sabato 30 gennaio 2016

IL PESO DELLA MEMORIA

Georges Santayana: “Chi dimentica il proprio passato è costretto a riviverlo”
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Bernard Henry-Lévy: “Sapete come si fa a uccidere un uomo due volte? Dimenticando di averlo già ucciso una volta”.

NUOVA VISIONE DEI RAPPORTI TRA EBREI E CRISTIANI

Ventotto rabbini ortodossi hanno pubblicato un documento che apre nuove prospettive per quanto concerne la relazione tra ebraismo e cristianesimo. Il testo si intitola "Fare la volontà del Padre Nostro in cielo: Verso un partenariato tra ebrei e cristiani" ed è apparso lo scorso 3 dicembre.
"Dopo quasi due millenni di reciproca ostilità e alienazione", affermano i firmatari, "noi rabbini ortodossi che conduciamo comunità, istituzioni e seminari in Israele, negli Stati Uniti e in Europa riconosciamo l'opportunità storica che si presenta ora davanti a noi. Noi cerchiamo di fare la volontà del nostro Padre celeste accettando la mano che ci viene offerta dai nostri fratelli e sorelle cristiani. Ebrei e cristiani devono lavorare insieme come partner per affrontare le sfide morali della nostra epoca".
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1. La Shoah si è conclusa 70 anni fa. È stato il tragico culmine di secoli di mancanza di rispetto, di oppressione e di rifiuto degli ebrei e della conseguente ostilità che si è sviluppata tra ebrei e cristiani. Col senno di poi, è chiaro che l’incapacità di spezzare questo disprezzo e di impegnarsi in un dialogo costruttivo per il bene dell'umanità ha indebolito la resistenza alle forze del male dell’antisemitismo, che hanno sommerso il mondo nell’assassinio e nel genocidio.
2. Riconosciamo che a partire dal Concilio Vaticano II gli insegnamenti ufficiali della Chiesa cattolica sull'ebraismo sono cambiati radicalmente e irrevocabilmente. La promulgazione di Nostra Aetate cinquant'anni fa ha iniziato il processo di riconciliazione tra le nostre due comunità. Nostra Aetate e i successivi documenti ufficiali della Chiesa respingono inequivocabilmente ogni forma di antisemitismo, affermano il patto eterno tra Dio e il popolo ebraico, respingono il deicidio e sottolineano il rapporto unico tra cristiani ed ebrei, che furono indici come "i nostri fratelli maggiori" da Papa Giovanni Paolo II e "i nostri padri nella fede" da Papa Benedetto XVI. Su questa base, i cattolici e altri esponenti dl cristianesimo hanno iniziato un dialogo onesto con gli ebrei che è cresciuto nel corso degli ultimi cinque decenni. Apprezziamo l'affermazione della Chiesa del posto unico di Israele nella storia sacra e nella redenzione finale del mondo. Oggi gli ebrei hanno sperimentato l'amore sincero e il rispetto di molti cristiani che sono stati espressi in molte iniziative di dialogo, incontri e conferenze in tutto il mondo.
3. Come Maimonide e Yehudah Halevi, riconosciamo che il cristianesimo non è né un incidente né un errore, bensì l’esito voluto dalla volontà di Dio e dono alle nazioni. Separando ebraismo e cristianesimo, Dio ha voluto una separazione tra partner con significative differenze teologiche, non una separazione tra nemici. Il Rabbino Jacob Emden ha scritto che "Gesù ha portato un doppio bene al mondo. Da un lato ha rafforzato molto la Torah di Mosè ... e nessuno dei nostri saggi ha affermato con più enfasi l'immutabilità della Torah. D'altra parte ha rimosso gli idoli dalle nazioni e le ha assoggettate ai sette comandamenti di Noè in modo che non si comportassero come animali dei campi, e ha instillato saldamente in esse le regole morali. ... I cristiani sono congregazioni che lavorano per il bene del cielo, che sono destinate a durare nel tempo, il cui scopo è il bene del cielo e la cui ricompensa non sarà negata ". Rabbi Samson Raphael Hirsch ci ha insegnato che i cristiani" hanno accettato la Bibbia ebraica dell'Antico Testamento come libro di rivelazione divina . Essi professano la loro fede nel Dio del Cielo e della Terra, come proclamato nella Bibbia e riconoscono la sovranità della Divina Provvidenza". Ora che la Chiesa cattolica ha riconosciuto il patto eterno tra Dio e Israele, noi ebrei possiamo riconoscere la attuale validità costruttiva del cristianesimo come nostro partner nella redenzione del mondo, senza alcun timore che ciò possa essere sfruttato per scopi missionari. Come ha dichiarato la Commissione bilaterale del Gran Rabbinato di Israele con la Santa Sede, sotto la guida del rabbino Shear Yashuv Cohen, "Non siamo più nemici, ma senza alcun dubbio partner affidabili nell'articolare i valori morali essenziali per la sopravvivenza e il benessere dell'umanità". Nessuno dei due può realizzare da solo la missione di Dio in questo mondo.
4. Sia gli ebrei sia i cristiani hanno una comune missione di alleanza per perfezionare il mondo sotto la sovranità dell'Onnipotente, in modo che tutta l'umanità invochi il suo nome e gli abomini vengano rimossi dalla terra. Comprendiamo l'esitazione di entrambe le parti nell’affermare questa verità e invitiamo le nostre comunità a superare queste paure al fine di stabilire un rapporto di fiducia e di rispetto. Rabbi Hirsch ha anche insegnato che il Talmud mette i cristiani "per quanto riguarda i doveri tra uomo e uomo esattamente allo stesso livello degli ebrei. Essi hanno diritto al beneficio di tutti i doveri, non solo di giustizia, ma anche di attivo amore umano fraterno. "In passato i rapporti tra cristiani ed ebrei sono stati spesso interpretati attraverso il rapporto conflittuale di Esaù e Giacobbe, ma il rabbino Naftali Zvi Berliner ( Netziv) aveva già capito alla fine del 19° secolo che ebrei e cristiani sono destinati da Do a essere partner amorosi: "In futuro, quando i figli di Esaù saranno mossi da puro spirito a riconoscere il popolo d'Israele e le sue virtù, allora anche noi saremo spinti a riconoscere che Esaù è nostro fratello".
5. Noi ebrei e cristiani abbiamo in comune più di ciò che ci divide: il monoteismo etico di Abramo; il rapporto con l’Unico Creatore del Cielo e della Terra, che ama e si prende cura di tutti noi; le Sacre Scritture ebraiche; la fede in una tradizione vincolante; i valori della vita, della famiglia, della misericordia, della giustizia, della libertà inalienabile, dell'amore universale e della definitiva pace nel mondo. Rabbi Moses Rivkis (Be'er Hagoleh) ne dà conferma e ha scritto che "i Saggi hanno fatto riferimento solo agli idolatri dei loro tempi che non credevano nella creazione del mondo, nell'Esodo, nei gesti miracolosi di Dio e nella legge data da Dio . Al contrario, le popolazioni presso le quali siamo sparsi credono in tutti questi elementi essenziali della religione".
6. La nostra partnership non minimizza in alcun modo le differenze che continuano ad esistere fra le due comunità e le due religioni. Noi crediamo che Dio impiega molti messaggeri per rivelare la sua verità, mentre affermiamo gli obblighi etici fondamentali che tutte le persone hanno di fronte a Dio che l'ebraismo ha sempre insegnato attraverso l'alleanza universale di Noè.
7. Nella imitazione di Dio ebrei e cristiani devono offrire modelli di servizio, di amore incondizionato e di santità. Siamo tutti creati ad immagine di Dio, e ebrei e cristiani rimarremo attaccati all’Alleanza svolgendo un ruolo attivo nel redimere il mondo.

…memoria

Il nuovo memoriale della Shoah realizzato nei pressi della stazione centrale di Bologna è importante, è nuovo, è utile. Si tratta di una novità per l’Italia, che finalmente mette a tema un buco nero della sua storia e invita i suoi cittadini che si affrettano verso i binari per prendere un treno, che quel mezzo è servito anche a portare ai campi di lavoro e di morte milioni di persone. L’unico altro monumento pubblico nella Penisola che gli si può associare è quello realizzato fra il 1985 e il 1993 nel Ghetto nuovo a Venezia. Che si sappia non ci sono altri esempi, se escludiamo i musei realizzati o in via di realizzazione (Milano al Binario 21, Roma e Ferrara). La rappresentazione in maniera astratta – come fa questa interessante opera realizzata da un gruppo di giovani architetti creativi – dell’evento indicibile della Shoah, è un ulteriore segno della maturazione di un percorso di riflessione che continuo a pensare sia positivo. “La memoria – ha sottolineato di recente in maniera molto efficace David Bidussa – non è un fatto. È un atto. Un atto che si compie tra vivi, volto a legare tra loro individui in relazione alla costruzione di una coscienza pubblica, un atto che dice oggi che del passato si è trattenuto qualcosa, e che quel qualcosa ha arricchito la nostra capacità di agire in relazione a un domani che si intende costruire”.

