mercoledì 31 luglio 2019

Pax Christi : «Non votate il decreto sicurezza bis»

La disumanità sta diventando legge, non resta che sperare «in un sussulto di umanità» da parte di chi, nei prossimi giorni al Senato, sarà chiamato a votare sì o no al decreto sicurezza bis, che condanna, anzi «inasprisce le pene per chi salva vite in mare», ovvero sceglie di «restare umano». Monsignor Giovanni Ricchiuti, vescovo di Altamura e presidente di Pax Christi, mette in fila le tre notizie di questi ultimi giorni – l’assassinio del carabiniere a Roma da parte di due giovani statunitensi inizialmente spacciati per nordafricani, i 150 morti nel naufragio a largo della Libia, il divieto di sbarco a terra per i 135 migranti a bordo della nave “Gregoretti” ancorata ad Augusta –, legate da un unico filo nero: «razzismo e indifferenza di fronte alla morte» dei migranti. «L’assassinio del giovane carabiniere Mario Cerciello Rega è diventato motivo di strumentalizzazione e di polemica disumana», nota Ricchiuti, ricordando quello che molti organi di informazione hanno rimosso: «Alcuni autorevoli esponenti politici (Salvini e Meloni, n.d.r.) hanno contribuito a creare ancora una volta, con dichiarazioni irresponsabili, un clima di odio. Quasi che fosse più importante la nazionalità dell’assassino rispetto al dolore per la vittima». Poi i sommersi, le 150 persone morte in mare giovedì scorso al largo delle coste di Al Khoms (Libia), ridotte ad «una fredda contabilità» a cui «rischiamo di abituarci» (le ha ricordate anche papa Francesco nell’Angelus di domenica, chiedendo alla comunità internazione di agire «per evitare il ripetersi di simili tragedie e garantire la sicurezza e la dignità di tutti»). Infine i salvati, «i 135 migranti che sulla nave “Gregoretti” della nostra Guardia costiera attendono, da giorni, di conoscere quando e dove saranno sbarcati, assistiti e accolti. Siamo alla follia». Allora «mi chiedo – continua il vescovo di Altamura – se esista ancora, a sentire le ormai trite e ritrite dichiarazioni dell’imperturbabile ministro dell’Interno, il rispetto per le regole fondamentali del mare? E, ancora più grave, dov’è il rispetto per la vita?». Tanto più che in questi giorni si discute il decreto sicurezza bis, che appunto prevede «l’inasprimento delle pene per chi salva vite in mare». «Pax Christi – aggiunge Ricchiuti – dice no, senza se e senza ma. E personalmente mi appello alla coscienza dei senatori perché non lo approvino. Voglio ancora sperare, semplicemente, in un sussulto di umanità». Dal mondo cattolico di base, quella del presidente di Pax Christi non è l’unica voce a levarsi. Da diversi giorni circola una lettera aperta al presidente della Repubblica Mattarella e al presidente del Consiglio Conte sottoscritta dalle religiose di 62 conventi di suore clarisse e carmelitane scalze di tutta Italia (a cui hanno aderito anche le scalabriniane) preoccupate «per il diffondersi di sentimenti di intolleranza, rifiuto e violenta discriminazione nei confronti dei migranti e rifugiati che cercano nelle nostre terre accoglienza e protezione». Alla politica, concludono le suore, manca «una lettura sapiente di un passato fatto di popoli che sono migrati e una lungimiranza capace di intuire per il domani le conseguenze delle scelte di oggi». E contro il decreto sicurezza bis, la scorsa settimana diversi missionari erano in piazza a Montecitorio insieme alla rete Restiamo umani e a Mediterranea, e intendono tornare anche al Senato. Padre Zanotelli: è «un decreto che viola i principi fondamentali della nostra Costituzione e colpisce a morte l’etica perché dichiara reato salvare vite umane in mare».
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di Luca Kocci in “il manifesto” del 30 luglio 2019

martedì 30 luglio 2019

PADRE DALL'OGLIO:6 ANNI DI BUGIE?

