mercoledì 28 maggio 2014

La moglie del prete

di Paolo Rodari, in “la Repubblica” del 19 maggio 2014
C'è chi le ha chiamate per lungo tempo «le rivali di Dio». Ma oggi, nell’era di Francesco, il Papa
che come Giovanni XXIII ritiene che la medicina della Chiesa sia la misericordia — senza la carità
«non sono nulla», scrisse san Paolo ai Corinzi — l’ignominia potrebbe finalmente essere cancellata.
Sono donne come tante, che a un certo punto del cammino si sono innamorate — ricambiate — di
un prete e, a motivo di questo amore, hanno patito sofferenze non da poco. Guardate con sospetto,
molte hanno capitolato soffocando i propri sentimenti. Altre hanno tenuto duro e, nella
clandestinità, hanno vissuto da amanti il resto della propria vita. Altre ancora, invece, sono uscite
allo scoperto assieme al proprio compagno, anch'egli tuttavia da subito schedato all'interno di una
precisa categoria, quella degli «spretati». “Le défroqué” (Lo spretato), non a caso, è il titolo con cui
nel 1953 Leo Jannon portò nelle sale un film con epilogo drammatico dedicato alla vita di un prete
che lasciò l’abito. A significare che nel film, come nella realtà, lei e lui vivono il medesimo destino
di esclusi perché ribelli, gente che in qualche modo va oltre le regole del consentito. Certo, dopo il
Concilio Vaticano II molte cose sono cambiate. Anche se è pur vero che per tutti Giovanni Paolo II
si batté il petto nel grande giubileo del 2000 (ebrei, scismatici, eretici e perfino streghe) ma non per
i preti che hanno abbandonato l’abito per sposarsi, tanto meno per le rispettive consorti. Sono
centomila i sacerdoti che negli ultimi cinquant'anni (oggi sono circa settantamila quelli in vita, seimila
soltanto in Italia) hanno lasciato il sacerdozio, la maggior parte di essi per amore di una donna.
Fra le ventisei donne che hanno scritto a Francesco chiedendogli di togliere l’obbligo del celibato
sacerdotale non c’è Anna Ferretti, moglie da più di trent'anni di un sacerdote della diocesi di
Napoli. Ma anche lei ritiene sia questo il tempo per ricordare che «il celibato non è un dogma ma
una legge. E che un prete che decide di sposarsi può portare nuovo amore anche dentro la stessa
Chiesa». Dice: «Ho conosciuto mio marito in parrocchia. A un certo punto abbiamo capito insieme
che dovevamo andare al di là di una amicizia. Da quel momento mio marito non ha più celebrato
per scelta. Siamo rimasti nella Chiesa, ancora adesso mio marito tiene un corso per fidanzati. Un
sacerdote a sua volta sposato, ci ha sposati. Il nostro matrimonio non è scritto nei libri della Chiesa.
È scritto però in cielo, le carte sono relative».
Gianni Gennari, teologo, oggi non esercita più il ministero ma ancora, dice, «mi sento prete, sono
prete». Racconta: «Nell’84 mi ero appena sposato con una dispensa pro gratia di Giovanni Paolo II
che mi fu ottenuta direttamente dal cardinale Ratzinger. Ricordo che facendo un’intervista al
cardinale Martini per il Tg3 , lui mettendomi una mano sulla spalla mi disse sorridendo: “Caro don
Gianni, forse sei arrivato troppo presto”. In quegli stessi anni, fra l’altro, io e mia moglie siamo stati
amici di Jerónimo Podestá, vescovo argentino sposato con Clelia Luro. Quando venivano a Roma
spesso erano a pranzo a casa nostra». Podestà lasciò per Clelia l’episcopato. Ma Jorge Mario
Bergoglio non lasciò mai loro: fino alla morte di entrambi mantenne un contatto.
Gennari, circa l’obbligo del celibato, ha le idee chiare: «Il celibato obbligatorio non è un dogma,
non c’è di mezzo alcuna verità di fede, è una legge della Chiesa che pure per secoli ha avuto anche
preti sposati e Papi sposati e Papi figli di Papi. Tra l’altro le Chiese cattoliche di rito orientale hanno
ancora oggi preti felicemente sposati. La legge fu fissata a metà del secolo decimo sesto dal
Concilio di Trento convocato da Papa Paolo III, Alessandro Farnese, padre di quattro figli ». Ma,
dice ancora, «io non contesto la validità della legge del celibato: da quando c’è e finché c’è va
osservata da tutti i preti di rito latino che ne fanno promessa. Chi pensa di non osservarla è tenuto a
cessare l’esercizio del ministero presbiterale. Tuttavia è bene ricordare che, come ripete spesso
Francesco oggi, i pericoli per la santità presbiterale non vengono solo dal “pansessualismo
violento”, ma anche da superbia, carrierismo, denaro, potere sulle coscienze altrui e pretesa di
comandare anche dove dovremmo ascoltare e servire… Il “peccato delle origini” non ha reso
“fragile” l’uomo, celibe o sposato, solo nella sessualità. È un problema aperto e rispettando tutti serve pazienza e testimonianza »....
Un altro lieve segnale viene della diocesi di Roma. L’altro ieri un circuito di comunità d’ispirazione
conciliare, che spinge sui temi della riforma, di cui fa parte anche Noi Siamo Chiesa ha organizzato
un incontro dal titolo “Chiesa di tutti, chiesa dei poveri”. E i lavori sono stati significativamente
aperti con un saluto del vescovo ausiliare Guerino di Tora. Un gesto a suo modo non trascurabile
per un rappresentante dell’istituzione. Racconta Vittorio Bellavite, portavoce di Noi Siamo Chiesa:
«Noi vogliamo stare con fiducia sulla linea di Francesco e dal basso favorire i cambiamenti
necessari alla Chiesa».
La comunità ecclesiale opera dal basso. Fra questa, le comunità cristiane di base. Il loro riconoscersi
nel Vangelo e nella pratica di una Chiesa “altra” rispetto a quella istituzionale — secondo loro più
evangelica e più credibile — non è stato sempre apprezzato. Ma, dice Elena Inguaggiato, sposata
con Rosario Mocciaro, prete della comunità di base di San Paolo e ridotto allo stato laicale senza
che egli avesse chiesto dispensa, «Francesco è un nuovo inizio per tutti perché sa parlare al cuore
della gente. Si pone in modo diverso, con uno stile nuovo, e sono sicura che saprà come agire».
Come ha vissuto il suo amore? «Inizialmente avevo un po’ di senso di colpa. Poi, invece, tutto è
stato fatto alla luce del sole, grazie anche all'aiuto della comunità. Siamo felici. Oggi abbiamo
anche due figli». Il senso di colpa, la paura di svelarsi. Giancarla Codrignani  pubblicò una testimonianza che ben mette in luce quel tormento interiore di chi si sente nel peccato per amare un prete. «Sto male…malissimo! Sono stata sbattuta fuori dal confessionale da un mio coetaneo, fresco di seminario, impietrito dal fatto che non voglio né vorrò mai chiedere perdono per aver amato e per amare, perché chiedere perdono sarebbe commettere un peccato ancor più grande, quello di non aver visto la grazia di saper amare fino in fondo e darsi totalmente a chi si è amato e si continua ad amare».
In Vaticano è Gianfranco Girotti, reggente emerito della Penitenzeria apostolica, a dire che
«nonostante le tante aperture mostrate su temi scottanti, Bergoglio manterrà la situazione immutata
sul celibato». Eppure soluzioni ci sarebbero. Una su tutte la fa sua don Giovanni Nicolini, storico
amico di don Giuseppe Dossetti, che spiega come un uomo sposato con famiglia e figli grandi,
insieme alla partecipazione diretta della moglie, potrebbe essere ordinato sacerdote. Dice: «Sono
consapevole che la tradizione della Chiesa latina non è questa, ma si tratta di un’ipotesi che
andrebbe tenuta aperta. Ho visto delle comunità dell’Oriente con preti insieme alle loro spose che
servono Dio in maniera splendida. Ed erano bellissimi ».