Gadi Luzzatto Voghera, storico
(29 gennaio 2016)

venerdì 29 gennaio 2016

LETTERA DI ALCUNI GENITORI AL FAMILY DAY

"Prima di essere attivisti, siamo madri e padri che, ad un certo momento della loro vita, hanno dovuto fare i conti con l'orientamento sessuale o con l’identità di genere dei propri figli".
I membri di Agedo, l’associazione genitori di omosessuali, hanno scritto una lettera aperta alle madri e ai padri che parteciperanno al Family Day a Roma. Si rivolgono a loro perché "nonostante facciate fatica ad immaginarlo, è statisticamente sicuro che tra i vostri figli vi siano molti ragazzi e ragazze che, anche se non vi hanno mai confidato nulla, sono gay, lesbiche, bisessuali e transgender".
Ognuno di loro ha affrontato in maniera differente il coming out del figlio: "Per alcuni è stato un momento di gioia, per altri di disorientamento, per altri ancora di disagio, paura e vergogna ed è stato necessario un cammino a volte anche lungo per comprendere. Per tutti è, o dovrebbe essere, il momento in cui un genitore fa sapere al proprio figlio che sarà sempre amato per quello che è".
Non tutti dunque sono stati in grado di accettare subito la confessione e coscienti delle difficoltà affrontate e soprattutto del disagio provocato involontariamente ai propri figli scrivono ai colleghi genitori che durante la manifestazione combatteranno dall'altra parte della barricata.
"Quali stati d'animo pensiate possano prevalere quando vi sentiranno urlare in piazza che c'è una sola famiglia e che essere omosessuali, bisessuali, transessuali, “non è naturale”? Da anni una delle principali attività del nostro movimento è combattere contro il bullismo. È molto difficile però intervenire a sostegno di ragazzi e ragazze che non possono raccontare ai genitori cosa subiscono perché temono che i sentimenti che provano vengano giudicati sbagliati, perversi, da condannare", scrivono.
La lettera si conclude con un agurio, nella speranza che le loro parole possano raggiungere anche una sola delle persone che occuperanno le piazze: "Noi vorremmo che tutte le famiglie fossero rispettate per quello che sono. Per voi domani è il Family Day, per noi ogni giorno è buono per far crescere il rispetto e la comprensione dentro ogni famiglia e per ogni famiglia.
Redazione, L'Huffington Post
Tanti cattolici sono d’accordo con il ddl Cirinnà.    Il Family Day di è in contraddizione con la Chiesa in uscita di cui parla papa Francesco
Nel turbinio mediatico di questi giorni appare, in modo del tutto fuorviante, che tutti i cattolici, dentro o fuori il Parlamento, siano contro, o del tutto o in parte, alla proposta di legge in discussione. Non è così. Anche se ha poca immagine, una vasta area di opinione concorda con essa, particolarmente quella che si ispira, con particolare convinzione, al messaggio e allo spirito del Concilio Ecumenico Vaticano II.
La normativa sulle coppie di fatto si propone di regolamentare (in ritardo) una realtà sociale ormai presente in tutto il paese e in ogni stato sociale.
Le unioni civili, come regolamentate nella prima parte del ddl, sono differenti dal matrimonio e la step child adoption vuole regolarizzare correttamente, nell’interesse dei minori che vi siano coinvolti, rapporti affettivi consolidati (qualora naturalmente essi siano ben accertati secondo le norme e le prassi della legge sulle adozioni in vigore).
Ci sembra poi che si debba intervenire in seguito, in vari modi con le riforme necessarie, perché il desiderio di maternità e di paternità intercetti il bisogno di tanti minori che nel nostro paese sono abbandonati o trascurati.
La manifestazione di sabato 30 è espressione dell’ala fondamentalista del mondo cattolico, poco preoccupata della laicità delle istituzioni e incapace di capire molti aspetti degli affetti, delle sofferenze e dei bisogni presenti in tante situazioni che, per la loro genuinità ed onestà, devono essere accolte nella società e, a maggior ragione, nella Chiesa.
Roma, 27 gennaio 2016 NOI SIAMO CHIESA

I LUTERANI DICONO DI SI' ALLE UNIONI CIVILI

La Chiesa Evangelica Luterana in Italia (Celi), che riunisce le comunità luterane dell’intera penisola, rende nota una dichiarazione del decano Heiner Bludau relativa all’evolversi dell’iter approvativo del Ddl sulle Unioni Civili, la cosiddetta Legge Cirinnà.«Per i luterani, è fondamentale costruire una società in cui possano essere vissuti con pienezza i valori cristiani di fiducia, fedeltà e responsabilità ha detto il decano Bludau – Sono convinto che l’approvazione di una legge che riconosca e regolamenti le unioni civili possa dare un contributo concreto affinché questo avvenga. Riconoscere ufficialmente le comunioni di vita differenti dal matrimonio, significa assicurare a tutte le coppie un’unione in dignità e certezza di diritto, senza svalutare in alcun modo il concetto di famiglia. Anche in caso di coppie dello stesso sesso. Per tanti, troppi secoli le chiese hanno colpevolmente discriminato le persone omosessuali: come Celi, riconosciamo da tempo questa colpa e accompagniamo tutti e indifferentemente nel proprio cammino di fede e di vita. Aggiungo che assicurare tutele a chi ne ha bisogno è un’istanza ineludibile e, proprio per questo, sono favorevole anche alla cosiddetta stepchild adoption: i diritti dei bambini devono essere sempre garantiti. Ad oggi, in caso di separazione di una coppia omogenitoriale o di morte di uno dei due partner, i bambini di quella famiglia risultano del tutto svantaggiati. In molti Stati d’Europa, si sono fatti concreti passi avanti in questa direzione, ed è venuto il momento di agire anche della nostra Italia: non si deve più aspettare. Rivolgo, quindi, un rispettoso invito a tutti i membri del Parlamento affinché l’iter legislativo arrivi a termine in modo rapido, positivo e con il massimo livello possibile di garanzie».
L’invito del decano Bludau è frutto di una riflessione nel solco dell’evoluzione della posizione della Celi sul tema, culminata - a maggio 2011 - nella delibera del Sinodo che diede il via libera alla benedizione delle persone in unioni di vita non tradizionali, anche omosessuali. I sinodali concordarono, infatti, che il compito di una chiesa è accompagnare le coppie che vivono la propria relazione in maniera responsabile, indifferentemente dall’orientamento sessuale e sulla base dei principi di volontarietà, continuità, fiducia e, ovviamente, assenza di violenza. Con la benedizione e il sostegno di Dio, le persone possono sentirsi creature amate e accettate indipendentemente dal giudizio altrui e possono ricevere la forza di vivere serenamente il loro rapporto.
Famiglia non significa sacramento
 A me sembra stupefacente il clamoroso contrasto cui assistiamo in questi giorni attorno al problema della famiglia. Finalmente anche in Italia, come è già avvenuto in altri stati, si tenta di introdurre una normativa che regoli le cosiddette unioni civili. Ma il proposito è ostacolato dalla pretesa di tenerle ben distinte dalla “famiglia fondata sul matrimonio”. Perdura la concezione mitica della famiglia che non può essere inquinata da fenomeni degeneri. Atteggiamento questo totalmente ingiustificato dalla realtà. Vero è che secondo la tradizione cattolica il matrimonio è addirittura un sacramento e che persino nella nostra Costituzione è sancito che la famiglia è una società naturale basata sul matrimonio. Però ormai da tempo nè il matrimonio civile nè quello religioso sono indissolubili. Addirittura quello religioso poteva essere annullato anche prima del divorzio in base al privilegio Paolino previsto dal codice canonico se uno dei coniugi impediva all’altro di eseguire le sue pratiche religiose. Ma anche a prescindere da ciò la famiglia come tale ha avuto una evoluzione storica molto profonda. Al tempo dell’antica Roma la famiglia era la “gens” della quale erano membri anche gli schiavi. Pensiamo poi alla famiglia poligamica, ancora oggi presente in alcune realtà. Maometto, il profeta dell’Islam, aveva nove mogli e questa era la sua famiglia. Per venire a tempi più recenti troviamo pure una evoluzione enorme nella realtà della famiglia. Fino ai primi anni Settanta del secolo scorso era scritto nel Codice civile che «il marito è il capo della famiglia». Ciò prefigurava un modello di famiglia patriarcale, dove il marito - padre, e spesso il nonno, era il padre - padrone, al quale tutti gli altri erano subordinati. Le donne erano segregate nei lavori domestici, i figli e i nipoti trattati con severità piuttosto che con affetto. Oggi questa famiglia patriarcale non c’è più. Abbiamo ancora purtroppo numerosi casi di violenze e maltrattamenti, il femminicidio è nato e prospera nelle famiglie. La famiglia è un’istituzione più criminogena della mafia, se confrontiamo il numero dei delitti che si consumano nei due settori. Ed allora come è possibile riconoscere al matrimonio, sacramento o cerimonia civile, quella efficacia salvifica che si pretende di attribuirgli? La verità è che, come ormai è dimostrato dall’esperienza, la cellula - famiglia è sana e resistente, è feconda di figli e per i figli solo se è formata da persone di buona qualità. Dunque è la qualità delle persone che la compongono che fa della famiglia una cellula preziosa della società, e non è il sacramento o il formale matrimonio. È necessario volersi bene, capirsi, perdonarsi le reciproche debolezze, aiutarsi a superare le proprie insufficienze, anche fare l’amore e generare figli che devono crescere in un ambiente sereno e caldo d’affetto. Questo è ciò che rende armonioso ed anche felice l’incontro fra due persone che progettano di vivere insieme. Cosa cambia se sono due lui o due lei? Viene meno la capacità di generare prole. Ma anche a ciò vi è rimedio, inventato da molto tempo: l’adozione! Il figlio adottivo è sempre generato da un utero estraneo alla coppia. Davvero la radice genetica è più importante della cultura? Davvero è essenziale che il figlio sappia chi sono i suoi genitori naturali? Io credo che ciò che conta sia soprattutto, come ho detto, la qualità delle persone. L’esperienza ce lo insegna. Le famiglie originate dai matrimoni non sono garantite dal sacramento o dalla cerimonia civile. Le unioni civili possono essere altrettanto ed anche più solide e armoniose. E ciò che conta è la qualità delle persone che le compongono, non il loro sesso. La diversità sessuale era comprensibile nelle comunità primitive, lo è assai meno nel mondo più civile e maturo. Ritenere il contrario è pura arretratezza. Come lo fu la contrarietà al divorzio e all’aborto, clamorosamente smentita dai referendum popolari che ne seguirono. Che ci sia ancora bisogno di un referendum popolare?
di Renato Ballardini in “Trentino” del 28 gennaio 2016
Comunicato Stampa di Cammini di Speranza, associazione di persone LGBT cristiane

