mercoledì 25 giugno 2014

Donne diacono, celibato opzionale, viri probati: le richieste dei preti irlandesi ai loro vescovi

La Chiesa deve consentire l’accesso delle donne al diaconato e permettere ai preti di sposarsi, se si vuole un futuro per il ministero sacerdotale. È quanto affermano i preti della Association of Catholic Priests (Acp), organismo che riunisce più di 800 preti irlandesi che chiedono insistentemente una riforma della Chiesa e tra i quali figurano alcuni sacerdoti sotto inchiesta da parte del Vaticano o addirittura minacciati di scomunica, come p. Tony Flannery, uno dei fondatori, “colpevole” di aver rifiutato di rinnegare le sue convinzioni in materia di ordinazione femminile e morale sessuale (v. Adista Notizie n. 4, 6/13 e 17/14).
Quattro rappresentanti dell’Acp (Brendan Hoban, Dermot Lane, Gerry Alwill e Sean McDonagh) hanno incontrato il 4 giugno a Maynooth tre dei vescovi lì riuniti per l’Assemblea estiva – mons. Philip Boyce (Raphoe), mons. Martin Drennan (Galway) e mons. Donal McKeown (Derry) – per presentare loro alcuni suggerimenti. Un incontro con i vescovi per confrontarsi sulle sfide cui oggi è sottoposta la Chiesa irlandese era stato chiesto già all’inizio del 2013, ma i vescovi avevano invitato i preti dell’Acp a rivolgersi ai Consigli presbiterali delle diverse diocesi. In definitiva, sedici sono state le diocesi che hanno invitato i preti “ribelli”, dando vita a incontri a volte molto utili, i cui risultati ora sono stati presentati ai vescovi.
Sottolineando che nell’arcidiocesi di Dublino sono presenti soltanto due sacerdoti sotto i 40 anni, McDonagh ha affermato che «la Chiesa sta vivendo un’implosione in termini di vocazioni al sacerdozio». Ciò provoca un circolo vizioso di gravi problemi, come il peso sempre maggiore di cui i preti devono farsi carico per garantire una cura pastorale anche là dove la carenza di clero è più forte, con conseguenze dannose per la pastorale stessa ma anche per la salute dei preti, stressati e sovraccarichi. Nella diocesi di Killala, ad esempio, se oggi si riesce ancora a mantenere un prete per ognuna delle 22 parrocchie, tra vent’anni saranno solo in sette. Se nel 1984 si sono svolte 171 ordinazioni, nel 2006 sono state soltanto 22 e attualmente sono 70 i seminaristi in tutta l’Irlanda.
Per fare fronte a questa situazione, i preti dell’Acp hanno presentato ai vescovi tre proposte concrete – con la richiesta, accettata, di inoltrarle a Roma, dopo un esame della Conferenza episcopale – nella convinzione conciliare che «l’eucaristia è il centro e la fonte della vita cristiana»: l’ordinazione dei viri probati; l’invito ai preti che hanno lasciato il ministero per sposarsi a tornare alla loro attività sacerdotale (in una sola parrocchia dell’Irlanda occidentale vi sono, ad esempio, sette ex preti disponibili); l’ordinazione delle donne al diaconato. Si tratta, hanno riconosciuto i preti, di proposte che possono causare inquietudine o difficoltà, ma «nella stretta finestra di opportunità che si ha a disposizione – un decennio o due al massimo – occorre prendere in considerazione queste proposte come questioni di grande urgenza, se si vuole trovare una soluzione alla crisi vocazionale».
D’altronde, come ha sottolineato McDonagh in un’intervista a The Journal (5/6), non ci sarebbe nulla di «inusuale» nell’ordinazione diaconale delle donne: «In passato venivano ordinate – ha detto – ed è piuttosto evidente da un punto di vista storico che le donne hanno prestato servizio nella Chiesa, nonostante ogni tentativo di far tacere la loro voce a partire dal IV secolo».
In un sondaggio commissionato dalla stessa Acp nel 2012 sui cattolici irlandesi, è emerso che l’87% è favorevole alla possibilità del matrimonio per i preti e il 77% a favore dell’accesso delle donne al sacerdozio; il 22% sostiene la scelta dei viri probati.
In margine all’incontro, l’Acp e i vescovi hanno anche parlato dei diversi sacerdoti irlandesi attualmente censurati dalla Congregazione per la Dottrina della Fede per le loro posizioni in merito a morale sessuale e sacerdozio femminile (v. Adista Notizie n. 17/14). «Il modo in cui i processi sono condotti è ingiusto, offensivo, privo dei valori evangelici e causa di scandalo per le persone. Laddove sorgano problemi di dottrina o di morale, occorrerebbe che fossero affrontate a livello locale, come papa Francesco ha ripetuto più volte».
Altro problema sollevato è stato quello della nomina di vescovi esterni alla diocesi, spesso provenienti da luoghi remoti del Paese, che «vanifica il processo di consultazione e non rispetta la dottrina della collegialità articolata al Vaticano II». Infine, quanto al prossimo Sinodo sulla famiglia, l’Acp ha auspicato che esso accolga le risposte dei cattolici irlandesi al questionario inviato dal Vaticano: «La gente vuole che le più importanti questioni pastorali vengano discusse e affrontate concretamente»: prima tra tutte, quella dei divorziati risposati, per i quali si vuole il pieno accesso all’eucaristia.

