiarezza e trasparenza e grande semplicità.
Credo che in questo si possa “declinare” l’invito di Papa Francesco ad essere “ospedale da campo”, luogo in cui curare le ferite della vita con la medicina del Vangelo.
È bene allora chiedersi come mai sia, ad esempio, così forte l’istanza del diaconato (o del sacerdozio) femminile. Una risposta la si può trovare proprio nel dibattito di sabato scorso, quando una sinodale ha ricordato all’assemblea che nelle parrocchie le donne non devono essere utili solo per pulire la chiesa.
Ed è bene interrogarsi sul perché sia così forte oggi la richiesta di permettere ad alcuni laici di amministrare il sacramento dell’unzione degli infermi. Se ci si ferma a “guardare il dito” si è tentati magari a pensare che i laici vogliano fare i preti, quasi fossero alla ricerca di “celebrità”. Forse sbaglio, ma credo che non sia così: confrontarsi con la malattia, con il dolore e accompagnare le persone nel loro ultimo tratto di cammino terreno è tutt’altro che facile e non è certo fonte di “glorie terrene”.
Se però, anche in questo caso, si guarda alla “mano”, si scoprono le ragioni di una simile richiesta. Quando, infatti, nel corso del dibattito sinodale, un’assistente pastorale ospedaliera racconta che spesso le capita di dover fare sei o sette telefonate per trovare un sacerdote che abbia il tempo per portare il sacramento dell’unzione ad un malato che ne ha fatto richiesta, allora molte cose si fanno più chiare.
E ci siamo chiesti come mai è tanto forte la richiesta di ammettere alla comunione anche i separati divorziati? Non è che queste persone, nelle nostre comunità, non si sentono ancora veramente accolte, ma vivono l’imbarazzo di essere continuamente giudicate perché al momento dell’eucaristia rimangono sedute tra i banchi, mentre i vicini si alzano?
Noi non possiamo risolvere i problemi. Il nostro compito oggi è quello di guardare a queste situazioni, di non distogliere lo sguardo da queste ferite, di non rimandare semplicemente il tutto ad altri, nascondendosi dietro a un “non è di mia competenza”. Perché questi problemi che si presentano a noi oggi. Qui ed ora.
Noi non possiamo sanare queste ferite, ma possiamo cercare di fasciarle, con il poco (che poi tanto poco non è) che ci è messo a disposizione. Con un po’ più di accoglienza, con un po’ più di attenzione, con un po’ più di quella carità evangelica e di quella misericordia che anche noi abbiamo ricevuto in dono.
Il dito oggi indica la luna. Per secoli e secoli l’uomo ha guardato alla luna, sognando di raggiungerla. Nel frattempo però non è rimasto immobile in attesa di vedere realizzati, quasi per magia, i suoi sogni.
Il dito oggi indica la luna. Ma noi proviamo a guardare anche la mano, cerchiamone le ferite, abbracciamole, fasciamole.
Il dito continuerà a indicare la luna. Ma la mano sarà meno dolorante. Se riusciremo in questo, noi la luna l’avremo già raggiunta.

(*) direttrice “Il Segno” (Bolzano-Bressanone)

domenica 8 febbraio 2015

ASCOLTARE

"Il primo servizio che si deve al prossimo è quello di ascoltarlo. Come l’amore di Dio incomincia con l’ascoltare la sua Parola, così l’inizio dell’amore per il fratello sta nell'imparare ad ascoltarlo. E’ per amore che Dio non solo ci dà la sua Parola, ma ci porge pure il suo orecchio. 
Altrettanto è opera di Dio se siamo capaci di ascoltare il fratello… ascoltare può essere un servizio ben più grande che parlare.” 
(D. Bonhoeffer)

«C'È CIBO PER TUTTI, MA QUEST'ECONOMIA UCCIDE»

Papa Francesco ha inviato un videomessaggio all’incontro “Expo delle idee” a Milano, praticamente il primo appuntamento di Expo 2015. Bergoglio torna ad insistere sul fatto che bisogna essere custodi e non padroni della terra. Il testo integrale del videomessaggio lo trovi nella sezione "Documenti" di questo stesso blog.

«Più spazio alle donne in Chiesa e società, basta violenze»

 
 


IACOPO SCARAMUZZI

Nell’udienza del Papa alla plenaria del pontificio consiglio della Cultura il richiamo al loro ruolo pastorale e teologico. «Il corpo femminile viene deturpato anche da coloro che ne dovrebbero essere i custodi e compagni»

C’è «urgenza» di una presenza «più capillare ed incisiva» delle donne nella Chiesa «nelle responsabilità pastorali, nell’accompagnamento di persone, famiglie e gruppi, così come nella riflessione teologica», affinché esse non si sentano più «ospiti» ma siano «pienamente partecipi»: lo ha detto il Papa nel corso di un’udienza all’assemblea plenaria del pontificio consiglio della Cultura del cardinale Gianfranco Ravasi, riunito in questi giorni in Vaticano sul tema «Le culture femminili: uguaglianza e differenza». Francesco ha sottolineato, più in generale, che è necessario evitare un approccio «ideologico» alla questione dell’uguaglianza di genere e che bisogna garantire «la libertà di scelta per le donne, affinché abbiano la possibilità di assumere responsabilità sociali ed ecclesiali, in un modo armonico con la vita familiare». Dure parole contro le «dolorose ferite inflitte, talvolta con efferata violenza» al corpo delle  donne, che, oltre ad essere vittima di tante «forme di schiavitù, di mercificazione, di mutilazione», viene «aggredito e deturpato anche da coloro che ne dovrebbero essere i custodi e compagni di vita».