martedì 27 maggio 2014

MATURI I TEMPI PER LA SVOLTA

di ADISTA Notizie n. 20 - 31 Maggio 2014
È successo ogni volta che il tema si è presentato alla ribalta dell’opinione pubblica che giornali e televisioni gli dessero grande rilevanza. Stavolta però, vuoi per il pontificato considerato di “rottura”, vuoi per un’opinione pubblica attenta ad ogni segnale di novità o di “svolta”, vuoi per un episcopato, quello italiano, in fase di transizione (e che quindi rende i media maggiormente “intraprendenti” su temi tradizionalmente considerati “scomodi”), anche nel nostro Paese la lettera di 26 donne che amano preti ha prodotto enorme clamore e dibattito.
Nel testo, rivelato da Vatican insider e pubblicato integralmente nello spazio "HO SCRITTO UNA LETTERA" di questo blog, le firmatarie, che hanno voluto restare anonime (anche se nella raccomandata inviata in Vaticano hanno lasciato le loro generalità e recapiti telefonici), hanno detto a Francesco di essere «un piccolo campione» che parla a nome di tante che «vivono nel silenzio» e che chiede la revisione del celibato ecclesiastico.
Adista ha intervistato una delle firmatarie.

Nella vostra lettera chiedete al papa di riconsiderare il tema del celibato ecclesiastico, ma ancora di più, chiedete a lui un aiuto affinché il tema delle relazioni sentimentali che coinvolgono donne e preti esca dal clima di rimozione e clandestinità in cui oggi la Chiesa istituzionale lo relega. Cosa vi fa pensare che i tempi siano maturi per una svolta in questo senso?
I tempi per affrontare il tema del celibato obbligatorio sono maturi ormai da tempo. Ogni periodo storico ha delle sue peculiarità. Guardiamo al passato. Chi avrebbe pensato, anni addietro, di sollevare questo dibattito? Eppure anche anni fa i sacerdoti avevano storie con alcune donne. Nell’attuale contesto storico si è più propensi a chiedere il confronto sulle tematiche che si ritengono importanti. Culturalmente si è più preparati ad affrontare un tema spinoso come quello sollevato da noi donne. Se non si prova a cambiare, il cambiamento non arriverà mai. Dobbiamo essere pronti a far sentire la nostra voce. Crediamo che questo papa, presentatosi come il papa dell’ascolto e della misericordia, più dei suoi predecessori non possa fingere che questo problema non esista e che in cuor suo sappia che un sacerdote può essere tale anche se sposato.
Quanto è diffuso, per la percezione ed il confronto che avete tra di voi, il fenomeno di relazioni stabili tra preti e donne?
Dal confronto avuto in questi anni con numerose donne, il fenomeno è molto diffuso: da brevi relazioni passando a relazioni che durano anni, con immenso dolore per donne e sacerdoti (nella più facile delle ipotesi). Queste esperienze si sommano ad altre vissute più da vicino. Personalmente ho visto, nell’arco di appena quattro anni, un sacerdote che ha chiesto e ottenuto la dispensa (e che in passato mi risulta avesse anche sentito un’altra donna); il travaglio del sacerdote che è stato il mio compagno; il tormento di un altro sacerdote per la vicinanza di una donna e per il chiacchierare della gente.
È proprio vero che ci si rende conto di qualcosa solo quando la si vive sulla propria pelle: mi fidai di quel sacerdote perché, un po’ come tutti, ho ingenuamente pensato che lui non potesse avere un interesse particolare verso di me. Era un pensiero che non mi aveva mai sfiorato. Invece quando sperimenti l’amore per un prete capisci che niente è impossibile, che tutto può capitare a tutti; quindi che non si deve mai giudicare o pensare “nella mia vita questo non accadrà mai”. Entrare in contatto con donne che hanno avuto la mia stessa esperienza mi ha aperto un mondo: siamo tantissime donne e tantissimi sacerdoti. Il fenomeno è più esteso di quanto si pensi. Tutte le barriere crollano, e scopri l’unica realtà: quella umana. Fatta di limiti e fragilità. Quando un sacerdote ama realmente una donna (e non è sempre così scontato) i due vivono i segni di in amore concreto. Vivono la relazione. La bellezza della relazione. Fatta di affettività e sessualità.
Finora, a vostro giudizio, cos'è che ha realmente impedito alla Chiesa istituzionale di affrontare, addirittura di parlare di questo argomento?
A nostro giudizio vi sono diversi aspetti che non consentono alla Chiesa di affrontare l’argomento. Di base, la paura generalizzata di un vero cambiamento che presume un’inversione di rotta, un rimettere tutto in discussione. Insomma, cambiamenti vasti e conseguenze complesse. Forse la posizione più comoda per la Chiesa è lasciare tutto com'è. Mi chiedo se, a lungo termine, sarà un bene fingere che il celibato obbligatorio (istituito per tutelare i beni della Chiesa) sia una legge divina! La Chiesa DEVE affrontare queste tematiche, rimettendo i figli di Dio al centro dell'attenzione. Come si può accettare la sofferenza dei figli di Dio? Mi auguro che papa Francesco ci dia una risposta. Mi auguro che altre donne e sacerdoti facciano sentire con coraggio la loro voce e la loro sofferenza.