martedì 24 giugno 2014

LA CHIESA COMUNITA'


Don Primo Mazzolari, in uno dei suoi interventi più coinvolgenti, a pochi mesi dalla morte, parlò della Chiesa come “casa del Padre” e dunque famiglia aperta a tutti. In un certo passaggio “confessò” (tale l’espressione usata) la propria indegnità ad interpretare il mistero di salvezza, ma aggiunse anche che si tratta di compito troppo superiore alle sole forze dell’uomo: necessitano l’abbandono fiducioso alla larghezza provvidenziale del Padre, ma anche le preghiere di tutti i fedeli.

Ne trasse una logica conclusione: giustamente il sacerdote, qualunque sacerdote viene giudicato indegno dai suoi laici, dai fratelli presenti nella casa, nella famiglia. Ad un patto: che tutti e, dunque anche i laici, riconoscano la loro debolezza, perché la Chiesa, la casa del Padre, la famiglia comunità non è fatta solo dai preti, ma anche dai laici i quali possono criticare a condizione di sopportare anch'essi la loro responsabilità. “Non facciamo più un dualismo: preti/laici”, concludeva, perché la “Chiesa è di tutti”.

Ora succede che, dopo qualche tempo di sonnolenta bonaccia, se non dolosa, almeno colpevole, dopo una fase di rimozione del problema, papa Francesco, da tempo sia ritornato, con diretta naturalezza sulla questione: “la Chiesa siamo tutti (cito)…non ristretta ai preti ai vescovi al Vaticano, siamo tutti, tutti famiglia” E dunque non solo preti tanto meno poi se si crea qualche occasione in cui si pensa solo ad una certa fascia dei preti!

La questione è di tutta attualità; abbiamo rimosso un po’ tutti, preti e laici questa idea della comunità e ci siamo affidati ad uno spirito di restaurazione clericale che ha fatto esclusione ed ha presentato un volto discutibile della Chiesa anche sul piano della correttezza nei rapporti e di parresia nei comportamenti.

Peggio, si sono aperti dei cammini di clericalismo, anche nella partecipazione alla celebrazione liturgica, che da una parte hanno rimosso le indicazioni conciliari che avevano fatto del popolo di Dio il protagonista ed obliterato l’idea di una Chiesa che è germe del regno di Dio che vive e cammina nella storia, secondo l’espressione della “Lumen gentium”. Certi ritorni liturgici saranno del tutto legittimi, ma costituiscono il segno di una mentalità, di una diffusa ripresa restauratrice che non aiuta la crescita della comunità.

Il papa però non si è fermato a questa prima annotazione; ha sottolineato che il cammino della Comunione ecclesiale non nasce nelle chiuse ed asfittiche mura di un laboratorio.

Non voglio interpretare, né tanto meno forzare, ma non riesco a non pensare alla esclusività di alcuni movimenti pur legittimi nella realtà ecclesiale, ma indifferenti alla crescita complessiva di un cammino di comunione che è di tutti: senza proselitismi. Ancor più ed ancor peggio: non posso non pensare a gruppuscoli chiusi nel loro benessere (e spero solo spirituale), senza comunicazione feconda con la indiscriminata missione di salvezza; c’è sicuramente il diritto di ogni gruppo a vivere il proprio carisma, a patto che le risultanze siano di crescita per tutta la Chiesa, in equilibrio con un atteggiamento libero appunto dal proselitismo.

Forse anche gli strumenti della Comunità ne vengono a soffrire, consigli pastorali per intanto, e forse sarebbe ora di tener conto delle indicazioni che ci vengono dall'alto.

venerdì 20 giugno 2014

ATTUALITA'

La corruzione italiana è un fenomeno che deriva direttamente dall'estraneità dello Stato rispetto al popolo, dall'esistenza d'una classe dirigente barricata a difesa dei suoi privilegi, dall'appropriazione delle risorse pubbliche da parte dei potenti di turno, dal proliferare delle corporazioni con proprie deontologie, propri statuti, propri privilegi; dalla criminalità organizzata e governata da leggi e codici propri.