Alla vigilia del Family Day, Cammini di Speranza, la prima associazione nazionale delle persone LGBT cristiane, appena costituita, propone #chiesaascoltaci, una campagna di storytelling che presenterà, a cadenza periodica, un appello lanciato, di volta in volta, una storia di una persona gay o lesbica cattolica, ma anche di genitori, parenti, amici, rivolto alla chiesa intera, perché diventi finalmente casa per tutti, capace di inclusione e accoglienza. “L’idea è’ di far riscoprire le piazze, reali ma anche quelle virtuali offerte dai social network come luoghi di incontro – spiega Andrea Rubera, portavoce di Cammini di Speranza – in un momento in cui sembra che la logica delle barricate, della contrapposizione ideologica sia l’unica via percorsa.”. “Siamo nell’anno del giubileo della Misericordia e ci sembra che nella luce della Misericordia debba trovare spazio ogni persona, ogni storia, ogni affetto, con uguale dignità, uguale rispetto, senza pregiudizio. Papa Francesco ci invita a costruire ponti e noi siamo qui a raccogliere questo invito. Vogliamo che i pastori si vestano anche della nostra “puzza di pecore” che per tanti anni è stata puntualmente evitata una puzza sconosciuta”. Cammini di speranza è un’associazione composta da persone cristiane, di varie provenienze, percorsi, età, orientamento sessuale e identità di genere che si impegnano nell’accoglienza di chiunque sia interessato ad approfondire le tematiche riguardanti la fede e l’omosessualità per promuovere il rispetto, la dignità e l’uguaglianza delle persone LGBT nelle chiese e nella società, sia una corretta informazione. La campagna partirà con la storia di Giulia e sarà attiva, fino alla fine del Giubileo della Misericordia, su Twitter e Facebook attraverso gli account Social di Cammini di Speranza. Scrive Giulia: “Papa Francesco, Dio non commette errori, ma chi vive l’omosessualità è, a parer Tuo, “in errore oggettivo. Eppure, se io non fossi lesbica, la mia fede sarebbe scialba perché è la mia omosessualità che mi ha portata a fare una ricerca spirituale e a cercare di vivere in Cristo. Se io non fossi lesbica non avrei conosciuto la paura di essere giudicata e quindi non avrei imparato il rispetto per ciò che non conosco. Se io non fossi lesbica non avrei conosciuto l’amore perché è il Signore che mi ha mandato la persona che amo. Vedi, papa Francesco, per me Dio non commette errori: mi ha resa una persona “diversa” perché sapeva che per me sarebbe stata la strada della felicità. E sapeva anche che la diversità è ricchezza per la Chiesa Cattolica ossia, ricordiamolo, la Chiesa universale, di tutti”.

MARIO RIGONI STERN

"La memoria è determinante. È determinante perché io sono ricco di memorie e l’uomo che non ha memoria è un pover’uomo, perché essa dovrebbe arricchire la vita, dar diritto, far fare dei confronti, dar la possibilità di pensare ad errori o cose giuste fatte. Non si tratta di un esame di coscienza, ma di qualche cosa che va al di là, perché con la memoria si possono fare dei bilanci, delle considerazioni, delle scelte, perché credo che uno scrittore, un poeta, uno scienziato, un lettore, un agricoltore, un uomo, uno che non ha memoria è un pover’uomo. Non si tratta di ricordare la scadenza di una data, ma qualche cosa di più, che dà molto valore alla vita"  

giovedì 28 gennaio 2016

PERCHÉ LA MEMORIA CAMMINI NEL FUTURO

Come potrà la memoria continuare a sopravvivere quando coloro che l'hanno vissuta non potranno più essere presenti? Basteranno documenti scritti, filmati, convegni, incontri, giornate di studio? Sicuramente un canale preferenziale è la scuola, o meglio sono le nuove generazioni che non devono mai chiudere gli occhi di fronte alla storia, e in particolare a quegli eventi dolorosi e inumani che hanno tentano di rovesciare il mondo a favore del nulla e del male.
Quante belle esperienze si potrebbero raccontare il giorno dopo la giornata della memoria, vissute e  interpretate dai bambini, dai ragazzi o dai giovani delle nostre scuole. 
Ne ho ascoltata una in particolare e ve la voglio comunicare, perché mi è sembrato di vivere una coniugazione straordinaria tra educazione,didattica,memoria e futuro.
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SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO
“DON  GIOVANNI DELLE DONNE” 

VIA ALDO MORO 11/13 – 20080 CASELLE LURANI (Lodi)

Cari Genitori,
ho il cuore colmo di gratitudine e di riconoscenza per il momento "storico" vissuto oggi nel nostro Istituto, grazie a un evento così tragico e sconvolgente qual è la "Giornata della Memoria". Intanto siamo partiti da subito svantaggiati, perché i microfoni, poco prima perfettamente funzionanti, poi hanno dato non pochi problemi, ma l'incidente tecnico è stata l'opportunità per creare il raccoglimento necessario all'ascolto, al silenzio e alla condivisione. Si sono susseguite letture di testi in prosa e in poesia tenute dai ragazzi di tutte le classi, anche dagli alunni di prima. È stato commovente sentire le loro voci, limpide e chiare, alzarsi nella lettura e interpretazione di brani, anche impegnativi, come: "Testimoni" da "L'Ebreo errante" di Elie Wiesel, Nobel per la pace nel 1986, una pagina dei "Diari" e una Lettera dall'Epistolario di Etty Hillesum, "Se questo è un uomo" di Primo Levi, "L'Aforisma" di Bertolt  Brecht, "La Storia" di Eugenio Montale, una pagina del "Diario" di Anna Frank sui divieti agli Ebrei, lo stesso argomento si  è rivestito di una breve animazione scenica interpretata da alcuni alunni di 3^F con il supporto del loro Insegnante Scorletti, liberamente ispirato al film "La vita è bella". Ancora, "Scarpette rosse", l'adattamento teatrale di "Shlomo il Pazzo di Auschwitz" da "Un Treno per la Vita", la testimonianza del martirio di padre Massimiliano Kolbe.  Per quasi due tempi, i ragazzi hanno ascoltato in tranquillità e silenzio, hanno capito che non si trattava di un momento di intrattenimento e per questo hanno frenato gli applausi. come pure qualche azzardo di chiacchiere spontaneamente è rientrato. Con semplicità, alternandosi a noi Insegnanti, alcuni ragazzi delle terze sono stati sollecitati a spiegare ai più piccoli e devo riconoscere che, con bravura e maturità, hanno sostenuto il confronto, si sono esposti e messi in gioco. Anche la musica ha avuto il suo spazio, del resto così non poteva che essere con Colleghi Musicisti così esperti: abbiamo potuto apprezzare la "Tumbalalaika", una canzone d'Amore in lingua Yiddish secondo il genere musicale della ballata ebraica, proposta dai nostri Colleghi, Ceporina e Odore, che hanno eseguito anche il ritornello de "La Vita è bella". La possibilità di ascoltare "Auschwitz" di Guccini e un'esecuzione sui soprusi di sempre, in vernacolo napoletano, è stata offerta dalla competenza musicale del Collega Colloca. Questa si è rivelata l'esperienza memorabile vissuta oggi con i nostri e vostri ragazzi, ai quali ho sottolineato, tra i vari scambi di riflessione, che, con tale coraggiosa testimonianza, rientrano a tutti gli effetti, per un Ebreo osservante, nella schiera dei "Giusti", perché è Giusto colui che, secondo il Libro Sacro del Talmud, rispetta l'Altro come ricchezza, senza paure, inibizioni e pregiudizi. Anche i simboli si sono rivelati importanti e i cartelloni, preparati magistralmente dalla Collega Eugeni con alcuni alunni delle diverse classi, hanno permesso al cuore, aiutato dagli occhi, di entrare subito nel tema dell'incontro. Encomiabile il lavoro di preparazione di tutti i nostri Colleghi di Lettere e delle diverse Discipline, con generosità e sensibilità hanno collaborato, hanno trasmesso, hanno testimoniato il "Volto" più bello e nobile della Scuola, che è la capacità di educatori e professionisti di mettersi in gioco.
Ho stretto le mani ai nostri ragazzi, mi sono congratulata con i miei Colleghi e, di fronte allo sguardo di tutti, carico di aspettative, ho riconosciuto e detto loro, senza ombra di dubbio e con orgoglio, che questo "primo esperimento" di Educazione alla Legalità e Civiltà era perfettamente riuscito! Ne sono profondamente onorata!  
Un abbraccio forte, forte! Grazie infinite per la lettura e l'ascolto! Siate orgogliosi dei vostri Figli, come io oggi lo sono dei miei Alunni!