“Io sacerdote e priore più che mai con Elena ho riscoperto la vocazione”

intervista ad Alberto Stucchi, a cura di Giacomo Galeazzi
in “La Stampa” del 18 maggio 2014
«Mi hanno eletto alla guida della comunità perché ero il più giovane dei monaci e quindi potevo
portare novità. Poi, quando, ho proposto di creare una realtà che includesse celibi, eremiti e
coniugati mi hanno opposto il muro delle leggi ecclesiastiche». Padre Alberto Stucchi è sacerdote e
religioso, priore del monastero di Chiaravalle, nel Milanese, dove vive un’antica comunità
dell’ordine cistercense. Dopo 11 anni di vita monastica condotta, per ammissione stessa dei suoi
superiori, in modo esemplare, ha conosciuto Elena, con la quale è nata una storia d’amore. Dopo
aver chiesto e ottenuto un periodo di riflessione fuori dal monastero ha deciso di non interrompere
la sua relazione. «I consigli peggiori me li hanno dati in monastero. Erano arrivati anche a
“giustificare” la mia relazione. Mi dissero che ero priore, che avevo tante responsabilità, che forse
avevo bisogno di uno sfogo, insomma “Fai quello che vuoi, ma di nascosto”. L’importante era che
non si sapesse in giro».
A chi ha detto della sua relazione?
«Appena ho capito di amare Elena prima ne ho parlato con i miei confratelli, poi con i superiori
dell’ordine. Ho avvertito subito il loro terrore. Ho capito che dovevo scegliere: o lei o il monastero.
Dovevo rinunciare all’amore per conservare il patentino necessario a predicare l’amore: un
paradosso. Il diritto canonico concede un anno di riflessione e andai a vivere con Elena. Mi fu detto
di chiedere la dispensa dal sacerdozio».
Vuole la dispensa?
«No, sarebbe come ammettere di non essere stato consapevole al momento dei voti. In pratica, un
errore. Invece io non rinnego nulla di quello che ho vissuto. Davanti a me si era aperta una nuova
strada. Sono uscito dall’ordine ma sono ancora sacerdote. Se un vescovo o il generale di una
congregazione mi accogliessero, potrei tornare a svolgere la mia missione. Elena è morta 5 mesi fa
per un tumore alle ossa».
E’ stata una crisi di vocazione?
«La crisi non era legata al mio ministero. Non stavo perdendo la vocazione, anzi la stavo scoprendo
più che mai. Dopo l’incontro con Elena ho riconosciuto la bellezza della vita religiosa, e avrei
desiderato continuare a condurla in un nuovo villaggio monastico. Per questo ho provato a più
riprese, con la mia compagna, a dialogare con l’istituzione ecclesiastica, cercando di spiegare
l’assurdità di un celibato vissuto non come scelta ma come obbligo. E lasciare Elena per tornare
come se nulla fosse alla mia precedente vita non era una soluzione possibile. Il mio desiderio di
amore si è scontrato con la rigidità delle leggi ecclesiastiche, con la contraddizione di essere fuori
dalle regole canoniche e allo stesso tempo sempre più coinvolto in un’esperienza che mi faceva
sentire più monaco, prete e priore che mai. Tra due opzioni inconciliabili ho scelto Elena».
Cosa avevate chiesto?
«Abbiamo cercato di rivendicare come l’amore per Dio e l’amore per una donna non siano in
contraddizione. Su questo punto con i miei superiori non c’è stata alcuna possibilità né di dialogo,
né di comprensione. Io e Elena abbiamo rifiutato di mantenere segreta la nostra relazione, di
accettare quella che è divenuta, nella vita religiosa, una consuetudine tollerata o suggerita».
E la risposta?
«”Di nascosto si ruba e si uccide, non certo si ama”, ho replicato a chi mi proponeva di vivere la
mia storia nell’ambiguità, nel compromesso. Il principio agostiniano “Ama e fa’ quel che vuoi” si
trasforma drammaticamente in “Fa’ quello che vuoi, ma di nascosto”. Confido che le donne in cerca
di vera limpidezza trovino in papa Francesco un coraggioso difensore della trasparenza».

domenica 25 maggio 2014

DAL VANGELO DI GIOVANNI (14, 15-21)
Se mi amate, osserverete i miei comandamenti. Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro difensore che starà sempre con voi, lo Spirito della verità. Il mondo non lo vede e non lo conosce, perciò non può riceverlo. Voi lo conoscete, perché è con voi e sarà con voi sempre. Non vi lascerò orfani, tornerò da voi. Fra poco il mondo non mi vedrà più, ma voi mi vedrete, perché io ho la vita e anche voi vivrete. In quel giorno conoscerete che io vivo unito al Padre, e voi siete uniti a me e io a voi.Chi mi ama veramente, conosce i miei comandamenti e li mette in pratica. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio; anch'io l'amerò e mi farò conoscere a lui.
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Lo   Spirito    della       verità

Gesù, da vero maestro, non era solito indicare i comportamenti precisi da assumere e spesso stimolava i discepoli e le discepole a cercare in prima persona, con atteggiamento attivo, la risposta concreta ai loro problemi. Spesso gli incontri di Gesù con le persone si svolgevano sotto forma di dialogo. Gesù interpellava e stimolava, poneva domande e cercava insieme all'interlocutore.

Quando noi leggiamo la Bibbia non troviamo già "preconfezionate" le risposte, come se i versetti biblici potessero essere usati per dispensarci dal travaglio della ricerca e dalla maturante esperienza del dubbio.

La promessa dello Spirito di Dio, cioè la promessa che Dio non cesserà di darci il Suo amore e la Sua forza, riguarda il presente e il futuro della comunità. Quindi la comunità dei discepoli di Gesù non ha bisogno, per vivere la propria testimonianza nel mondo, di risposte rassicuranti, di alleanze forti, di garanzie umane. Non ha bisogno di allearsi con i potenti di turno…

La sua unica forza è il soffio amoroso e vitale di Dio, quello che la Scrittura chiama "Spirito Santo". Quando noi non prendiamo radicalmente sul serio questa promessa di Gesù, allora cominciamo a poggiare la vita della comunità sui criteri umani del denaro, dell'immagine, del potere, dell'ortodossia, del prestigio.

Questa è la tragica esperienza che è purtroppo ancora molto presente nella nostra chiesa. Essa si è spesso costruita con un sistema di alleanze e di garanzie da rendere quasi superflua l'azione dello Spirito di Dio. Si è definita essa stessa, nelle sue istanze gerarchiche, come infallibile e, in tal modo, Dio diventa poco più che il garante delle prerogative ecclesiastiche, non la presenza che fa vivere, l'unica realtà su cui fondare la fede e la chiesa.

Lo Spirito della verità, cioè lo spirito che ci apre gli occhi e ci indica la strada del Vangelo, ci aiuta a discernere, a vedere il sentiero di Gesù tra mille proposte che generano confusione ed illusioni.
Dio non è muto e il Suo vento soffia ancora nelle vie del mondo ed anche dentro i nostri cuori. Certo, possiamo sbarrare tutte le porte e barricarci nella "stanza dell'ognuno per sè", ma Dio continuerà ad inviarci il Suo caldo soffio d'amore per vedere se un giorno si aprirà una fessura. Allora riprenderemo il "cammino dei comandamenti", cioè la via della solidarietà e della fiducia.
(DAL COMMENTO AL VANGELO DI DON FRANCO BARBERO).