 Eugenio Scalfari

mercoledì 18 giugno 2014

Se il prof di religione è un prete sposato la Chiesa lo licenzia, Strasburgo approva 

in “Corriere della Sera” del 13 giugno 2014
José Antonio Fernández Martínez ha settantasette anni. È sposato da trent’anni, ha cinque figli. È un
prete cattolico. Ieri a Strasburgo ha perso una battaglia giudiziaria quasi ventennale. La Corte
europea dei diritti dell’uomo ha deciso in favore della Chiesa cattolica e del governo spagnolo:
l’autorità ecclesiastica ha il diritto di giudicare dell’idoneità di chi insegna la religione cattolica
nella scuola pubblica e dunque rappresenta la Chiesa stessa. Protestando in pubblico contro il
celibato dei preti, il signor Fernández Martínez è venuto meno al «dovere di lealtà aggravato» cui
era tenuto. Legittimo il conseguente non rinnovo della docenza, disposto dal ministero su richiesta
del vescovo. L’Europa ha fatto chiarezza, riconoscendo che legge e dottrina blindano le prerogative
dei vescovi e l’«autonomia» della Chiesa. Vi è stata battaglia, tuttavia, nel palazzo di Strasburgo.
Nel primo giudizio della Corte, due anni fa, il solo giudice spagnolo si era schierato con il signor
Fernández Martínez; ma stavolta il collegio giudicante si è spaccato di netto. Nove giudici contro
otto. Gli otto hanno sottolineato le incongruenze giuridiche e le contraddizioni fattuali della
vicenda. Il vescovo consentì all’assunzione del sacerdote come insegnante di religione quando don
José, sei anni dopo le nozze, era già pubblicamente sposo e padre. Il prete conservò la cattedra per
ben sei anni.
La sua partecipazione a una protesta contro il celibato precipitò le cose. Giunse da Roma la
dispensa, tredici anni dopo la domanda, e il vescovo di Cartagena chiese all’amministrazione
scolastica di non rinnovare il contratto. Dopo due anni di disoccupazione, José Antonio Fernández
Martínez trovò un posto in un museo e dopo quattro anni andò in pensione. Il prete sposato era un
impiegato dello Stato, non della Chiesa, ha sostenuto la minoranza, il suo diritto alla vita privata e
familiare meritava tutela. La libertà religiosa europea, ha ribattuto la maggioranza, non tutela «il
diritto al dissenso all’interno di una comunità religiosa»: i diritti della Chiesa hanno la precedenza.

domenica 15 giugno 2014

Dal vangelo secondo Giovanni(3,16-18)
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. 
Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. 
Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio».
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Sarò sincero. Ho sempre avuto un po' di difficoltà sia a capirlo come a spiegarlo il dogma della Trinità. Per mia fortuna è uno di quei problemi che i cristiani non chiedono molto né di conoscere né di capire. Sicuramente una delle soluzioni possibili e desiderabili è quella di puntare sul tentativo si risolvere il problema affrontandolo con la soluzione dell'unità e dell'amore che soffia da una parte all'altra. Buona l'idea! E così anche Papa Francesco riconosce che "è una contraddizione pensare a cristiani che si odiano. E’ una contraddizione!".In una religione dove il messaggio centrale è l'amore per crescere nell'unità, è veramente assurdo che ci si possa odiare!
In questo periodo ho conosciuto la storia e il pensiero di Etty Hillesum attraverso la lettura del suo Diario e delle Lettere scritte da un Campo di concentramento in Olanda. Una donna speciale da non dimenticare ma che mette in evidenza una delle reazioni del popolo ebraico di fronte alla persecuzione nazista:un'accettazione degli eventi senza reagire perché così è sempre stata la storia del popolo ebraico!
Un popolo con un'identità così forte e marcata che non ha saputo reagire,come se non avesse nulla da difendere e nell'attesa che altri risolvessero il problema e fermassero la strage! Un popolo che imparerà a difendersi solo quando,dopo aver occupato la sua terrà,potrà riconoscersi in una nazione,in uno stato,in un territorio da difendere e difeso da confini.
Mi sembra che ciò capiti anche per i cristiani. Sono tali solo quando si riconoscono nello Stato del Vaticano? La loro identità si specifica e si definisce solo attorno ad una figura carismatica e ad una sacramentalità di potere?
L'annuncio del Vangelo di oggi e quindi di questa domenica trinitaria non annuncia un potere di Dio sull'uomo,ma di una scelta d'amore perchè il mondo si salvi e sia libero! Non c'è alcuna necessità di terra e di confini. Anche perché poi saranno da difendere,costi quel che costi!
Bisognerebbe forse ritrovare lo spirito delle prime comunità cristiane secondo l'augurio di Paolo:<<Fratelli, siate lieti, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell'amore e della pace sarà con voi.
Salutatevi a vicenda con il bacio santo. Tutti i santi vi salutano. La grazia del Signore Gesù Cristo, l'amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi.>>(2Cor13,11-13).