Sono ormai trascorsi sei anni dal rapimento di Padre Dall'Oglio in Siria, sei anni caratterizzati anche dalla  composta riservatezza che ha sempre caratterizzato l’atteggiamento dei familiari di padre Dall’Oglio. Mai sopra le righe, sempre fiduciosi nell’azione delle autorità italiane, avulsi da qualsiasi tentazione di notorietà. Ma ora è arrivato il momento di spezzare questa riservatezza perché non è più possibile subire un silenzio reticente ma occorre esigere verità e trasparenza. Parlando di lui al presente, con dolore e speranza. E soprattutto con la determinazione a non arrendersi ai proponitori, diretti o indiretti, di “verità” di comodo.
Con questi obiettivi è stata vissuta la Conferenza che ha avuto come protagonisti alcuni dei familiari di padre Paolo, il fratello Giovanni e le sorelle Francesca e Immacolata.
“Nel 2013 l’Isis non era ancora nato, forse ci si poteva andare a Raqqa a sapere qualcosa. Ora la città è occupata dai nostri alleati della Nato, ma a noi sono giunte solo rassicurazioni verbali che si sta lavorando per arrivare a una verità. Sono sei anni che non siamo riusciti a sapere nulla, è vero che è stato rapito in una zona di guerra ma alcune zone sono state ormai liberate dal novembre 2017”, dice Francesca Dall’Oglio.
“Le ultime notizie? Noi non abbiamo nessuna conferma, né vivo, né morto. Si poteva fare molto di
più e vorremmo anche capire il giallo della sua valigia ritrovata col portafogli. Da parte delle istituzioni non abbiamo mai avuto informazioni certe. Manca la percezione che si sia davvero lavorato per Paolo. Non sappiamo se in questi anni sia stato fatto un lavoro di riscontro delle notizie. Abbiamo avuto rassicurazioni e solidarietà ma c’è bisogno di trasparenza che allontani da noi la sensazione che sia stato utilizzato per fini politici”, rimarca ancora Francesca. “Siamo in un limbo – le fa eco Immacolata, l’altra sorella del gesuita, che ha mostrato una delle ultime fotografie scattate al sacerdote durante una vacanza in Italia -. È viva in noi la speranza di riabbracciare Paolo, siamo malati di speranza: tutto può succedere ma quello che oggi è più forte è la necessità di informazioni e di giustizia”.
“Paolo - dice ancora Francesca - per me rappresenta qualcuno che ha cercato di dare sempre un senso alla sua vita, di essere coerente e di testimoniare l’amore per l’altro che lui vedeva incarnato proprio nella relazione tra musulmani, cristiani, ma tra esseri umani che soprattutto si relazionano gli uni con gli altri anche nelle situazioni più difficili e conflittuali”.
L’incontro di oggi, ha spiegato Francesca, mira a tenere alta l’attenzione sul missionario e sulla
situazione in Siria. “Quella parte del mondo è entrata nella nostra vita – afferma -. È quasi una grazia perché attraverso Paolo viviamo la sofferenza e la tragedia di questo Paese, di questo popolo. È un modo di sentire questa guerra sulla nostra pelle”.
Padre Paolo “era innamorato della Siria –ricorda Giovanni Dall’Oglio - . Si è speso tanto per quel Paese per il quale ha dato tutto. Speriamo sempre che possa ritornare a casa”. Siamo qui per rifare il punto. “Dal governo? Abbiamo avuto non segnali. Questo vuoto, questa assenza...vorremmo capire di più. Vorremmo avere più attenzione”, aggiunge Giovanni, così come avevano fatto Francesca e Immacolata.