La Coordinatrice del Plesso della Scuola Secondaria di Primo Grado di Caselle Lurani, 
Prof.ssa Daniela Villa

IL GIORNO DOPO LA MEMORIA

I convegni, le memorie, i dibattiti, gli incontri di studio in occasione del giorno della memoria, hanno sottolineato alcune valutazioni anche dialetticamente confrontabili e che tuttavia possono trovare poche sintesi condivise e conclusioni proficue.
Intanto la necessità del ricordo, su cui tutti consentono: ricorre continuamente il dovere di ricordare, senza odio e senza intendimenti di vendetta. E tuttavia il ricordo deve riguardare la totalità dei vari olocausti della storia; lo stesso olocausto ebraico richiama nel sacrificio tutti gli olocausti subiti dai vari popoli della terra. Se i lager nazisti costituiscono un evento catastrofico, probabilmente senza uguali, nessuno può dimenticare il destino fatto oggi a tante popolazioni africane ed ai cristiani perseguitati dal fanatismo ammantato di matrice religiosa. La necessità del ricordo non può fare distinzioni, non può operare discriminati di nessuna specie o categoria soprattutto ideologica.
Ci sono poi questioni che hanno aperto tutta una serie di interrogativi e che forse continueranno ad interpellare gli uomini dei secoli futuri. Alcune in particolare mi hanno colpito.
Una prima domanda riguarda la componente della violenza come risposta inevitabile, ma comunque sempre problematica, alla persecuzione ed all’offesa dell’umanità. Se la vendetta è comunque e sempre da rifiutare, c’è da valutare la legittimità della risposta violenta ai soprusi quando si arrivi ad una scelta obbligata e senza sbocchi alternativi. Per quanto si ponga la necessità di bandire la violenza, per quanto i problemi connessi costituiscano, a fronte di eventi coma la shoah ed in presenza di persecuzioni politiche e religiose, dei macigni sulla coscienza degli uomini, sembra difficile non spiegare le risposte di forza alla tirannide prolungata nelle istituzioni e sull’uomo. La questione non sembri superata dagli avvenimenti del nostro tempo, in cui parecchi esempi di resistenza passiva hanno ottenuto effetti straordinari; ancora oggi di fronte a tante situazioni di sopruso continuato, di persecuzioni sanguinose e generalizzate contro etnie, confessioni religiose e pensiero democratico, il problema si pone e con difficoltà trova risposta adeguata.
Anche perché il filo tra offesa e diritto alla difesa è molto sottile. Ad esempio, Dossetti, che ha partecipato al movimento di resistenza in ruolo di responsabilità, ha finito per capire la necessità delle armi, ma continuerà la sua vita nella donazione religiosa di sé; Ezio Franceschini, uno dei personaggi più rappresentativi della resistenza cattolica, arrivò a parlare di uccidere l’avversario ingiusto, senza odio e rancore. Inquietante e radicale fu la testimonianza di Dietrich Bonhoeffer quando gli fu posto il problema della sua partecipazione alla congiura che avrebbe dovuto sopprimere Hitler. In particolare gli fu chiesto, come, lui sacerdote e pastore della Chiesa riformata e confessante, poteva conciliare la violenza con il suo cristianesimo: la risposta fu semplicemente illuminante per qualunque perplessità residua. “Quando un pazzo lancia la sua auto sul marciapiede, io non posso, come pastore contentarmi di sotterrare i morti e consolare le famiglie. Io devo, se mi trovo in quel posto, saltare e afferrare il conducente al suo volante”.
Un'altra questione emersa è stato il problema delle persecuzioni ebraiche e della loro storia nel contesto delle civiltà occidentali. Di fatto si potrebbero richiamare parecchie convergenze di specifiche culture occidentali di valenza antigiudaica. A lungo si è richiamata, con insistente prevalenza, la responsabilità della Chiesa cattolica; si tratta di responsabilità non contestabile, ma sicuramente per nulla esclusiva.
Nel complesso dei ragionamenti, in ogni caso, occorre però fare le opportune distinzioni tra l’antigiudaismo e l’antisemitismo; nel primo caso si tratta di inaccettabile intolleranza culturale e religiosa, nel secondo caso si tratta di ben peggio. Si arriva a proclamare l’inferiorità di una razza e di un’etnia che come tale va soppressa, indipendentemente dai comportamenti e dalle scelte e dalle confessioni ed idee professate.
Certo l’antigiudaismo non era, in sé, razzista, ma quando i presupposti del razzismo si sono affacciati sulla scena ideologica, anche attraverso le dottrine del secondo ottocento, queste ultime hanno trovato nell’antigiudaismo un terreno sicuramente favorevole. Un terreno che aveva annientato nella storia, gli anticorpi dell’aberrazione della “razza e del sangue”.
Anche qui non bisognerebbe dimenticare. L’intolleranza culturale, anche se non arriva alle estreme conseguenze della degradazione del genere umano e della sua sostanziale unità, costituisce però una premessa assolutamente pericolosa per le derive più inquietanti.
Si comincia ad urlare all’avversario politico sconfitto di andarsene a casa, anziché rispettarlo come polo della dialettica democratica e si rischia un percorso gravido di conseguenze, molto spesso non prevedibile.

A questo punto mi sembra fondamentale allora cogliere la pregnanza dell'invito lanciato dalle vittime dei lager: “non odiate, ma non dimenticate.” Mi chiedo cosa significhi il non dimenticare; forse parecchi, anche tra i più attenti e sensibili si soffermano ai fenomeni finali e devastanti dell’intolleranza, in nome dell’attualità dei singoli problemi. Bisognerebbe prestare attenzione alle dinamiche di lungo periodo; bisognerebbe intervenire sulle cause profonde dei destini spesso dagli esiti devastanti per l’umanità offesa. Andrebbero valutati i percorsi profondi dell’aberrazione nei rapporti tra gli uomini ed i popoli.
A.B.

mercoledì 27 gennaio 2016

TESTIMONI : “ELIE WIESEL”
(dal suo libro “L'ebreo errante”,ed.Giuntina)

<<Un quarto d'ora prima, o meno, il nostro teno si era fermato a una piccola stazione di periferia. In piedi davanti alle grate, la gente leggeva a voce alta:Auschwitz. Qualcuno domandò:
-Siamo arrivati?
Un altro rispose:
-Credo di sì.
-Auschwitz,lo conoscete?
-No. Per niente.
Quel nome non evocava nessun ricordo, non si collegava a nessuna angoscia. Ignoranti in materia di geografia, supponevamo che fosse una piccola e tranquilla località della Slesia. Non sapevamo ancora che era già entrata nella storia per la sua popolazione di diversi di milioni di ebrei morti. Lo abbiamo saputo un minuto dopo, quando le porte dei vagoni si sono aperte in un fracasso assordante e un esercito di detenuti si è messo a gridare:
-Capolinea! Tutti giù!
Da guide coscienziose, ci descrissero le sorprese che ci erano riservate:
-Auschwitz, lo conoscete? No? Non importa, lo conoscerete, lo conoscerete presto.
Sghignazzavano:
-Auschwitz, non lo conoscete? Veramente? Non importa. C'è qualcuno che vi aspetta qui. Chi? La morte. Vi aspetta. Non aspetta che voi. Guardate e la vedrete.
E ci indicavano il fuoco lontano.....
Ero giovane e mi rifiutavo semplicemente di credere ai miei occhi e alle mie orecchie... non si bruciano più gli ebrei, non siamo più nel Medioevo, il mondo civile non lo avrebbe permesso. Mio padre camminava accanto a me, la testa bassa. Gli domandai:
-Il Medioevo è alle nostre spalle, non è vero, papà, che il Medioevo è alle nostre spalle?
Non mi rispose....
Nel frattempo avanzavamo verso l'ignoto. Fu allora che, come in un mormorio, nacque fra di noi una febbrile discussione. Qualche giovane gagliardo, dominando il proprio stupore, aggrappandosi alla propria rabbia, lanciò un appello alla rivolta. Senza armi? Sì, senza armi. Le unghie, i pugni e qualche coltellino nascosto nei vestiti sarebbero bastati. Ma non sarebbe stata una morte certa? Sì, e allora? Non c'era più nulla da perdere, bensì tutto da guadagnare, soprattutto l'onore; ecco cosa c'era da guadagnare: l'onore. Morire da uomini liberi, ecco cosa volevano quei giovani. La sconfitta era solo nella rassegnazione.