CRISI DELLE VOCAZIONI?

«Fedeltà e perseveranza vocazionale in una cultura del provvisorio» è il tema di una giornata di studio svoltasi a Roma.  All'incontro l’arcivescovo segretario del dicastero,Mons.Rodriguez Carballo, ha svolto un intervento su «La fragilità vocazionale: quale responsabilità per le istituzioni di vita consacrata?», del quale riporto alcune parti.
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Da tempo si parla di “crisi” nella e della vita religiosa e consacrata. E per giustificare questa diagnosi frequentemente si ricorre al numero degli abbandoni, che acutizza la già di per sé allarmante diminuzione di vocazioni che colpisce un gran numero di istituti e che, se continua così, mette in serio pericolo la sopravvivenza di alcuni di questi.
Non entro qui nel dibattito se la “crisi” della quale si parla sia positiva o no. È certo, tuttavia, che, tenendo conto del numero degli abbandoni e che la maggioranza di essi accade in età relativamente giovani, detto fenomeno è preoccupante. D’altra parte, considerando il fatto che la emorragia continua e non accenna a fermarsi, gli abbandoni sono certamente sintomo di una crisi più ampia nella vita religiosa e consacrata, e la mettono in questione, per lo meno nella forma concreta in cui è vissuta.
Per tutto questo, anche se è certo che non possiamo lasciarci ossessionare dal tema — ogni ossessione è negativa — è anche certo che davanti al problema non possiamo “guardare da un’altra parte” o “nascondere il capo sotto l’ala”. D’altra parte, sebbene è certo, anche, che sono molti i fattori socioculturali che influiscono sul fenomeno degli abbandoni, è pur certo che non sono l’unica causa e che non possiamo riferirci soltanto ad essi per tranquillizzarci e per spiegare questo fenomeno, fino a vedere come “normale” ciò che non lo è.
Non è facile conoscere con precisione il numero di quanti abbandonano ogni anno la vita religiosa e consacrata, anche perché ci sono pratiche che vanno alla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, altre che vengono inoltrate alla Congregazione del Clero ed altre che finiscono nella Congregazione della Dottrina della Fede. In ogni caso le cifre di cui disponiamo sono consistenti, come si può vedere dai dati che ci vengono offerti dalle prime due Congregazioni.
Il nostro dicastero in 5 anni (2008–2012) ha dato 11.805 dispense: indulti per lasciare l’istituto, decreti di dimissioni, secolarizzazioni ad experimentum e secolarizzazioni per incardinarsi in una diocesi. Si tratta di una media annuale di 2.361 dispense.
La Congregazione per il Clero, negli stessi anni, ha dato 1.188 dispense dagli obblighi sacerdotali e 130 dispense dagli obblighi del diaconato. Sono tutti religiosi: ciò fa una media per anno di 367,6. Sommando questi dati con gli altri, abbiamo quanto segue: hanno lasciato la vita religiosa 13.123 religiosi o religiose, in 5 anni, con una media annuale di 2.624,6. Ciò vuol dire 2,54 ogni 1000 religiosi. A questi bisogna aggiungere tutti i casi trattati dalla Congregazione per la Dottrina della Fede.
Secondo un calcolo approssimativo ma abbastanza sicuro, questo vuol dire che più di 3.000 religiosi o religiose hanno lasciato ogni anno la vita consacrata. Nel computo non sono stati inseriti i membri delle società di vita apostolica che hanno abbandonato la loro consacrazione, ne quelli di voti temporali.
Certamente i numeri non sono tutto, ma sarebbe da ingenui non tenerne conto.
Il motivo? È molto semplice: non abbiamo dati totalmente affidabili. A volte, una cosa è quello che si scrive, tutt’altra cosa è quello che si vive. Inoltre, in molti casi quello che dicono i documenti, di cui si dispone al termine di una procedura, non necessariamente coincide con la vera causa degli abbandoni.  Tuttavia, dalla documentazione che possiede il nostro dicastero, si possono individuare le seguenti cause.
Assenza della vita spirituale — preghiera personale, preghiera comunitaria, vita sacramentale — che conduce, molte volte, a puntare esclusivamente sulle attività di apostolato, per poter così andare avanti o per trovare dei sotterfugi. Molto spesso questa mancanza di vita spirituale sfocia in una profonda crisi di fede, per molti la vera e più profonda crisi della vita religiosa e consacrata e della stessa vita della Chiesa. Questo fa sì che i voti non abbiano più senso — in genere prima dell’abbandono vi sono gravi e continue colpe contro di essi — e neppure la stessa vita consacrata. In questi casi, ovviamente, l’abbandono è l’uscita “normale” e più logica.
Perdita del senso di appartenenza alla comunità, all’istituto e, in alcuni casi alla stessa Chiesa:critica sistematica ai membri della propria comunità o dell’istituto, particolarmente all’autorità, che produce una grande insoddisfazione; scarsa partecipazione ai momenti comunitari o alle iniziative della comunità, a causa di una mancanza di equilibrio tra le esigenze della vita comunitaria e le esigenze dell’individuo e dell’apostolato che si svolge;ricercare fuori quello che non si trova in casa...
I problemi più comuni nella vita fraterna in comunità, secondo la documentazione a nostra disposizione, sono: problemi di relazione interpersonale, incomprensioni, mancanza di dialogo e di autentica comunicazione, incapacità psichica a vivere le esigenze della vita fraterna in comunità, incapacità di risolvere i conflitti...
Per quanto riguarda la perdita di senso di appartenenza alla Chiesa, a volte è data dalla mancanza di vera comunione con essa e si manifesta, tra l’altro, nel non condividere l’insegnamento della Chiesa su temi specifici come il sacerdozio alle donne e la morale sessuale.