Bisogna «studiare criteri e modalità nuovi affinché le donne si sentano non ospiti, ma pienamente partecipi dei vari ambiti della vita sociale ed ecclesiale», ha detto Jorge Mario Bergoglio. «Questa è una sfida non più rinviabile. Lo dico ai Pastori delle comunità cristiane, qui in rappresentanza della Chiesa universale, ma anche alle laiche e ai laici in diversi modi impegnati nella cultura, nell’educazione, nell’economia, nella politica, nel mondo del lavoro, nelle famiglie, nelle istituzioni religiose».

Il Pontefice argentino ha poi offerto alcune «linee-guida» ricalcando i quattro punti all’ordine del giorno dell’assemblea del dicastero vaticano. Sul primo aspetto, «Tra uguaglianza e differenza: alla ricerca di un equilibrio», il Papa ha affermato che esso «non va affrontato ideologicamente, perché la lente dell’ideologia impedisce di vedere bene la realtà» e bisogna invece focalizzare l’attenzione sulla «relazione»: «Da tempo ci siamo lasciati alle spalle, almeno nelle società occidentali, il modello della subordinazione sociale della donna all’uomo, un modello secolare che, però, non ha mai esaurito del tutto i suoi effetti negativi», ha notato Francesco, «abbiamo superato anche un secondo modello, quello della pura e semplice parità, applicata meccanicamente, e dell’uguaglianza assoluta» e oggi «la relazione uomo donna dovrebbe riconoscere che entrambi sono necessari in quanto posseggono, sì, un’identica natura, ma con modalità proprie». Quanto alla «generatività», questa tematica «rivolge uno sguardo intenso a tutte le mamme, e allarga l’orizzonte alla trasmissione e alla tutela della vita, non limitata alla sfera biologica, che potremmo sintetizzare attorno a quattro verbi: desiderare, mettere al mondo, prendersi cura e lasciar andare».

Quando ha affrontato il terzo punto, «il corpo femminile tra cultura e biologia», il Papa ha notato che esso «ci richiama la bellezza e l’armonia del corpo che Dio ha donato alla donna, ma anche le dolorose ferite inflitte, talvolta con efferata violenza, ad esse in quanto donne. Simbolo di vita, il corpo femminile viene, purtroppo non di rado, aggredito e deturpato anche da coloro che ne dovrebbero essere i custodi e compagni di vita». Bergoglio, in particolare, ha sottolineato la necessità di sconfiggere «le tante forme di schiavitù, di mercificazione, di mutilazione del corpo delle donne» e affrontare, in particolare, la «dolorosa situazione di tante donne povere, costrette a vivere in condizioni di pericolo, di sfruttamento, relegate ai margini delle società e rese vittime di una cultura dello scarto».

Infine, quarta tematica, «Le donne e la religione: fuga o ricerca di partecipazione alla vita della Chiesa?»: «Sono convinto – ha detto il Papa – dell’urgenza di offrire spazi alle donne nella vita della Chiesa e di accoglierle, tenendo conto delle specifiche e mutate sensibilità culturali e sociali. E’ auspicabile, pertanto, una presenza femminile più capillare ed incisiva nelle Comunità, così che possiamo vedere molte donne coinvolte nelle responsabilità pastorali, nell’accompagnamento di persone, famiglie e gruppi, così come nella riflessione teologica. Non si può – ha aggiunto il Papa – dimenticare il ruolo insostituibile della donna nella famiglia. Le doti di delicatezza, peculiare sensibilità e tenerezza, di cui è ricco l’animo femminile, rappresentano non solo una genuina forza per la vita delle famiglie, per l’irradiazione di un clima di serenità e di armonia, ma anche una realtà senza la quale la vocazione umana sarebbe irrealizzabile. Si tratta, inoltre, di incoraggiare e promuovere la presenza efficace delle donne in tanti ambiti della sfera pubblica, nel mondo del lavoro e nei luoghi dove vengono adottate le decisioni più importanti, e al tempo stesso mantenere la loro presenza e attenzione preferenziale e del tutto speciale nella e per la famiglia. Non bisogna lasciare sole le donne a portare questo peso e a prendere decisioni, ma tutte le istituzioni, compresa la comunità ecclesiale, sono chiamate a garantire la libertà di scelta per le donne, affinché abbiano la possibilità di assumere responsabilità sociali ed ecclesiali, in un modo armonico con la vita familiare».

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