Ma i loro padri erano contrari. Continuavano a sognare. E ad aspettare. Invocavano il Talmud: “Dio può intervenire, anche all'ultimo momento, quando tutto sembra ormai perduto. Non bisogna precipitare le cose, non bisogna perdere la fede né la speranza”.
La discussione si era estesa a tutte le file. Domandai a mio padre:
-Che ne pensi?
Questa volta mi rispose:
-Pensare non serve più a molto.
Il gregge umano continuava ad andare avanti, e noi non sapevamo dove i nostri passi ci avrebbero portato. No, mi sbaglio: lo sapevamo già, le nostre guide ce lo avevano detto. Ma facevamo finta di ignorarlo. E la discussione continuava. I giovani erano favorevoli, i meno giovani contrari. I primi finirono per cedere: bisogna ubbidire ai genitori, è scritto nella Bibbia, bisognava rispettare i loro desideri.

Ed è così che la rivolta non ebbe luogo.>>.
TESTIMONI : “Ida Desandrè”

<<Mi chiamo Ida Desandrè, sono nata ad Aosta il 10 ottobre del 1922. Sono stata arrestata nel mese di luglio del 1944 dai fascisti, rinchiusa prima nelle caserme militari di Aosta, poi nella prigione di Aosta. In seguito sono stata a Torino, nelle Carceri Nuove, di passaggio a San Vittore a Milano, poi trasferita a Bolzano. Dopo essere stata nel campo di concentramento di Bolzano per una ventina di giorni, sono partita per la Germania. Il primo posto è stato il campo di Ravensbrück, dove ho fatto la quarantena, poi sono stata trasferita in un campo di lavoro situato nella località di Salzgitter. Sono rimasta in questo campo sino verso la metà di aprile, poi sono stata trasferita un'altra volta e sono finita nel campo di Bergen Belsen, dove sono stata infine liberata il 5 maggio 1945 dalle truppe inglesi.>>

La storia di questa donna che ha cominciato a narrare della sua drammatica esperienza solo dal 1976, se da una parte ribadisce reazioni, sensibilità e denunce ascoltate più volte da tutti i deportati, dall’altra dice con scarna testimonianza della specifica spersonalizzazione della donna nella vicenda concentrazionaria. Come tutti i deportati, a lungo e per circa trent’anni, non è riuscita a parlare: la straordinaria gratuità della sofferenza patita, l’annientamento della personalità, l’offesa alla dignità dell’uomo erano di tale livello da non essere proponibili ad orecchie disponibili all’ascolto; non è riuscita a credere che qualcuno potesse prestare fede alla sua memoria colpita dalla violenza. Come tutti i deportati ha subito umiliazioni e degradazioni del vissuto personale, ha sofferto la fame più orribile, ha vissuto il terrore dei forni crematori, ben visibili da tutte le parti frequentate nel lager.
Tuttavia rimane, in questa donna, la capacità di analisi spietata e concreta della particolare umiliazione della donna. In un contesto culturale di riservatezza, tutta la vita di Ravensbruck era fatta di offesa alla femminilità. La donna era letteralmente spogliata della sua identità e colpita soprattutto nei suoi ritmi di vita; veniva omologata alla volgarità ed all’abiezione. Era un’ ulteriore sofferenza vedersi nuda davanti ad estranei, visitata ed esposta senza rispetto della sua corporeità e del suo pudore.
Colpisce, con la forza di un’emozione resa stupefacente dal ricordo diretto, la crudeltà sofferta dalla donna/madre. Ida Desandré racconta, con un ritmo tanto incalzante quanto essenziale di donne incinte fatte partorire anzitempo per controllare la resistenza dei neonati, pressoché abortiti, al freddo ed alla fame. Colpisce la capacità di evocare la specifica offesa alla maternità abbandonata alla ferocia di aguzzini impazziti.
Non stupisce che di tanta infamia, le vittime non siano riuscite a parlare a lungo perché non si può credere ad una ferocia disumana tanto cruenta da parte di uomini fatti belve impazzite. Eppure anche nella contemporaneità, stiamo assistendo ad un ripetersi di atteggiamenti che, alla fine e purtroppo, rendono anche più drammatica la testimonianza dei tanti deportati ancora viventi.
Drammatica ed anche più credibile; certe aberrazioni potrebbero ripetersi e, lo constatiamo tutti i giorni, si ripetono sotto i nostri occhi. I media non ci risparmiano le immagini della loro tremenda attualità.
Eppure non mancano taluni che vorrebbero negare la violenza di ieri e magari giustificare quella di oggi.

A.B.

27 GENNAIO : " ZAKHOR - RICORDA! "

Nella Giornata della Memoria risuona per tutti l'imperativo della tradizione ebraica: Zakhòr, ricorda! Ricorda i milioni di donne, uomini e bambini uccisi nei lager nazisti, ricorda i volti dei sopravvissuti fissati negli scatti dei soldati che aprirono i cancelli di Auschwitz il 27 gennaio 1945, ricorda le parole di chi ha potuto testimoniare quell'orrore trasmettendo al mondo un monito prezioso: il disprezzo e l'odio conducono all'omicidio, sono l'anticamera dello sterminio. Non possiamo dimenticare. Ancor più oggi, mentre la generazione dei testimoni sta scomparendo, fare memoria è un impegno da assumere. E quando la Shoah nella sua enormità ci sembra incomprensibile, come manifestazione del male che irrompe nella storia e sconvolge la vita umana, ci soccorrono le parole di Primo Levi, che ammoniva: "Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario".Per non ridurre la Giornata della Memoria a una ricorrenza formale e abitudinaria, è necessario farne occasione di riflessione sull'antisemitismo e sul razzismo del nostro tempo. La memoria di ciò che è stato, infatti, non è mera commemorazione. È per tutto un popolo impegno di approfondimento, affinché gli errori e le atrocità del passato non si ripetano. La Giornata della Memoria ci spinge, dunque, a riflettere sull'Europa e sulle forme di discriminazione e rifiuto dell'altro che rischiano di generare razzismo e violenza.L'afflusso di rifugiati da Siria, Iraq, Afghanistan, Eritrea, assieme ad altri che fuggono da situazioni di povertà estrema, suscita interrogativi e preoccupazioni. Tuttavia i popoli europei, con manifestazioni spontanee e impreviste di accoglienza, si sono mostrati in vari frangenti meno spaventati dei propri governi. Chiudere le porte di fronte a chi fugge dalla guerra o da situazioni invivibili non è atteggiamento degno delle idealità che sono alla base della costruzione europea. La scelta di generosità, cui l'Europa è tenuta se vuole avere un futuro, deve però coniugarsi a politiche intelligenti d'inclusione e integrazione, per prevenire la conflittualità e favorire nei nuovi europei un reale senso di appartenenza alla storia e ai valori dell'Europa unita. La costruzione di una civiltà del convivere è forse la sfida maggiore del nostro tempo. Per affrontarla, sono necessarie politiche lungimiranti e di lungo respiro.
-Presidente della Comunità di Sant’Egidio

PESSIMO USO DEI SEGNI EVANGELICI

Stessa città, Roma. Stessa piazza, quella del Pantheon, dove sabato scorso migliaia di persone hanno manifestato per i diritti civili. Tre giorni dopo, primo pomeriggio, su quella stessa fontana si sente recitare l'Ave Maria. Butti l'occhio, vedi alcune persone in piedi che pregano con un megafono. "Renzi-Boschi, diritti incivili", si legge su uno striscione. Capisci subito che è un sit-in, forse sentinelle in piedi, contro le unioni civili. Ma non è la legittima manifestazione a colpire l'attenzione: sono le preghiere, l'Ave Maria, il Padre Nostro. Parole che siamo abituati a sentire fin da bambini, e che richiamano alla mente tutt'altro: valori di misericordia, accoglienza, spiritualità. Questa volta no, questa volta suonano contro qualcuno: contro le "altre famiglie", quelle diverse dall'idea di queste persone. Le famiglie formate da persone dello stesso sesso.Quello che stride non è la protesta, ma lo strumento, l'utilizzo di parole che "significano" e "valgono" per centinaia di milioni di persone. Sono le preghiere che ora suonano come schiaffi sordi, come un sussurro razzista che si nasconde dietro il Vangelo, come una volontà di escludere chi viene considerato diverso. Difficile trovare qualcosa di più estraneo alla cultura e allo spirito cristiano dell'uso di una preghiera per discriminare qualcuno. Forse bisogna tornare indietro, al Ku Klux Klan, a quelle croci bruciate davanti alle case dei neri americani prima che lo Stato di diritto avesse il sopravvento fino a cancellare le discriminazioni, almeno sulla carta. È triste il ritorno di questo uso dei simboli religiosi contro qualcuno. Ed è molto distante dall'idea di Chiesa di Papa Francesco.