Tutto questo finisce con la perdita del senso di appartenenza all’istituzione,istituto religioso o Chiesa, che viene considerata solo in quanto può servire per soddisfare i propri interessi: per esempio, la casa religiosa, molte volte, viene considerata come “hotel” o una semplice “residenza”. La mancanza di senso di appartenenza porta, spesso, anche ad abbandonare fisicamente la comunità, senza nessun permesso.
Problemi affettivi.  Qui la problematica è molto ampia: va dall’innamoramento, che si conclude con il matrimonio, alla violazione del voto di castità, sia con ripetuti atti di omosessualità — più palese negli uomini, ma ugualmente presente, più di quanto si pensi, tra le donne — sia con relazioni eterosessuali, più o meno frequenti. Altre volte i problemi affettivi hanno una chiara ripercussione nella vita fraterna in comunità, poiché riguardano il mondo delle relazioni, provocando continui conflitti che finiscono per rendere invivibile la comunità. Infine, i problemi affettivi possono essere tali che si giunge alla convinzione di non poter vivere la castità e si decide, anche per motivi di coerenza, di abbandonare la vita consacrata.
Quando si cerca di individuare le cause o di proporre degli orientamenti, penso che sia necessario fare una radiografia, pur breve e limitata, della società.
Viviamo in un tempo caratterizzato da cambiamenti culturali imprevedibili: nuove culture e sotto-culture, nuovi simboli, nuovi stili di vita e nuovi valori. Il tutto avviene a una velocità vertiginosa.
Le certezze e gli schemi interpretativi globali e totalizzanti che caratterizzavano l’era moderna hanno lasciato il posto alla complessità, alla pluralità, alla contrapposizione di modelli di vita e a comportamenti etici che si sono invischiati tra loro in modo disordinato e contraddittorio. Il momento attuale è caratterizzato dall’incertezza, dal dubbio, dal ripiegamento nel quotidiano e nell’emozionale. Così, diventa difficile capire ciò che è essenziale da ciò che secondario e accidentale.
Ciò produce in molti: disorientamento di fronte ad una realtà che si presenta talmente complessa da non potersi percepire; incertezza a causa della mancanza di certezze su cui ancorare la propria vita; insicurezza per la mancanza di riferimenti sicuri. Il tutto si unisce ad una grande delusione di fronte alle domande essenziali, considerate inutili, poiché tutto è possibile e ciò che oggi c’è, domani cessa di essere.
Il nostro tempo è anche un tempo di mercato. Tutto è misurato e valutato secondo l’utilità e la redditività, anche le persone. Queste, in termini di mercato, valgono quanto producono e valgono in quanto sono utili. Tale concezione mercantilista della persona arriva a privilegiare il fare, l’utilità, e persino l’apparenza sull’essere.
Viviamo, anche, in un tempo che possiamo definire il tempo dello zapping. Simbolicamente, zapping, significa non assumere impegni a lungo termine, passare da un esperimento all’altro, senza fare nessuna esperienza che segna la vita. In un mondo dove tutto è agevolato, non c’è posto per il sacrificio, né per la rinuncia, né per altri valori simili. Invece, questi sono presenti nella scelta vocazionale che esige, pertanto, di andare controcorrente, come è la vocazione alla vita consacrata.
Infine, bisogna segnalare anche che nel mondo in cui viviamo, e in stretta connessione con ciò che abbiamo chiamato “mentalità di mercato”, c’è il dominio del neo-individualismo e la cultura del soggettivismo. L’individuo è la misura di tutto e tutto è visto, misurato e valutato in funzione di se stesso e dell’autorealizzazione. In un mondo siffatto, in cui ciascuno si sente unico per eccellenza, frequentemente non esiste una comunicazione profonda............ 
A conclusione della nostra riflessione ci poniamo la domanda: in una società come la nostra, è possibile rimanere fedele a una opzione di vita che in partenza è chiamata ad essere definitiva e irrevocabile?
La risposta mi sembra semplice se teniamo conto di tanti consacrati che vivono gioiosamente la fedeltà agli impegni assunti nella loro professione. A ogni modo, per prevenire gli abbandoni, senza illuderci di evitarli totalmente, credo necessario quanto segue.
Che la vita consacrata e religiosa ponga al centro una rinnovata esperienza del Dio uno e trino:l’essenziale della vita consacrata e religiosa è quaerere Deum, cercare Dio, vivere in Dio.
Che l’opzione per il Dio vivente (cf. Giovanni 20, 17) non si viva nel chiudersi in un misticismo separato da tutto e da tutti, ma che porti i consacrati a partecipare al dinamismo trinitario ad intra e ad extra,il che suppone relazione di comunione con gli altri e porta con sé il dono di se stessi agli altri. D’altra parte, vivere il dinamismo trinitario ad extra comporta vivere criticamente e profeticamente in seno alla società.
Che ci sia una decisione chiara di anteporre la qualità evangelica di vita al numero di membri o al mantenimento delle opere.
Che nella cura pastorale delle vocazioni si presenti la vita consacrata e religiosa in tutta la sua radicalità evangelica e si faccia un discernimento in consonanza con dette esigenze.
Che durante la formazione iniziale si assicuri un accompagnamento personalizzato e non si facciano “saldi” nelle esigenze di una vita consacrata che sia evangelicamente significativa.
Che tra la pastorale vocazionale, formazione iniziale e permanente ci sia continuità e coerenza.
Che durante i primi anni di professione solenne si assicuri un adeguato accompagnamento personalizzato.
Un bel proverbio orientale dice: “L’occhio vede soltanto la sabbia, ma il cuore illuminato può intravedere la fine del deserto e la terra fertile”. Guardiamo con il cuore. Forse potremmo vedere quello che altri non vedono.