giovedì 12 giugno 2014

MATRIMONIO E SACERDOZIO SONO SACRAMENTI INCOMPATIBILI?

Articolo pubblicato sul sito : http://www.tuttavia.eu/ da don Cosimo Scordato.

Ci permettiamo di offrire alcune osservazioni sulla legge sul celibato dei preti a partire dall'affermazione,  “La sua (del prete) missione è, da sempre, identificata come qualcosa di totalizzante, che lo consacra al servizio degli altri, senza distinzioni”.
Che il celibato possa consentire una disponibilità nei confronti della comunità non è in discussione; anche se vale la pena ricordare come si siano svolte storicamente le cose; infatti, la scelta dei consigli evangelici (castità, povertà, obbedienza) ovvero la cosiddetta condizione ‘totalizzante’, nel primo millennio era considerata prevalentemente tipica della vita religiosa e non dei preti; per secoli comunità di religiosi o di monaci hanno praticato i consigli evangelici senza che questo li abilitasse ad accedere al ministero ordinato; è soprattutto dalla riforma gregoriana dall’XI-XII secolo in poi (non senza motivazioni di tipo economico: la dispersione dei beni ecclesiastici tra i figli dei vescovi e dei preti!) che si volle proporre ai preti l’ideale monastico e ai monaci il ministero ordinato.
Ribadiamo che non si ha niente in contrario che possa continuare la prassi del prete celibe, augurandosi che, in questa modalità, egli possa offrire sempre il meglio di se stesso a servizio della comunità; resta da verificare come concretamente questo avvenga e in che modo la suddetta condizione ‘totalizzante’ non debba fare realisticamente i conti con orari e modalità precise; in buona parte dei casi (e di ciò non c’è da meravigliarsi) le concrete disponibilità offerte alla comunità e ai suoi bisogni risultano abbastanza limitate, quasi ad tempus (per lo più di giorno e neppure in tutte le ore). Inoltre, pur ribadendo il valore altamente positivo della scelta celibataria, non diamo per scontato che – nella concretezza delle situazioni personali – essa possa prestare il fianco a qualche defaillance sul piano della maturità psicologica, dell’autentica disponibilità al servizio, della libertà vissuta senza atteggiamenti di dominio e scevra da tentazioni di protagonismo (sentirsi diversi e migliori) e così via.
L’esigenza che si vorrebbe rappresentare è che affermare il valore positivo del celibato non deve comportare la svalutazione del sacramento del matrimonio; quindi ci sentiamo di prendere in considerazione le ulteriori possibilità.
a. Ci chiediamo se non sia venuto il momento di considerare di potere dare il ministero presbiterale a persone sposate e che abbiano dato buona prova nella loro esperienza coniugale e familiare; come è stato ribadito anche dal papa la legge del celibato non è un dato dogmatico; è una legge ecclesiastica ancora in vigore presso la chiesa cattolica (non presso la chiesa ortodossa, né presso la chiesa evangelica); detta legge ha caratterizzato soprattutto la storia del secondo millennio ma non è riconducibile né alla prassi primitiva delle Chiese, che, con alterne vicende per quasi un millennio, hanno accettato il prete sposato; né alla Scrittura che, almeno in due testi del Nuovo Testamento prevede tranquillamente che l’episcopo e il presbitero siano sposati e che anzi, proprio l’aver dato buona prova nel dirigere la propria famiglia, costituisce una buona condizione per il ministero ecclesiale: I Timoteo 3, 2-5; ma cf anche Tito 1, 6. Il fatto che possa esistere il prete sposato non compromette il carisma del celibato, che può essere riconosciuto come condizione conveniente, ma non esclusiva, di accesso al ministero ordinato; né ipotizziamo che tutti i celibi debbano accedere al ministero ordinato.
b. Parimenti ci chiediamo se non sia il caso di dare l’opportunità ai preti, che si sono sentiti obbligati a interrompere il ministero per potersi sposare, di essere reinseriti nel proprio ministero. Pensiamo che la grazia del sacramento coniugale non solo non si oppone alla grazia del ministero ordinato (come era nel primo millennio nella tradizione indivisa della Chiesa e come continua a essere nella tradizione ortodossa e protestante), ma potrebbe rappresentare una opportunità ulteriore; perché l’esperienza della vita coniugale e familiare dovrebbe impedire a un prete di offrire il suo ministero (in quanto prete) in maniera totalizzante? L’indicazione della Lettera di Paolo a Timoteo sembra favorire questa prospettiva se non proprio questa opportunità; infatti, la capacità di guidare la piccola comunità familiare viene considerata come una buona predisposizione a guidare una comunità più ampia.