martedì 26 gennaio 2016

SHOAH,MEMORIA DI IERI E IMPEGNO PER IL FUTURO

Il «Giorno della Memoria», a quindici anni di distanza dalla legge del 2000 che lo ha istituito, è l’occasione per un bilancio. È certamente positivo, con alcune perplessità in parte originarie e in parte dovute al passare del tempo. Non si tratta di cambiare la legge, ma di interpretarla perché possa cercare di rispondere agli interrogativi per i quali è nata: che cosa, come e perché ricordiamo. Ricordiamo «l’abbattimento dei cancelli di Auschwitz il 27 gennaio 1945», quando ad essi giunsero i primi soldati russi che — racconta Primo Levi all’inizio de La Tregua — incontrarono il nulla, gli spettri, la vergogna, la fine dell’umanità. Ricordare la fine di Auschwitz è una scelta: ma è altrettanto se non più giusto — anche se più difficile — ricordarne le cause, le premesse e l’inizio. La legge richiama in effetti «le leggi razziali» e «la persecuzione italiana dei cittadini ebrei»: questa può e deve essere l’occasione per sfatare la leggenda degli «italiani brava gente» che troppo spesso falsa la prospettiva storica e dimentica le nostre responsabilità di italiani, individuali e collettive. È doveroso ricordare i tantissimi che hanno subito la deportazione e la morte e i pochi giusti che si sono battuti per la loro salvezza: a patto però di non dimenticare i troppi carnefici e i complici nelle deportazioni, ancor più numerosi per indifferenza, paura, coinvolgimento burocratico, scopo di profitto o rancore nelle deportazioni.
Come ricordiamo? Organizzando secondo la legge, cerimonie, incontri nelle scuole, iniziative (come i viaggi degli studenti ad Auschwitz). È necessario per tenere viva la memoria nel cuore e nell’emozione; per evitare che la Shoah diventi soltanto astratta nozione per la mente nei libri di storia. Ma occorre evitare anche che con il passare del tempo e la ripetitività quel giorno si trasformi soltanto in un’occasione rituale, retorica e celebrativa; in una memoria burocratica e imposta, come la toponomastica stradale; o — più ancora — che diventi soltanto un’occasione per operazioni editoriali. È difficile distinguere in concreto fra il fine della conoscenza e quello del portafoglio: ogni contributo (libri, film) alla prima è prezioso, per passare dalla conoscenza alla coscienza e per non delegare soltanto alla legge e al giudice la risposta al negazionismo; ma può rischiare l’assuefazione e quindi il rifiuto.
Perché ricordiamo? La legge guarda al passato e al futuro: «conservare la memoria di un tragico e oscuro periodo … affinché simili eventi non possano mai più accadere». Non un risarcimento tardivo e insufficiente al popolo ebraico, per la tragedia di cui è stato vittima; tanto meno — come pretende il negazionismo, sia quello più becero che quello più pretenzioso — una assurda connivenza con la bestemmia della «menzogna ebraica» sulla Shoah o sulla sua enfatizzazione, una cambiale oscena per la fondazione dello Stato di Israele; né un’inammissibile pretesto per equiparare gli ebrei vittime del nazismo e i palestinesi, nonostante le legittime riserve su taluni aspetti della politica repressiva israeliana. Ma la consapevolezza che la Shoah è ammonimento per tutti noi, più che memoria per gli ebrei; è un delitto incommensurabile contro la dignità e l’umanità. Il decorso del tempo e la cancellazione delle tracce dello sterminio rischiano di far trascurare i sintomi premonitori di altri stermini; se Auschwitz è stata il cimitero dell’Europa di ieri, il Mediterraneo sta diventando il cimitero dell’Europa di oggi e di domani. Per questo il Giorno della Memoria del passato deve restare; ma deve diventare — effettivamente, non soltanto a parole — anche il giorno dell’impegno per il presente e per il futuro.
di Giovanni Maria Flick in “Corriere della Sera” del 26 gennaio 2016

I CRISTIANI E LA FAMIGLIA

Mentre il popolo del Family Day, che non è il popolo di Dio ovvero l’insieme dei credenti, si prepara a scendere in piazza, e sarà interessante vedere come si muoverà, senza la protezione dei vescovi, risultano più chiare le parole di papa Francesco. Venerdì scorso, all’apertura dell’anno giudiziario della Sacra Rota, ha detto: «La Chiesa ha indicato al mondo che non ci può essere confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione». E ha spiegato: «La famiglia, fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo, appartiene al sogno di Dio e della sua Chiesa per la salvezza dell’umanità». Sono parole che stabiliscono un confine, molto netto. Tra la sfera del sacro, in cui azioni, comportamenti, scelte di vita sono ispirate a un orientamento trascendente, a un insegnamento che non è di questo mondo, il «sogno di Dio», e una sfera secolare, che trova i suoi codici di comportamento nell’orizzonte delle relazioni tra gli umani. Sono parole ispirate dallo stesso discernimento che ha guidato la conclusione dei lavori del Sinodo dedicato alla famiglia. Ribadiscono la dottrina tradizionale, ma non cancellano che accanto a chi crede esistono altri che vivono con altre scelte. È una distinzione sufficiente, per liberare la scena politica italiana dalla pesante negazione di diritti che rende il nostro Paese (quasi) unico tra le nazioni europee? Certo dovrebbe essere sufficiente a non ostacolare le unioni civili, ad approvare senza troppi bizantinismi una legge che non assimila unioni e matrimonio, anzi è fin troppo preoccupata di distinguerli. Ma forse non esauriente, perché sarebbe necessario approfondire, almeno una volta. Di cosa si parla, quando si parla di famiglia? Anche i credenti, a cosa pensano quando dicono che la famiglia è naturale? Quando hanno cominciato a pensare così, i Cristiani? Da quando la parola famiglia, che nella sua etimologia indoeuropea indica un insieme di persone, coincide con la coppia di uomo e donna? C’è un’ampia gamma di indagini e risposte possibili, e altre ne possono scaturire. Se i senatori che giovedì riprendono a esaminare la legge Cirinnà ne fossero consapevoli, forse potrebbero trovare rapidamente la strada per dare al Paese la legge che aspetta.
Estratto da "Il Manifesto" del 26.01.16

ELISA SPRINGER, "Il silenzio dei vivi"

"La nostra voce, e quella dei nostri figli, devono servire a non dimenticare e a non accettare con indifferenza e rassegnazione, le rinnovate stragi di innocenti. Bisogna sollevare quel manto di indifferenza che copre il dolore dei martiri! Il mio impegno, in questo senso, è un dovere verso i miei genitori, mio nonno, e tutti i miei zii. È un dovere verso i milioni di ebrei ‘passati per il camino', gli zingari, figli di mille patrie e di nessuna, i Testimoni di Geova, gli omosessuali e verso i mille e mille fiori violentati, calpestati e immolati al vento dell’assurdo; è un dovere verso tutte quelle stelle dell’universo che il male del mondo ha voluto spegnere… I giovani liberi devono sapere, dobbiamo aiutarli a capire che tutto ciò che è stato storia, è la storia oggi, si sta paurosamente ripetendo" 

PAOLO MAURENSIG -La variante di Luneberg

"Mentre, liberatomi infine dalla mia lercia divisa e indossati panni civili, puliti, senza alcun contrassegno infamante, mi allontanavo da Bergen Belsen su un camion della Croce Rossa, capii che altrove, in una dimensione a me preclusa, si era giocata una partita a scacchi la cui posta e le cui perdite erano incalcolabili. Mi stupii che tutt’attorno la natura fosse rimasta indifferente, e che ci fosse ancora un maggio come quelli della mia infanzia. Per la prima volta il sole non era più offuscato dal fumo dei forni crematori e, tra le basse dune di sabbia, la brezza riavviava i radi cespugli di erica della landa di Luneburg" 

27 GENNAIO : " GIORNATA DELLA MEMORIA"

LA COLPA DI AUSCHWITZ
Credo che non ci sia molto da questionare o da verificare intorno alle cause, ai perché si giunse alla cosiddetta “soluzione finale”, meglio da noi oggi conosciuta come “Shoah”, ovvero lo sterminio in massa di sei milioni di ebrei, a cui bisogna aggiungere i delinquenti comuni, gli avversari politici, gli zingari, gli omosessuali (contro i quali ancora oggi si organizzano manifestazioni:sic!), i testimoni di Geova, e....tutti coloro che non rientravano nell'organizzazione delle mente nazista.
Furono messe in campo motivazioni storiche, politiche, sociali, razziali,religiose, economiche: gli ebrei e tutti gli altri andavano eliminati perché per loro non c'era posto, loro occupavano i posti spettanti ai nostri; la loro presenza era un furto alla civiltà!
Deliranti e mostruose affermazioni! Non meritano altro che di diventare polvere che il vento annienti e disperda nell'universo!
Ma anche in questa, come in molte altre storie, c'è un lato oscuro, strano, che ha dell'incredibile e purtroppo continua ad essere, per alcuni versi, inspiegabile.
Durante i vari processi ai criminali nazisti, i giudici e i procuratori generali, per illuminare, a beneficio delle giovani generazioni future, le zone oscure del dramma, “torturavano” insistentemente i vari testimoni con domande ancora oggi aperte: perché non vi siete rivoltati? Perché non avete resistito? Eravate diecimila contro dieci, contro uno, perché vi siete lasciati condurre al mattatoio come bestiame?
Ed essi rispondevano invariabilmente sempre con la stessa risposta:”Voi non potete sapere; chi non è stato laggiù non può capire!”.
Nel corso degli anni alcuni psichiatri, fra cui Bettelheim e Frankl, si sono avventurati nella psicologia dei detenuti nei Lager nazisti nel tentativo di trovare una spiegazione al consenso della vittima di fronte alla crudeltà del carnefice. La loro spiegazione fa riferimento alla disintegrazione della personalità degli ebrei o al risveglio del “desiderio di morte” nell'io. Ma non dimentichiamo il senso di colpa di cui erano impregnati i prigionieri: un sentimento d'essenza religiosa.
Dice Elie Wiesel:<<Se mi trovo qui è perché Dio mi ha punito; ho peccato e quindi pago; se subisco questo castigo vuol dire che l'ho meritato...Prima il prigioniero sacrificava la sua libertà a quella di Dio...Vivo, e quindi sono colpevole; se sono ancora qui è perché un amico, un compagno, uno sconosciuto è morto al mio posto>>: in un mondo chiuso questa idea, questa certezza di fede produceva una potenza distruttrice dagli effetti facilmente intuibili.
E così l'ebreo perdeva la sua identità e diventava un semplice numero che si identificava in una collettività dimenticata, condannata e sacrificata. Non sarebbero neppure stati capaci di lottare, di ribellarsi, di compiere un gesto d'onore, perché sentivano di tradire coloro che erano andati incontro alla morte docilmente e in silenzio. Elie Wiesel racconta di <<quella donna che, nuda e ferita, riuscì a fuggire dalla fossa comune dove gli ebrei della sua città erano stati massacrati, e che poco dopo vi ritornò per unirsi a quella fantasmagorica comunità di cadaveri.” Salvatasi miracolosamente, rifiutava la vita divenuta ai suoi occhi impura.
Ed è quello a cui si è assistito nel tempo: i reduci hanno opposto un silenzio opprimente che si sono portati con sé da “laggiù”. Abbiamo avuto testimoni che hanno raccontato a distanza di trenta-quarant'anni i fatti che hanno vissuto, quasi che non volessero mai aprirsi o che avessero addirittura paura della propria voce narrante la tragedia.
Eppure nonostante i numerosi processi e lo spazio dato loro dalle istituzioni e dai media per lanciare la loro sfida al mondo, per urlare la loro condanna alla Storia, hanno molto spesso preferito tacere e continuare il loro monologo come se appartenessero al mondo dei morti, che ormai non possono e non meritano di sentire.
<<La colpa non è stata inventata ad Auschwitz, vi è stata solamente sfigurata.>>
A.B.