sabato 24 maggio 2014


Francesco e Bartholomeos a Gerusalemme, un abbraccio senza sorprese?

Si parla molto della prossima visita del Papa in Terra Santa (24-26 maggio) e ci si interroga sulla sua portata ecumenica. Quali speranze una simile visita - e un simile visitatore - possono far sorgere sul piano ecumenico?
Vorrei anzitutto ricordare una regola fondamentale che sembra spesso dimenticata: in ecumenismo vi sono sempre almeno due partner (e solitamente anche di più) e non uno solo – fosse pure il Santo Padre, che d’altronde preferisce il titolo di Vescovo di Roma, che presuppone l’esistenza di altri Vescovi per altre sedi. Dovremmo quindi interrogarci piuttosto sul significato dell’incontro a Gerusalemme di Francesco, Papa della Chiesa cattolica, con Bartholomeos, Patriarca ecumenico ortodosso di Costantinopoli.
Un secondo aspetto è importante: per la teologia cattolica, il Papa è il capo visibile della Chiesa e quindi anche di ogni singolo Vescovo e Patriarca cattolico; non è così per la teo­logia ortodossa: un Patriarca ortodosso non ha altro capo che il Cristo; in compenso agisce sempre collegialmente con il proprio sinodo. Ciò significa che il Patriarca di Costantinopoli, nonostante il titolo di «ecumenico», non può venire a Gerusalemme e compiervi qualche gesto senza il consenso del Patriarca ortodosso di Gerusalemme, Theophilos III. È lui, per gli ortodossi, che accoglie i due visitatori, ma questi è totalmente dimenticato, tanto dai giornalisti, quanto, probabilmente, dalla maggior parte dei teologi e dei curiali cattolici.
Di fatto non c’è traccia del suo nome nel programma della visita disponibile sul sito della Santa Sede. Eppure è lui, insieme al Patriarca armeno e al Custode francescano di Terra Santa, che accoglierà i due visitatori nella Basilica dell’Anastasis (Santo Sepolcro), dove si farà memoria, come proposto da Bartholomeos fin da quando ha invitato Francesco, del cinquantesimo anniversario del primo e unico incontro simile avvenuto nel secondo millennio: quello tra Paolo VI e Athenagoras I nel gennaio 1964.
Vi saranno poi altri incontri tra i due leader delle rispettive Chiese: uno alla Delegazione apostolica, in cui verrà firmata una dichiarazione comune; l’altro nella residenza secondaria del Patriarca ortodosso di Gerusalemme, l’indomani (ambedue solo di mezz’ora); e, infine, la cena al Patriarcato latino, dopo l’incontro all’Anastasis, al quale parteciperanno «i Patriarchi e i Vescovi», nonché «il seguito papale». È evidente il poco peso accordato al Patriarca ortodosso locale. E dunque, poiché tutto è pensato in una logica «romana», c’è poco da aspettarsi sul piano ecumenico. Tutto è già prestabilito, calibrato e programmato, così da evitare ogni sorpresa.
È importante, infine, un terzo elemento: il cristianesimo è nato in Terra d’Israele e ogni Chiesa trova in Gerusalemme la sua Chiesa madre, ma la realtà ecclesiale della Terra Santa non corrisponde – sarei tentato di dire «per niente» – alla teologia: qui la «Chiesa madre» esiste solo in «Chiese figlie» che dipendono tutte da altre Chiese più «autorevoli», più «potenti» o, banalmente, più ricche (a Roma, in Grecia, altrove nel Medio Oriente, in Gran Bretagna, ecc.).
Che cosa possono sperare allora le Chiese di Gerusalemme da questo incontro? Forse il riscaldarsi delle relazioni, già non cattive fra di loro e fra i cristiani. Poca cosa dunque, a meno che... Sì, i due che s’incontreranno sono Francesco e Bartholomeos: ora, sia l’uno sia l’altro sono persone imprevedibili capaci di suscitare la sorpresa. Quale? Non si sa, ma è questa che aspetto e spero.
Daniel Attinger
Pastore della Chiesa riformata di Neuchâtel (Svizzera), 
membro della Comunità di Bose dal 1968, ha vissuto per molti anni a Gerusalemme







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venerdì 23 maggio 2014

PREGHIERA PER L'EUROPA

Tra il 22 e il 25 maggio prossimi tutti i Paesi dell’Unione Europea saranno chiamati a eleggere il nuovo Parlamento europeo.


Nella difficile crisi che il vecchio continente sta attraversando affidiamo alle parole del Cardinale Martini l’auspicio che questo appuntamento possa aiutare a ritrovare il senso autentico di un’Europa dei popoli.




Padre dell'umanità, Signore della storia,
guarda questo continente europeo
al quale tu hai inviato tanti filosofi, legislatori e saggi,
precursori della fede nel tuo Figlio morto e risorto.

Guarda questi popoli evangelizzati da Pietro e Paolo,
dai profeti, dai monaci, dai santi;
guarda queste regioni bagnate dal sangue dei martiri
e toccate dalla voce dei Riformatori.

Guarda i popoli uniti da tanti legami
ma anche divisi, nel tempo, dall'odio e dalla guerra.

Donaci di lavorare per una Europa dello Spirito
fondata non soltanto sugli accordi economici,
ma anche sui valori umani ed eterni.
Una Europa capace di riconciliazioni etniche ed ecumeniche,
pronta ad accogliere lo straniero, rispettosa di ogni dignità.

Donaci di assumere con fiducia il nostro dovere
di suscitare e promuovere un' intesa tra i popoli
che assicuri per tutti i continenti,
la giustizia e il pane, la libertà e la pace.

Amen

(Carlo Maria Martini) 

domenica 18 maggio 2014

VANGELO DI GIOVANNI 14,1-12
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via».
Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto».
Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere.
Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.
In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre».

Sono gli ultimi momenti che Gesù sta con i suoi discepoli e Gesù li vuole rassicurare, tranquillizzare. Vuol far loro comprendere un paradosso: che la sua morte non sarà una perdita per loro, ma un guadagno; che la sua morte non sarà un’assenza, ma una presenza ancora più intensa. Quindi Gesù, che ha appena annunziato il tradimento di Pietro ai discepoli che sono turbati e sui discepoli sta per abbattersi una tempesta tremenda, Gesù li rassicura che Dio è con lui.
 Non si tratta qui di una dimora presso il Padre, ma del Padre che viene a dimorare tra gli uomini. Questa è la novità, la grande novità proposta da Gesù: non c’è più un santuario dove si manifesta Dio, ma in ogni persona che lo accoglie, lì Dio si manifesta.
Quindi il Dio di Gesù è un Dio che chiede di essere accolto per fondersi con la persona, dilatare la sua capacità d’amore. Questa sarà la sua dimora. Ma perché Gesù parla di “molte dimore”? Perché, essendo Dio amore, l’amore non si può esprimere e manifestare in una forma sola, ma in molteplici forme quanto molteplici sono le nature degli uomini, le loro situazioni. Poi Gesù continua questa rassicurazione dicendo che dove lui è saranno anche loro, cioè nella sfera della dimensione divina, nella sfera dell’amore.
P.ALBERTO MAGGI

Gesù va ormai collocato nel seno del Padre, è nel Padre: questo è il luogo di cui i discepoli conoscono la via, perché Gesù più volte ha mostrato ai suoi che per andare a Dio occorreva andare a lui, per vedere Dio occorreva vedere lui, per conoscere Dio occorreva conoscere lui. Sì, ormai per gli uomini c’è una possibilità di conoscere quel Dio che tutti cercano come a tentoni (cf. At 17,27), quel Dio che nessuno ha visto né può vedere (cf. 1Tm 6,16), quel Dio che, invisibile e presenza elusiva, si è mostrato pienamente in un uomo, in una vita d’uomo, in azioni e parole d’uomo: suo Figlio Gesù. È lui l’esegesi, la narrazione del Dio invisibile (exeghésato: Gv 1,18), l’immagine che gli uomini hanno potuto contemplare, quel corpo di uomo fragile e debole che hanno potuto palpare e nel quale hanno potuto vedere i segni della passione e morte. I cristiani non sempre hanno capito questa rivelazione di Gesù ma, attratti da un teismo religioso, non vogliono comprendere che devono guardare Gesù e conoscere lui per conoscere qualcosa di Dio. In verità Gesù dice ai suoi che tutto ciò che lui ha rivelato e narrato di Dio va creduto, mentre tutto ciò che di Dio lui non ha detto non deve essere creduto. Di fronte a tante immagini perverse di Dio fabbricate dai credenti stessi, e di cui ci dà ampia testimonianza l’Antico Testamento, Gesù afferma che solo chi ha visto lui ha visto il Padre.  Non è possibile una conoscenza di Dio disgiunta dalla conoscenza di Gesù, e su questo dobbiamo interrogarci: chi è Dio per me? Dove lo cerco? Che volto gli do? Che luce proietto sul suo volto? È un Dio manufatto, un idolo opera delle nostre immaginazioni e proiezioni, oppure è semplicemente Gesù, il Figlio di Maria che solo lo Spirito santo ci poteva dare e di cui ci danno testimonianza i vangeli?
Enzo Bianchi