c. La terza considerazione è relativa ai casi accennati dalla Lettera inviata al papa; al di là delle singole vicende, ci chiediamo se non sia venuto il momento di ripensare il dato istituzionale della legge sul celibato; probabilmente siamo dinanzi a una svolta, che richiede maturazione e adattamenti; ma, come viene riconosciuto nei processi storico-culturali, i fatti avvengono non a caso o solo per debolezza o infedeltà; può darsi che è venuto il momento di riconoscere che accanto al modello del presbitero celibe si possa dare spazio al modello del presbitero uxorato; cosa che la Chiesa cattolica ha riconosciuto, da secoli, ai preti di rito greco provenuti (nel XVI secolo) da area albanese e, recentemente, ai preti anglicani che si sono ‘convertiti’ al cattolicesimo. Perché non si potrebbe riconoscere, al fine di dare pace alla loro vita, anche a coloro che dovessero, tardivamente, scoprire di non essere (più) chiamati al celibato? A chi si farebbe male? Si cercherebbe solo il bene delle persone (i preti e le donne coinvolti) nella concretezza della loro storia; si darebbe maggiore importanza al sacramento del matrimonio nel momento in cui lo si riconosce compatibile col sacramento dell’ordine; si aiuterebbero le persone a uscire dalle situazioni di ambiguità; alla fine, si promuoverebbe semplicemente il bene della Chiesa nelle persone che ne fanno parte! Il paragone avanzato da Savagnone (può capitare anche a un uomo sposato di innamorarsi) non ci sembra pertinente perché nel caso dello sposato c’è il vincolo matrimoniale, nel caso del prete c’è solo il legame a una legge ecclesiastica, che può essere ridimensionata!
d. Infine, parlando di scelta totalizzante preferirei che fosse riferita alla condizione battesimale (e dei sacramenti dell’iniziazione cristiana); la vera svolta, infatti, non è nello scegliere il celibato o nell’accedere al ministero ordinato; la vera trasformazione radicale avviene in forza della iniziazione cristiana; non c’è niente di più bello e di più grande dell’entrare nella condizione della filiazione divina nel circuito dell’amore trinitario, anche se sperimentiamo che detta consapevolezza stenta a maturare nel popolo cristiano. Non che non sia importante il ministero ordinato; ma esso è un ministero, ovvero un servizio alla comunione visibile della comunità; riteniamo che proprio in questo servizio vada individuata la specificità del ministero ordinato dell’episcopato e del presbiterato e che, conseguentemente, in direzione di essa vadano considerati il riconoscimento del carisma vocazionale e le attitudini personali e, conseguentemente, le scelte formative.
La recente messa in discussione di tante tematiche, finora considerate intoccabili, sollecitata dal questionario dell’episcopato in vista del sinodo dei vescovi sulla famiglia; l’invito di papa Francesco ad avere misericordia rivolgendo attenzione alle persone nelle loro difficoltà; ma soprattutto l’annunzio evangelico di Gesù che la legge (il sabato, il tempio… ma anche la legge ecclesiastica del celibato!) è per l’uomo e non l’uomo per la legge … ci fanno ben sperare che qualcosa possa cambiare; il duplice modello del presbitero celibe e uxorato (fin dall’inizio del ministero o maturato strada facendo) può risolversi in arricchimento per tutti!

PRETI E FACEBOOK...

Il 20% dei preti diocesani e dei religiosi italiani - e quasi il 60% dei seminaristi - hanno dunque un profilo su Facebook, anche se lo usano con frequenza e modalità molto diverse. Nell'indagine "Churchbook. Tra Social Network e pastorale" - presentata giovedì dopo tre anni di lavoro dal Cremit dell'Università Cattolica di Milano e dal dipartimento Scienze Politiche dell'Università di Perugia per conto di WeCa (i webmaster cattolici italiani) - ci sono anche molti elementi qualitativi che indicano come i social media siano abitati con crescente entusiasmo (non solo dai preti giovani) e sia maturata in molti di loro la comprensione delle peculiarità di Facebook: dall'iniziale "dovere di esserci" e replicare la bacheca parrocchiale ad una presentazione più cauta e prudente, una valorizzazione della dimensione comunitaria in modo circoscritto e un rinvio alle occasioni d'incontro reale perché "essere sempre on line non significa necessariamente anche incontrare l'altro".