lunedì 25 gennaio 2016

27 GENNAIO : " GIORNATA DELLA MEMORIA "

SACERDOTI NELLA SHOAH

Non saprei fino a che punto possa essere di comune interesse oppure quale livello di attualità possa rivestire. Sta di fatto che al processo di Norimberga, contro i criminali di guerra nazisti, fu denunciata la cifra di 5445 sacerdoti cattolici uccisi nei campi; inutile aggiungere che se tanti furono uccisi, i deportati furono molti di più. Il numero di gran lunga più rilevante fu quello dei Polacchi che contarono, fra di loro, più di 3000 morti; di fatto, una tale ferocia si giustifica con la caratteristica della nazione polacca in cui il Cristianesimo costituiva un elemento di identificazione rilevante e poiché la Germania voleva l’annientamento della Polonia.
Nella maggiore parte dei casi però la loro deportazione non era collegata a motivazioni di consapevolezza politica; soprattutto i preti italiani deportati non lo furono per una loro scelta antifascista o antitedesca. Più spesso, per non dire quasi sempre, essi si trovarono nei campi o perché, cappellani militari, che dopo la sfaldamento dell’esercito (8 settembre 1943), vollero seguire i militari arrestati dalla polizia politica nazista, o perché non vollero abbandonare le popolazioni delle loro parrocchie, sottoposte alla deportazione.
Di qui l’ovvia conseguenza: i sacerdoti, ma in genere anche i religiosi di altre confessioni, tentarono il recupero del ruolo tradizionale del prete all'interno dei lager, amministrando i sacramenti e celebrando il rito sacro. Ma si accorsero quasi subito che si trattava di una speranza e di un tentativo irrealistico. Le testimonianze sono assolutamente convergenti; di celebrare l’Eucarestia non si poteva neppure parlare, dal momento che le autorità dei campi ritenevano che la più importante delle torture fosse l’annullamento di ogni espressione di vitalità umana, anche nelle sue espressioni spirituali. Solo la confessione poteva ancora essere erogata, in mezzo a mille accorgimenti, e soprattutto senza che se ne accorgessero le guardie della polizia nazista.
A questo punto però, impossibilitato a celebrare il rito, impossibilitato a farsi interprete del mistero, il prete scopre il ruolo della condivisione, della partecipazione alla vita comune di dolore e di sofferenza. Sperimenta anche che, a questo livello, il messaggio cristiano ha da dare una risposta. E tutto questo non nell’ottica della cristiana rassegnazione, ma nella scoperta di una spiritualità che è quella della identificazione con la persona del Cristo e delle sue sofferenze. Afferma un testimone, prete tornato da Dachau “… i preti, sottoposti alle più degradanti umiliazioni, ai lavori più pesanti, alle nudità ed alle percosse diventano gli interpreti di un sacerdozio di condivisione”. Da traduttore del mistero ad interprete della condivisione, rimanendo in rapporto di solidarietà con un’umanità di sofferenza e con una concreta esperienza di imitazione del Cristo sofferente.
Nell’autunno del 1944, dopo varie trattative, si conclude un accordo tra S. Sede ed autorità naziste per riunire tutti i sacerdoti ed eventualmente anche i religiosi di altre confessioni, nel campo di Dachau, in due blocchi il 26 ed il 28. Ma mentre la S. Sede voleva ripristinare la possibilità per i religiosi di celebrare l’Eucarestia ed amministrare i Sacramenti almeno in un luogo, le autorità naziste, in realistica previsione di una guerra ormai persa, ritenevano opportuna la disponibilità più semplice dei preti come merce di scambio, in caso di trattative. Speravano, in buona sostanza, di un appoggio del Vaticano con gli alleati, in cambio della liberazione di un certo numero di sacerdoti. Sta di fatto però che molti sacerdoti tentarono di sfuggire alla “diocesi” di Dachau; benché consapevoli di una prospettiva meno drammatica, rimasero, per quanto possibile, nei vari campi perché non volevano abbandonare gli altri deportati. 
Don Roberto Angeli, che finì appunto nella nuova destinazione, deportato per una consapevole scelta antifascista, partecipando anche alla resistenza toscana fra il 1943 ed il 1944, fino all’arresto, offre una significativa motivazione: “…la baracca dei preti fu chiusa in un recinto, circondata da filo spinato: nessuno vi poteva entrare e nessuno ne poteva uscire. Si trattava di un’altra raffinatissima crudeltà: se il nostro sacerdozio non era per gli altri che valore aveva? Quello sterile egoismo sacro non poteva che deprezzarci moralmente di fronte a noi stessi e di fronte agli altri”.
E parecchi sacerdoti lo capirono, comunque avessero inteso operare sia durante il ventennio, sia durante la guerra: non potevano essere più gli uomini della separatezza, gli uomini di un gruppo e neppure potevano chiudersi nella loro Chiesa; erano diventati gli uomini della partecipazione alle vicende dell’umanità. Avrebbero potuto essere uomini che avrebbero avuto molto da insegnare (ovviamente oggi sono morti) a molti: ecco cosa intende papa Francesco quando invita a guardare alle periferie del mondo!
A.B.


Minori migranti, Save the Children, l’Europa ha fallito se i bambini continuano a morire di fronte alle nostre coste.

“L’Europa ha fallito se i bambini continuano a morire di fronte alle coste del Vecchio continente, perché non è stato garantito loro un passaggio sicuro e legale, costringendoli a viaggi pieni di pericoli. Ancora oggi ci troviamo di fronte alla notizia della morte di 42 persone e in particolare di 17 bambini nei due naufragi avvenuti nelle ultime ore al largo della Grecia. Invece di concentrarsi sulla costruzione di muri e sul rafforzamento dei controlli alle frontiere, l’Europa deve agire immediatamente per fermare queste morti in mare e il sacrificio di tanti bambini”. Così Raffaela Milano, Direttore dei Programmi Italia-Europa di Save the Children commenta la notizia degli undici bambini che hanno perso la vita nelle ultime ore al largo delle coste della Grecia.
“Solo questa settimana sono 27 i bambini che hanno perso la vita durante la traversata: ora che il clima invernale ha reso la traversata ancora più pericolosa, questi eventi sono purtroppo sempre più frequenti al largo di Lesbo. Ogni giorno arrivano in Grecia fino a 1.500 persone, nonostante le onde alte, l’acqua del mare freddissima e il clima invernale. Oltre a rischiare la vita durante la traversata, i bambini arrivano in condizioni drammatiche, infreddoliti, con abiti inadeguati, le labbra blu e chiari segni di ipotermia”, spiega ancora Raffaela Milano.
Save the Children sta fornendo loro, sia in Grecia che lungo la rotta balcanica, abbigliamento adeguato all’inverno e alle basse temperature, come giacche, stivali, cappelli, sciarpe e coperte. Inoltre, Save the Children sta offrendo ai rifugiati dei pasti caldi e degli spazi a misura di bambino all’interno dei campi, dove i più piccoli possono giocare in sicurezza e le madri con neonati possono rimanere anche durante la notte.