lunedì 22 luglio 2019

L'ALIBI

Bisogna spazzare via un alibi. Chi ha paura degli immigrati? Forse qualcuno degli abitanti di quartieri che si trovano ai margini della società e che riversano sulla presenza degli immigrati una insicurezza che caratterizza comunque la loro condizione anche nei confronti di chi immigrato non è, perché quella che provano è in realtà la paura di un ambiente che è loro sempre più estraneo ed ostico.
Poi la paura del migrante, o addirittura dell’invasione – ma non certo da parte di un esercito nemico,
bensì di un presunto nemico, «lo straniero», presentato come se fosse un esercito – viene quotidianamente insufflata attraverso i mezzi di comunicazione di massa e soprattutto i social, fino a suscitare non la paura, ma l’idea di dover avere paura. Ma i migranti che incontriamo tutti i giorni per strada, o su un tram o un bus, o a chiedere la carità, o a fare i facchini, o a pedalare per portare la pappa a chi non si alza neppure più dal divano (e non sono certo quelli del reddito di cittadinanza!), o anche solo ad affacciarsi dalla grata di un centro di accoglienza trasformato in prigione, quelli non fanno paura a nessuno.
La paura del migrante è in realtà paura di un fantasma che nessuno vede: una favola. Ciò che troviamo al suo posto, se solo proviamo a grattare sotto quel luogo comune (ma da tempo non c’è nemmeno più bisogno di grattare tanto) è un sentimento del tutto diverso e anzi opposto: il disprezzo per un essere umano che si vuole considerare altro e diverso da sé. E, ovviamente, inferiore; cosa che viene ribadita con allusioni, parole, gesti e fatti compiuti per averne conferma.
Quel disprezzo è un fattore di compensazione per i torti che si subiscono quotidianamente da parte di chi sta sopra di noi o per l’insuccesso in contesti dove lo considera una colpa. Al posto di una prospettiva di miglioramento o di ascesa sociale ci si accontenta di spingere più in basso chi è meno di noi in grado di difendersi.
È il meccanismo tipico del razzismo, che si rafforza trasformando il disprezzo in odio: un sentimento che fa da barriera contro ogni forma di comprensione o di compassione. L’odio rende il disprezzo irrevocabile perché impedisce l’ascolto. L’aggressione sia verbale che fisica (inizialmente solo verbale, ma per «allenarsi» a quella fisica, a cui non tutti riescono ad arrivare; i più preferiscono delegare questo passaggio ad altri, siano essi squadracce o forze dell’ordine) è innanzitutto, agli occhi di chi la pratica, una manifestazione di protagonismo: qualcosa che ti fa uscire dall’anonimato, ti fa sentire che «conti» qualcosa. Ma da cui è molto difficile tornare indietro.
Disprezzo e odio creano «identità» lungo una spirale che li trasforma facilmente in abitudine: «Prima gli italiani» non significa certo quello che dice: in quello slogan gli italiani sono solo loro, quelli che odiano o che disprezzano lo straniero; non certo quelli solidali. E per uscire da quella contraddizione – quel «prima» non spetta a tutti gli italiani – riversano lo stesso odio e disprezzo sulla solidarietà, sulle sue manifestazioni, su coloro che la praticano: persone che «non hanno il coraggio dell’odio», non hanno la capacità di praticarlo, non hanno l’orgoglio del proprio esclusivo diritto, Untermenschen, sottouomini, femminucce. O sottodonne, «troie»: la qualifica più usata.
Sessismo e maschilismo si saldano al razzismo anche se vengono ipocritamente negati: Salvini porta su un palco una bambola gonfiabile a scopo sessuale per simulare un’avversaria e chiama delinquenti profughi e solidali, ma si indigna se lo chiamano razzista o maschilista.
Dovrebbe essere chiaro perché il femminismo e le sue più recenti manifestazioni rappresentano una minaccia mortale per l’onda nera di razzismo che sta attraversando il mondo cosiddetto sviluppato, mascherando l’odio con la paura. Il razzismo si radica nel machismo (praticato dai maschi ma subìto anche, in varia misura, da molte donne) e questo prende forma dalla più antica e profonda struttura di dominio, il patriarcato, che è possesso: innanzitutto delle donne da parte dei maschi e poi, sul modello di questo, di tutte le altre forme di proprietà: di terre, animali, schiavi, rango, mezzi di produzione, denaro, ma anche patria, cultura, tradizioni, geni, saperi.
È la paura di perdere tutte queste cose – a partire dalla «propria» donna – o anche solo alcune di esse, e persino quelle che si desiderano ma non si hanno, e non quella del migrante, ad aprire la strada all’odio; e a trascinare alla violenza, allo spirito di sopraffazione, allo stupro, al femminicidio, alla richiesta di far «piazza pulita» di tutti gli stranieri.
Quella paura del migrante, che non è paura se non in modo riflesso, si supera solo promuovendo una socialità che in molti ambiti del nostro vivere quotidiano è da tempo venuta meno; una socialità, che è sempre anche solidarietà, non solo nei confronti dello straniero, ma innanzitutto di chi ci è vicino (il nostro prossimo); chiunque esso sia.
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di Guido Viale in “il manifesto” del 20 luglio 2019

domenica 21 luglio 2019

INDIFFERENZA

Sappiamo cosa avviene in Libia. Sappiamo che esistono dei campi di concentramento in cui
vengono rinchiusi coloro che fuggono, per vari motivi economici e politici, dai loro Paesi e cercano
di raggiungere l'Europa. Sappiamo che in quei luoghi vengono torturati, stuprati, seviziati e che le
foto delle loro sofferenze vengono inviate alle famiglie con la richiesta di un riscatto, che si aggira
intorno ai 5/6 mila euro. Sappiamo che, quando vengono liberati, cercano di raggiungere l’Europa e
che pur di non ritornare in mano ai loro aguzzini, s’imbarcano su qualunque natante.
Sappiamo che molti di loro, grandi o piccoli, donne e uomini, moriranno in mare.
Noi sappiamo tutto questo, ma rimaniamo indifferenti, anzi la classe politica, osannata da molti, li
respinge e invita la Libia a riprendere i profughi, condannandoli ancora una volta a un destino
disumano.
L’indifferenza è un sentimento che caratterizza i periodi più bui della nostra storia.
Sappiamo anche questo! Con indifferenza, se non con colpevole sostegno, sono state accettate le
leggi razziali in Italia.
Con indifferenza, molti italiani hanno assistito alla deportazione degli ebrei.
Con indifferenza, molti tedeschi hanno assistito all’internamento nei lager degli ebrei, dei rom e
altri ancora.
“(...) piuttosto che di crudeltà, accuserei i tedeschi di allora di egoismo, di indifferenza, e soprattutto
di ignoranza volontaria, perché chi voleva veramente conoscere la verità poteva conoscerla, e farla
conoscere, anche senza correre eccessivi rischi.” Così scriveva Primo Levi.
E noi italiani, di oggi, possiamo dirci immuni da egoismo e ignoranza volontaria? «Prima di tutto
vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare» (dal sermone del
pastore luterano e teologo tedesco Martin Niemöller.)
Molti sono indifferenti perché non pensano che un giorno possa toccare a loro di essere considerati
indesiderati.
Ecco lo sforzo che ognuno di noi dovrebbe fare, porsi la semplice domanda : “Ma se toccasse a
me?”
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di Valeria Parolari in Trentino del 20 luglio 2019

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