La presentazione dell'indagine a Milano (disponibile su youtube) in vista della Giornata delle comunicazioni sociali ha anche individuato quattro funzioni ricorrenti - quella dei "confessori", degli "attivisti", degli "esegeti" e dei "predicatori" - assunte da preti, religiosi e seminaristi, mentre le religiose appaiono particolarmente predisposte ad una modalità di accompagnamento spirituale, utilizzando "una comunicazione materno-affettiva".

In questa fase di maturità dell' "abitare" i social emergono provvidenzialmente anche alcune tentazioni. In primo luogo, l'accentramento narcisista che esalta lo schema clericale "uno verso tutti" piuttosto che una circolarità ricercata per favorire la comunione e lo sviluppo di reti in cui anche altri confratelli e i laici figurino come nodi credibili.

Ma "il problema dei problemi" - dentro la stressante quotidianità dei presbiteri italiani - è il fattore tempo. In un recente dibattito sulle relazioni nel Web 2.0 un pluriparroco ammetteva di aver riscoperto nuove fasce orarie nella sua giornata - il primo pomeriggio per messaggiare con i suoi studenti pendolari o la sera tardi per rispondere con calma alle richieste di alcuni parrocchiani - e la difficoltà di rispettare gli orari: "Ma se arrivo qualche minuto dopo - aggiungeva - immagino che la mia gente capisca ormai anche il motivo del mio ritardo". E a tanti confratelli che giudicano "smanettoni" o "impallinati" i preti troppo presenti nella rete, risponde indirettamente l'esperto padovano don Marco Sanavio: "Anche se ne conosce le differenze, considero il tempo utilizzato nella relazione nei social come quello dedicato al dialogo interpersonale - ha detto in una recente intervista - D'altra parte è successo all'epoca anche per lo strumento del telefono. Ma chi oggi sosterrebbe che telefonare è una perdita di tempo e non può servire per coltivare relazioni e dialoghi anche per l'evangelizzazione?".

Ma forse è "soltanto" un problema di equilibrio, non lasciarsi prendere dalla smania dell'onnipresenza virtuale e non arroccarsi in un distacco "duro e puro" che impedisce d'incrociare le persone nelle piazze più frequentate dei giorni nostri.

Sul tema lo scambio di esperienze potrebbe essere utilissimo, se è vero - come dice la sociologa dei social media Nicoletta Vittadini - che "condividere significa prendersi cura".
«I nostri sforzi sono stati vani: insegnaci Tu la pace»

di Papa Francesco | 08 giugno 2014
Il testo dell'Invocazione pronunciata da Papa Francesco al termine della preghiera tenuta insieme a israeliani e palestinesi nei Giardini vaticani
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Signori presidenti, santità, fratelli e sorelle!

Con grande gioia vi saluto e desidero offrire a voi e alle distinte Delegazioni che vi accompagnano la stessa calorosa accoglienza che mi avete riservato nel mio pellegrinaggio appena compiuto in Terra Santa.

Vi ringrazio dal profondo del cuore per aver accettato il mio invito a venire qui per invocare insieme da Dio il dono della pace. Spero che questo incontro sia un cammino alla ricerca di ciò che unisce, per superare ciò che divide.

E ringrazio Vostra Santità, venerato Fratello Bartolomeo, per essere qui con me ad accogliere questi illustri ospiti. La Sua partecipazione è un grande dono, un prezioso sostegno, e testimonianza del cammino che come cristiani stiamo compiendo verso la piena unità.

La vostra presenza, Signori Presidenti, è un grande segno di fraternità, che compite quali figli di Abramo, ed espressione concreta di fiducia in Dio, Signore della storia, che oggi ci guarda come fratelli l'uno dell'altro e desidera condurci sulle sue vie.

Questo nostro incontro di invocazione della pace in Terra Santa, in Medio Oriente e in tutto il mondo è accompagnato dalla preghiera di tantissime persone, appartenenti a diverse culture, patrie, lingue e religioni: persone che hanno pregato per questo incontro e che ora sono unite a noi nella stessa invocazione. È un incontro che risponde all'ardente desiderio di quanti anelano alla pace e sognano un mondo dove gli uomini e le donne possano vivere da fratelli e non da avversari o da nemici.