domenica 24 gennaio 2016

LO ZUCCHERO

Mancavano 5 minuti alle 16. Trenta bambini, tutti della 5a elementare, quel pomeriggio, erano eccezionalmente irrequieti, agitati, emozionati, chiassosi, rumorosi. Alle ore 16 in punto arrivó la maestra per iniziare l’esame scritto di catechismo: i promossi sarebbero stati ammessi alla prima comunione, esattamente una settimana dopo. Immediatamente un silenzio generale piombó nella sala dove erano seduti i bambini in attesa delle domande.1° domanda: “Chi mi sa dire con parole sue chi è Dio?”, cominció a dettare la maestra; 2° domanda: "Come fate a sapere che Dio esiste, se nessuno l’ha mai visto?”. Dopo 20 minuti, tutti avevano consegnate le risposte. La maestra lesse ad una ad una le prime 29; erano piú o meno ripetizione di parole dette e ascoltate molte volte: “Dio è nostro Padre, ha fatto la terra, il mare e tutto ció che esiste” Le risposte erano esatte, per cui si erano guadagnati la promozione alla Prima Comunione. Poi chiamó Ernestino, un piccolo vispo bambino biondo, lo fece avvicinare al suo tavolo e gli consegnó il suo foglietto, dicendogli di leggerlo ad alta voce davanti a tutti i suoi compagni. Ernestino, temendo una pesante umiliazione davanti a tutta la classe, con la conseguente bocciatura, cominció a piangere. La maestra lo rassicuró e lo incoraggió. Singhiozzando Ernestino lesse: “Dio è come lo zucchero che la mamma ogni mattina scioglie nel latte per prepararmi la colazione. Io non vedo lo zucchero nella tazza, ma se la mamma non lo mette, ne sento subito la mancanza. Ecco, Dio è cosí, anche se non lo vediamo. Se lui non c’è la nostra vita è amara, è senza gusto”. Un applauso forte riempí l’aula e la maestra ringrazió Ernestino per la risposta cosí originale, semplice e vera. Poi completó: “Vedete bambini, ció che ci fa saggi non è il sapere molte cose, ma l’essere convinti che Dio fa parte della nostra vita.
dal Blog "Comunità nascente di Torino"

"SE NON RITORNERETE COME BAMBINI..."

A. è un bambino indiano di 11 anni e tutti i giorni va a scuola. Come ogni bambino di 11 anni, tornando da scuola potrebbe voler guardare i cartoni animati o giocare con i suoi amici. Lui invece, dopo la scuola, fa il maestro.
Il ragazzino, come racconta Indiatimes.com, vive nel distretto indiano di Lucknow, a Sud Est di Nuova Delhi. La sua famiglia appartiene alla classe media e A. può frequentare la scuola, mentre la maggior parte dei bambini della sua età vive nelle bidonville ed è costretta al lavoro minorile. Un giorno, durante una gita nei pressi di Bombai con la sua famiglia, vede un bambino che legge alla luce di un lampione da strada, vicino a una moschea: quando nella moschea iniziavano i canti, il bambino si precipitava a dirigere il coro; quando finivano, tornava fuori a leggere. “Ci siamo avvicinati per lasciargli qualche moneta”, racconta il padre di A. alla Stampa,”ma lui ha rifiutato. Noi abbiamo insistito per aiutarlo, così ci ha chiesto di procurargli piuttosto dei libri, che abbiamo comprato in un negozio lì vicino”.
Questo episodio segna il piccolo, che da quel giorno, ogni pomeriggio va nella bidonville del suo villaggio e insegna ai bambini informatica, matematica e inglese. Ha iniziato coinvolgendo i bambini con storie interessanti e giochi, per non farli annoiare e trasmettere loro il piacere di imparare. Adesso A. ha circa 100 alunni che lo seguono ogni giorno.
Ogni lezione si chiude con l’inno nazionale che tutti i bambini devono imparare e cantare: “Credo che li aiuti ad acquisire consapevolezza del proprio ruolo nella società e a crescere come cittadini responsabili”, dice A..
Ma i progetti del piccolo “Chota Masterji”, come lo chiamano i suoi alunni, non si fermano qui: A. vorrebbe aprire alcune librerie nel villaggio, coinvolgendo le famiglie benestanti della zona. Insieme ai suoi genitori ha inoltre organizzato una campagna che invita i membri della società acculturata a finanziare l’educazione scolastica di un bambino. Sulla stessa linea anche il programma di educazione dedicato alle bambine provenienti dalle famiglie povere. La speranza di A. è che con piccoli passi come questo, l’India diventi presto un paese alfabetizzato e ricco.

HANNAH ARENDT, "Le origini del totalitarismo"

"I lager sono i laboratori dove si sperimenta la trasformazione della natura umana. Finora la convinzione che tutto sia possibile sembra aver provato soltanto che tutto può essere distrutto. Ma nel loro sforzo di tradurla in pratica, i regimi totalitari hanno scoperto, senza saperlo, che ci sono crimini che gli uomini non possono né punire né perdonare. Quando l'impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva più essere compreso e spiegato coi malvagi motivi dell'interesse egoistico, dell'avidità, dell'invidia, del risentimento; e che quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l'amicizia perdonare, la legge punire" 

27 GENNAIO : " GIORNATA DELLA MEMORIA "

E SE LA COLPA FOSSE DI TUTTI ?

L’11 aprile del 1961 a Gerusalemme iniziò il processo contro il criminale tedesco Adolf Eichmann che si concluse poi con la sua condanna a morte per impiccagione.
È il primo processo che in Israele, alla presenza di testimoni, i sopravvissuti alla Shoah, che facilitò anche l’apertura in Europa di altri processi contro criminali nazisti, come quello di Francoforte del 1963.
Adolf Eichmann, era considerato il principale responsabile e organizzatore delle deportazioni degli ebrei nei campi di concentramento nazisti, e al termine della guerra si era rifugiato sotto falso nome in Argentina, come altri ufficiali delle SS.
Qualche anno dopo, nel 1959, gli agenti del Mossad all’oscuro del governo di Buenos Aires, lo catturarono e lo portarono in Israele (non esistevano problemi di estradizione!).
Durante tutto il processo la sua difesa resterà sempre la stessa: si dichiarò “non colpevole” e dirà di “avere solo eseguito degli ordini” ai quali non poteva sottrarsi.
Doveva essere un processo “storico”. Un processo che non si limitava a giudicare i crimini e la degradazione morale di uomo e perfino di un sistema, ma doveva definire, illuminandola brutalmente, tutta un'epoca che tendeva a sfuggire alla comprensione umana: come aveva potuto vincere la bestia sull'uomo? Come avevano potuto due popoli trasformarsi uno in assassino e l'altro in vittima docile e silenziosa?

Che Eichmann fosse colpevole nessuno lo aveva mai dubitato: tutti ne erano convinti fin dall'inizio. In fondo non sarebbe stato necessario impostare un processo per averne le prove. Ma questo processo era fondamentale, perché facendo rivivere il passato si poteva dimostrare che un crimine può superare i suoi limiti, al punto che la colpa ricade anche su chi si tiene a distanza.
Ma tutto ciò non venne portato a galla e le domande rimasero soffocate, in parte per la presunzione dell'imputato e in parte per i troppi silenzi dei testimoni.
Eppure nel cuore e nella mente di qualcuno i perché sono rimbombati con rabbia e dolore.
Perché la maggior parte dei campi di sterminio furono aperti nelle zone orientali dell'Europa nazista? Forse perché i tedeschi trovarono più facilmente aiuto e tacita approvazione tra le popolazioni di quelle zone? Qualcuno addirittura (ungheresi!) esercitò pressioni su Eichmann perché accelerasse i trasporti e altri (slovacchi!) pagavano una certa cifra per ogni ebreo che i tedeschi deportavano: e i carri bestiame con il loro carico umano correvano senza ostacoli verso la notte!
La stessa accusa vale per le reazioni in quella parte del mondo libera. A Washington e a Londra, e anche a Gerusalemme, erano al corrente di ciò che stava accadendo fin dal 1942. I nazisti si aspettavano una valanga di proteste e di minacce, ma poi capirono che l'Occidente lasciava loro ogni libertà d'azione.
E' veramente curioso annotare come il mondo libero e osservatore della storia non si sia indignato che dopo, quando ormai era troppo tardi e quando ormai non c'erano più ebrei da salvare.
E poi, diciamola tutta: gli ebrei stessi non fecero nulla per gli ebrei. In Palestina la gente si comportava come se ciò che accadeva <<lassù>> non la riguardasse. Con un distacco stupefacente, incomprensibile e inconscio dicevano a se stessi: “di chi è la colpa? Avrebbero potuto venir qui da noi; avrebbero dovuto seguire il nostro esempio: ma hanno mancato di coraggio,d'idealismo; ed ora tanto peggio per loro!”
Qualcuno, preso dalla curiosità, è andato ad esaminare negli archivi i giornali di Tel Aviv degli anni 1943-44: “In un angolo sperduto della pagina (forse neppure la prima!) un piccolo trafiletto di poche righe: I tedeschi hanno cominciato a sterminare gli ebrei del ghetto di Lublino, o di Lodz....”
Il processo ad Eichmann si concluse inevitabilmente con la condanna a morte dell'imputato, ma mancò il coraggio ai giudici, ai politici, agli uomini tutti di abbassare la testa e di urlare a voce alta perché potesse essere udito anche dalle generazioni future: << Prima di giudicare gli altri dobbiamo riconoscere i nostri errori, le nostre debolezze. Non abbiamo tentato l'impossibile, non abbiamo neanche esaurito il possibile (Elie Wiesel)>>.

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