domenica 11 maggio 2014

Dal vangelo secondo Giovanni(10,1-10)
In quel tempo, Gesù disse; «In verità, in verità vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra per la porta, è il pastore delle pecore.
Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori. E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce.
Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei».
Questa similitudine disse loro Gesù; ma essi non capirono che cosa significava ciò che diceva loro.
Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati.
Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo.
Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza».
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Dal Diario di Etty Hillesum(1941-1943).
Il sentimento che ho della vita è così intenso e grande,sereno e riconoscente,che non voglio neppur provare ad esprimere in una parola sola. In me c'è una felicità così perfetta e piena,mio Dio. Probabilmente la definizione migliore sarebbe di nuovo la sua:<<riposare in se stessi>>,e forse anche la definizione più completa di come io sento la vita:io riposo in me stessa. E come <<me stessa>>,la parte più profonda e ricca di me in cui riposo,io la chiamo <<Dio>>....E' così che mi sento,sempre e ininterrottamente:come se stessi fra le tue braccia,mio Dio,così protetta e sicura e impregnata d'eternità. Come se ogni mio respiro fosse eterno,e la più piccola azione o parola avesse un vasto sfondo e un profondo significato....In fondo,la mia vita è un ininterrotto ascoltar dentro me stessa,gli altri,Dio. E quando dico che ascolto dentro,in realtà è Dio che ascolta dentro di me. La parte più essenziale e profonda di me che ascolta la parte più essenziale e profonda dell'altro. Dio a Dio....
Non basta predicarti,mio Dio,non basta disseppellirti dai cuori altrui. Bisogna aprirti la via,mio DIo,e per far questo bisogna essere un gran conoscitore dell'animo umano,un esperto psicologo....E ti ringrazio per questo dono di poter leggere negli altri. A volte le persone sono per me come case con la porta aperta. Io entro e giro per corridoi e stanze,ogni casa è arredata in modo un po' diverso ma in fondo è uguale alle altre,di ognuna si dovrebbe fare una dimora consacrata a te,mio Dio. Ti prometto,ti prometto che cercherò sempre di trovarti una casa e un ricovero. In fondo è una buffa immagine:io mi metto in cammino e cerco un tetto per te. Ci sono così tante case vuote,te le offro come all'ospite più importante. Perdonami questa metafora non troppo sottile....
(secondo un rapporto della Croce Rossa,Etty morirà ad Auschwitz il 30 novembre 1943!). 
A.B.

mercoledì 7 maggio 2014

CANONIZZAZIONI


di Luca Baratto
in “Riforma” - Settimanale delle Chiese Evangeliche Battiste, Metodiste e Valdesi – del 9 maggio
2014
Questa settimana abbiamo ricevuto in redazione alcune lettere ed e-mail di ascoltatori che ci
chiedevano come mai domenica scorsa non avessimo in alcun modo dato notizia delle santificazioni
di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II. La risposta è semplice. Non ne abbiamo dato notizia
perché le canonizzazioni, come evangelici, non ci appartengono. Non queste in particolare,
naturalmente, ma tutte in generale. Come ha detto il pastore Eugenio Bernardini, moderatore della
Tavola valdese, interpellato sull’argomento, le santificazioni di domenica scorsa non erano un
evento ecumenico.
Pieno rispetto per i credenti cattolici che vi hanno partecipato, ma come protestanti non ci
riguardano. Il problema non è l’esemplarietà. Anche secondo noi esistono delle figure di credenti
esemplari. Ne esistono nel cattolicesimo come ne esistono nel protestantesimo. Penso, per esempio,
al teologo luterano tedesco Dietrich Bonhoeffer, morto in un campo di prigionia nazista; o a Martin
Luther King e al suo impegno per i diritti civili degli afroamericani. Eppure nessuno di loro è mai
diventato un santo! Dico di più: nessun protestante si sognerebbe mai di pregare Dio attraverso
Bonhoeffer o Luther King. Il problema sta qui: nel fatto che al credente esemplare venga accordata
una particolare forma di devozione, se non addirittura un culto.
Questo per un protestante è più che un problema. Solo Gesù Cristo è l’unica via verso Dio; i santi,
per esemplari che siano, non possono usurpare questo ruolo che, nella comprensione evangelica, è
esclusivamente di Cristo. Solus Christus, Cristo soltanto, è infatti una delle parole d’ordine della
Riforma. Il problema sta dunque qui. Detto questo, debbo ancora fare una precisazione. Anche se
come evangelici non canonizziamo santi, tuttavia le parole santità e santificazione fanno parte del
nostro vocabolario di fede. La Riforma protestante non le ha cancellate; ne ha dato piuttosto un
significato più aderente all’insegnamento della Bibbia. Per un protestante, infatti, la santità non
riguarda tanto la grandezza spirituale di un credente, ma è piuttosto una vocazione rivolta a ogni
cristiano. Santi sono infatti tutti coloro che appartengono a Dio e che nella loro vita sono chiamati a
compiere la sua volontà: ognuno nella condizione in cui si trova, nella quotidianità della vita, nella
pratica del lavoro, nell’essere presente nella società. Ricordo un inno che si canta nelle chiese
presbiteriane americane e che chiede chi sono i santi del Signore? La risposta è la maestra a scuola,
il postino, il dottore, la panettiera... È nella quotidianità – e quindi anche in una vita non eclatante,
ma fedele e consapevole – che la santità si realizza; nel modo in cui stiamo al mondo e sappiamo
testimoniare della vita nuova donataci da Cristo. Essere santi, per un protestante, significa essere
consapevoli di questa chiamata e rispondere a essa.