Signori Presidenti, il mondo è un'eredità che abbiamo ricevuto dai nostri antenati, ma è anche un prestito dei nostri figli: figli che sono stanchi e sfiniti dai conflitti e desiderosi di raggiungere l'alba della pace; figli che ci chiedono di abbattere i muri dell'inimicizia e di percorrere la strada del dialogo e della pace perché l'amore e l'amicizia trionfino.

Molti, troppi di questi figli sono caduti vittime innocenti della guerra e della violenza, piante strappate nel pieno rigoglio. E' nostro dovere far sì che il loro sacrificio non sia vano. La loro memoria infonda in noi il coraggio della pace, la forza di perseverare nel dialogo ad ogni costo, la pazienza di tessere giorno per giorno la trama sempre più robusta di una convivenza rispettosa e pacifica, per la gloria di Dio e il bene di tutti.

Per fare la pace ci vuole coraggio, molto di più che per fare la guerra. Ci vuole coraggio per dire sì all'incontro e no allo scontro; sì al dialogo e no alla violenza; sì al negoziato e no alle ostilità; sì al rispetto dei patti e no alle provocazioni; sì alla sincerità e no alla doppiezza. Per tutto questo ci vuole coraggio, grande forza d'animo.

La storia ci insegna che le nostre forze non bastano. Più di una volta siamo stati vicini alla pace, ma il maligno, con diversi mezzi, è riuscito a impedirla. Per questo siamo qui, perché sappiamo e crediamo che abbiamo bisogno dell'aiuto di Dio. Non rinunciamo alle nostre responsabilità, ma invochiamo Dio come atto di suprema responsabilità, di fronte alle nostre coscienze e di fronte ai nostri popoli. Abbiamo sentito una chiamata, e dobbiamo rispondere: la chiamata a spezzare la spirale dell'odio e della violenza, a spezzarla con una sola parola: "fratello". Ma per dire questa parola dobbiamo alzare tutti lo sguardo al Cielo, e riconoscerci figli di un solo Padre.

A Lui, nello Spirito di Gesù Cristo, io mi rivolgo, chiedendo l'intercessione della Vergine Maria, figlia della Terra Santa e Madre nostra.

Signore Dio di pace, ascolta la nostra supplica!

Abbiamo provato tante volte e per tanti anni a risolvere i nostri conflitti con le nostre forze e anche con le nostre armi; tanti momenti di ostilità e di oscurità; tanto sangue versato; tante vite spezzate; tante speranze seppellite...Ma i nostri sforzi sono stati vani. Ora, Signore, aiutaci Tu! Donaci Tu la pace, insegnaci Tu la pace, guidaci Tu verso la pace.

Apri i nostri occhi e i nostri cuori e donaci il coraggio di dire: "mai più la guerra!"; "con la guerra tutto è distrutto!". Infondi in noi il coraggio di compiere gesti concreti per costruire la pace. Signore, Dio di Abramo e dei Profeti, Dio Amore che ci hai creati e ci chiami a vivere da fratelli, donaci la forza per essere ogni giorno artigiani della pace; donaci la capacità di guardare con benevolenza tutti i fratelli che incontriamo sul nostro cammino. Rendici disponibili ad ascoltare il grido dei nostri cittadini che ci chiedono di trasformare le nostre armi in strumenti di pace, le nostre paure in fiducia e le nostre tensioni in perdono. Tieni accesa in noi la fiamma della speranza per compiere con paziente perseveranza scelte di dialogo e di riconciliazione, perché vinca finalmente la pace. E che dal cuore di ogni uomo siano bandite queste parole: divisione, odio, guerra!

Signore, disarma la lingua e le mani, rinnova i cuori e le menti, perché la parola che ci fa incontrare sia sempre "fratello", e lo stile della nostra vita diventi: shalom, pace, salam! Amen.

mercoledì 11 giugno 2014

SOPPRIMERE IL CELIBATO OBBLIGATORIO?

di p. José Maria CASTILLO
Il papa Francesco, nel viaggio di ritorno a Roma dopo la sua visita a Gerusalemme, ha detto ai giornalisti che “il celibato dei preti non è obbligatorio... la porta è aperta”. Ossia, il papa ci ha detto che la Chiesa cattolica può permettere che i preti si sposino. Ebbene, prescindendo da altre considerazioni che si potrebbero fare su questa questione, mi sembra che la cosa più chiara e seria che si deve dire in questo momento è che le autorità ecclesiastiche non solo possono permettere il matrimonio dei preti, ma soprattutto che devono permetterlo.
Perchè?
Senza ricorrere necessariamente ad altri argomenti – che ci sono, forti ed abbondanti – sono di speciale attualità questi due:
Paolo, nella prima lettera ai Corinti, dice: “Non abbiamo il diritto di mangiare e di bere? Non abbiamo il diritto di viaggiare in compagnia di una moglie cristiana, come gli altri apostoli, inclusi i fratelli del Signore e Pietro?” (1 Cor 9, 4-5). Il testo greco dice letteralmente “una moglie sorella”. Perché i “cristiani” in quel tempo si chiamavano “fratelli”. Quindi, secondo Paolo, gli apostoli del Vangelo e della Chiesa hanno il diritto di sposarsi, come hanno il diritto ad alimentarsi.
Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione sulla Chiesa (Lumen gentium, 37), afferma questo: “I laici, come tutti i fedeli, hanno il diritto di ricevere abbondantemente dai sacri pastori i beni spirituali della Chiesa, soprattutto gli aiuti della parola di Dio e dei sacramenti” (LG 37, 1). Ebbene, oggi la Chiesa già si vede, per quanto riguarda quest’obbligo così grave, in una situazione disperata. Per la semplice ragione che, per conservare intoccabile un obbligo che la stessa autorità ecclesiastica ha imposto a se stessa, ci troviamo nella penosa situazione che consiste nel non poter dare la debita risposta al diritto che hanno i fedeli di fare affidamento su ministri ordinati che predichino loro la parola di Dio ed amministrino i sacramenti a chi li chiede per adempiere alle proprie convinzioni religiose.
Conclusione: nell’incaponirsi a mantenere intoccabile la legge del celibato obbligatorio, la Chiesa sta violando un diritto fondamentale che hanno tutti i preti, il diritto a sposarsi, se vogliono organizzare così la loro vita. E sta anche violando un diritto che, come credenti, hanno tutti i fedeli cristiani, il diritto a partecipare all’Eucaristia, ad essere istruiti ed assistiti nella propria vita cristiana, etc.
Quello che ha detto il papa Francesco non deve essere motivo di preoccupazione o di rabbia per i credenti di mentalità più tradizionale o conservatrice. E se ci sono quelli che si preoccupano o si arrabbiano, si chiedano il perchè di tale preoccupazione o di tale rabbia. Quelli che hanno questi sentimenti così brutti, dovrebbero chiedersi se, invece di un buon teologo, non abbiano bisogno di un buon psicoterapeuta.
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Articolo pubblicato il 28.5.2014 sul Blog dell’Autore sul sito www.periodistadigital.com

domenica 8 giugno 2014

UNA VARIETÀ' DI DONI

In un'epoca di specializzazioni e di divisione del lavoro,insistere sui differenti doni dello Spirito Santo è ancor più necessario che ai tempi apostolici. Che ci sia donata la sapienza di riconoscere la nostra specifica competenza,con i suoi limiti. E che questo ci conduca a seppellire tutte le nostre grandi gelosie,e anche le nostre piccole invidiucce.

1 Corinti 12,4-11

Ci sono diversità di doni,
ma lo Spirito è lo stesso.
Ci sono diversità di servizi,
ma è sempre te che noi serviamo.
Ci sono diversità di attività,
ma è il medesimo Dio che le ispira tutte.

A ciascuno di noi è data
una manifestazione del tuo Spirito,
per il bene comune.

A uno,per mezzo dello Spirito,è concesso
un linguaggio sapiente;
a un altro,un linguaggio scientifico
per mezzo dello stesso Spirito;
a un altro,la fede;
a un altro,i doni della guarigione;
a un altro il potere di far miracoli.

Tutti questi doni
sono del medesimo Spirito,
che viene a noi tramite te,Signore,
che li distribuisce a ciascuno,singolarmente,
come vuole.

(Paul Hilsdale,Nel Signore Gesù.Le lettere di Paolo in forma di preghiera.)

martedì 3 giugno 2014

PREGHIERA PER UN CAMMINO COMUNE


Signore Gesù, tu conosci la nostra debolezza

nel parlare, nel pensare, nel pregare.

Perfino nel pregare che è l’azione apparentemente più facile, più perfetta,

noi ci sentiamo estremamente deboli; e anche nel camminare insieme.

Signore, Tu sei all’origine di ogni preghiera e di ogni cammino.

Infondi il tuo Spirito nel nostro cuore,

in modo da renderci capaci di pregare e di camminare come tu vuoi.

E quando abbiamo poca fiducia nelle nostre preghiere e nei nostri cammini

perché sono troppo fragili,

fa’ che guardiamo alla tua intercessione,

a te glorioso presso il Padre, che nella gloria e nella comunione dello Spirito

intercedi e preghi per noi in questo momento, ora e sempre.

Amen


Carlo Maria Martini

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