lunedì 5 maggio 2014

SAN FRANCESCO IN ROMANIA

Carissimi amici,
sono a voi per condividervi uno scritto molto significativo di quanto ho vissuto in occasione della Festa Patronale della nostra cittadina di Drobeta Turnu Severin, dove la compagnia teatrale  TEATRO SI,della Parrocchia di Bergamo ALta dove sono stata prima di partire per la Romania, ha presentato il Musical Forza Venite Gente in lingua italiana qui in terra rumena.
La figura di san Francesco con il suo messaggio ha coinvolto molto anche la Chiesa Ortodossa e questo é un segno bello di quanto abbiamo bisogno di cercare ciò che ci unisce.
Tramite la Scuola Materna abbiamo potuto essere i promotori di questa iniziativa in collaborazione con altre Associazioni Teatrali locali. Un lavoro di partecipazione davvero grande.
Accompagno a questo breve scritto il mio ricordo nella preghiera per per tutti voi con sincero affetto.
sr. Maria
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Carissimi/e
Condivido il sentimento di gratitudine che in molti hanno già espresso in queste ore “a cado” dopo questi tre giorni così intensi e belli.
Gli sguardi su questa esperienza potrebbero essere molti… sotto aggiungo alcune righe della prospettiva più “ecclesiale” che a me è particolarmente piaciuta.
Ma mi piace sottolineare alcuni altri scorci di questa avventura che unisco al grazie a chi più da vicino si è sobbarcato l’organizzazione del viaggio e della trasferta: Irma, Giovanni suor Maria…
La gratitudine per l’accoglienza che abbiamo sperimentato: un’accoglienza aperta e generosa al di là di ogni aspettativa e diciamolo pure di ogni pregiudizio sui rumeni…
La gratitudine per la semplicità dei gesti che abbiamo ricevuto, credo ci abbia fatto bene la devozione e la fede semplice ma tenace della gente incontrata…
La gratitudine perché il messaggio di Francesco ha parlato attraverso il musical ed è stato ascoltato con attenzione incredibile al di là della barriera della lingua.
Da parte mia poi due motivi di gratitudine speciali.
Il clima che si è respirato nel gruppo: una bella sintonia fatta di spirito di adattamento, di accoglienza gli uni degli altri anche in età così diverse. Un grazie a tutti, ma permettetemi ai giovani in particolare, che si sono mostrati appassionati e perché no maturi anche nel vivere (mi rendo conto per qualcuno costosamente) anche due Messe! Ma credo che si sia percepito il senso…
E -seconda cosa legata a queste- la possibilità per me di stare un po’ di più con tutti perché a casa il tempo è sempre poco e mio malgrado non è facile riuscire a esserci…e invece ho potuto godere di tutti… e anche qui dei giovani in particolare. E conto che i discorsi aperti trovino occasioni per essere continuati.
Mentre ero seduto a vedere ancora una volta senza annoiarmi “forza venire gente” ho un po’ segretamente pregato e continuerò a farlo perché il fascino di Francesco possa raggiungere chi lo ha fatto respirare agli altri mettendo in scena il recital!!! Le domande, le svolte, le scelte di questo giovane sono una provocazione forte. E lui indica i luoghi dove è possibile anche per noi oggi “essere proprio sicuri” di Lui.
Grazie dunque a tutti.
Anche a don Fabio che stando a casa mi ha permesso di essere con tutti voi e ha dovuto fare anche la mia parte di lavoro (scoprendo tra l’altro una bella perdita di acqua nelle tubature dell’oratorio, celebrando due funerali ecc. ecc.)
Sono certo che questa esperienza rafforza il senso dell’essere TeatroSì.
Un abbraccio e buon riposo a tutti.
Un po’ più vostro…
don Alberto



Cristòs a inviàt!”
Adevaràt a inviàt!”
Sono le poche parole che mi sono divenute familiari nei tre giorni vissuti in Romania.
Poteva sembrare strano, al limite della mancanza di rispetto, il fatto che un gruppo di bergamaschi (molti dei quali della parrocchia della Cattedrale) i giorni della canonizzazione di papa Giovanni XXIII fossero in Romania invece che a Roma. Ma a me sembra di aver respirato quel papa Giovanni negli anni del suo servizio in oriente come mai lo avevo gustato.
L’ho sentito vicino in quei giorni.
Anzitutto in quel saluto che la gente di Romania si ripete in modo naturale nel tempo pasquale: “il Signore è risorto!” “E’ veramente risorto!”. E’ stato il dono di una fede semplice, fatta della devozione popolare di un popolo che questa fede l’ha custodita in anni lunghi e bui del regime comunista, della condivisione dell’Eucarestia, della loro accoglienza calda e carica di rispetto per l’ospite come da noi è difficile trovare.
L’ho sentito vicino papa Giovanni nell’incontro con il parroco della piccola comunità cattolica, uomo sereno e zelante che dopo essere stato missionario in Africa è nuovamente missionario nella sua terra custodendo con delicatezza il profumo della gratuità del Vangelo (ma anche facendomi toccare con mano cosa significhi che questa si paga con la sobrietà della vita), cercando di non attirare troppo l’invidia degli ortodossi…
L’ho sentito vicino papa Giovanni mentre in inglese un po’ stentato dialogavo con il parroco della cattedrale ortodossa di Drobeta-Turnu Severin che ci ha accolto con insolito calore mostrandoci con orgoglio gli affreschi della Chiesa non ancora conclusa e raccontandoci della gratitudine nei confronti della nostra Chiesa italiana che concede alcune chiese perché vi si possa celebrare secondo il loro rito. E nell’assistere allo spettacolo della nostra compagnia teatrale su S. Francesco accanto a un altro sacerdote ortodosso (mio coscritto) attentissimo e appassionatissimo al messaggio del musical.
L’ho sentito vicino papa Giovanni mentre ho presieduto per la prima volta una Messa concelebrata da un sacerdote greco-cattolico, anch’esso mio coscritto, con cui poi ho potuto a lungo dialogare e farmi raccontare della sua esperienza di sacerdote sposato, padre di due bimbi, con la fatica a mantenere la sua famiglia e a trovare tempo per la pastorale, e con la fatica di essere “minoranza nella minoranza” e di relazione con la chiesa ortodossa che hanno tratti diversi da quell’accgolienza calda che a noi il giorno prima è stata riservata…
L’ho sentito vicino papa Giovanni pregando nella cappella delle Figlie del Sacro Cuore, ordinata profumata come solo in una casa di suore si può trovare (con una tovaglia al gigliuccio creata come “relax” nelle sere da suor Giuseppina, memoria vivente dell’inizio della presenza di questa congregazione in terra di Romania), gustando il caffè accompagnato dal sorriso squisitamente indiano di suor Bindu, e nell’incontenibile andirivieni di suor Maria che ci ha accompagnato nei mille spostamenti e che dirige la scuola materna. Una scuola dell’infanzia a cui sono iscritti per la maggioranza bambini di famiglie ortodosse o che hanno i genitori di confessioni cristiane “miste” conquistati dalla qualità della scuola e dai valori che vengono comunicati.
Ho gustato una presenza che declina la missionarietà in chiave di collaborazione fra chiese, in uno scambio di doni che sta portando e ancora porterà frutto.
E’ solo una prospettiva di questo viaggio, altri potranno portare altri sguardi, ma mi sembrava bello provare a fissare almeno qualche impressione di quanto vissuto, dell’esperienza di chiesa condivisa in questi giorni. E anche l’assenza da Roma, a cui abbiamo guardato in tv complice l’ora di fuso, tra un tramezzino e l’altro, non è significato distanza dallo spirito di papa Giovanni che abbiamo raccolto e gustato in una versione diversa, ma non meno intensa.
Don Alberto



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