giovedì 30 novembre 2017

Il vuoto che allarma la Chiesa: mancano ottomila parroci

Ci dovremo abituare alla scomparsa della tradizionale figura del parroco, guida unica della chiesa
che sorge vicino a casa nostra, factotum per i sacramenti, il culto, l’oratorio e le attività sociali. Lo
dicono i numeri (forniti dalla Conferenza episcopale italiana e dall’Istituto centrale per il
Sostentamento del Clero): nelle 224 diocesi italiane le parrocchie sono 25.610, mentre i parroci
16.905. Il bilancio è un meno 8.705, che significa: molti sacerdoti devono guidare due o tre
parrocchie, quando va bene. Quando va male, anche 15, anche 19, come don Maurizio Toldo nella
diocesi di Trento. In loro aiuto ci sono 6.922 viceparroci, ma la coperta resta corta. E senza
prospettive di inversione di rotta: il calo di vocazioni – circa il 12% nell’ultimo decennio - interessa
anche il nostro Paese.
Dunque non è pensabile mantenere in vita come un tempo tutta la rete capillare di parrocchie e chiese che intessono le strutture delle città e dei paesi, tantomeno garantire le messe in orari comodi per tutti. Ma se il modello don Camillo, immortalato nei romanzi di Giovannino Guareschi e citato anche da Papa Francesco al recente convegno della Chiesa italiana di Firenze, appare in declino, questo non significa che le parrocchie rimarranno senza un prete. Paragonare solo il numero delle parrocchie con quello dei parroci può servire a prendere coscienza del problema, ma rischia di essere fuorviante. Infatti ci sono altre cifre di cui tenere conto: i sacerdoti – secolari, ossia diocesani, e religiosi appartenenti a famiglie religiose – sono infatti quasi 35mila, di cui, nel 2016, 31.728 attivi, mentre 3.082 sono non operativi per motivi di età o di salute (senza dimenticare i 399 impegnati nelle missioni del Terzo Mondo).
Poi, già da diversi anni le diocesi si sono attrezzate per sopperire alla mancanza di clero: c’è chi ha
favorito l’arrivo di seminaristi da altre nazioni, in particolare dall’Africa, l’America latina e l’Asia.
Più di mille, si legge in un dossier della rivista Popoli e Missione delle Pontificie Opere missionarie.
E c’è chi ha sperimentato le unità pastorali, come volle fare vent’anni fa il cardinale Carlo Maria Martini a Milano, unendo alcune parrocchie a due a due, e ponendole sotto la responsabilità di un
unico parroco. Le unità pastorali sono state poi trasformate in comunità pastorali: la parrocchia resta, con un prete che vi risiede, ma è inserita in una comunità più grande, che raduna diverse parrocchie sotto un unico responsabile che rimane in carica per 9 anni e un direttivo che vede presenti gli altri preti, ma anche laici. 
«In certi casi – spiegano dalla diocesi di Milano – c’è un’unica comunità pastorale che raggruppa tutte le parrocchie del paese: come nel caso di Cernusco sul Naviglio, tre parrocchie unite, o Brugherio, quattro parrocchie unite. Ogni parrocchia continua ad avere un prete che vi risiede, ma non è più il parroco». Nella diocesi ambrosiana le parrocchie sono 1107, i parroci poco meno di 800, i preti – compresi i religiosi e quelli ritirati – sono circa 3.000.
La necessità di coordinare meglio le forze esistenti è ben visibile anche nei centri storici: a Chioggia, in provincia di Venezia, città lagunare con moltissime chiese, c’è un responsabile unico per quattro parrocchie, ma in ognuna viene celebrata la messa grazie anche all’aiuto dei sacerdoti anziani.
Nei paesi di provincia i campanilismi – anche parrocchiali - sono più difficili da superare, ma ci si dovrà fare una ragione, perché la tendenza generale è quella per esempio di Carmagnola, nel
Torinese, circa 30mila abitanti: fino a pochi anni fa c’erano 7 parroci per 7 parrocchie, ora i parroci
sono 3, aiutati da un viceparroco e 7 preti tra cui quattro in pensione. Meno battuta è un’altra via,
quella del coinvolgimento dei laici, che costituendo comunità di famiglie possano vivere nella
parrocchia facendosene carico per tutto ciò che non richiede la presenza del prete.
di Domenico Agasso e Andrea Tornielli in “La Stampa” del 25 novembre 2017

lunedì 27 novembre 2017

Dai loro frutti li riconoscerete (Mt 7,16)

I soldi, il potere ed il suo abuso, sono gli elementi che distruggono il messaggio evangelico.Non c’è confessione religiosa cristiana che possa scagliare pietre addosso ad altre confessioni cristiane o a qualsivoglia altra religione. Tutte le confessioni cristiane sono intrise di potere, di soldi, di lussuria, di omicidi, di razzismi e oppressione. Siamo uniti nel male, siamo “ecumenici” nelle cose negative che hanno qualificato il cristianesimo come la religione che ha sostenuto lo schiavismo, il colonialismo, la strage dei nativi del nord e del sud America, che ha benedetto ogni tipo di guerra giungendo ad inventare anche il concetto della “guerra giusta” o addirittura “santa”. Non c’è ignominia che non sia stata giustificata dalle varie confessioni cristiane e ha ragione Enzo Bianchi quando dice:«Quando leggo che noi cristiani siamo due miliardi anziché gioire sono sconvolto: con tanti cristiani il mondo non dovrebbe essere migliore?».

Beati gli opertori di pace perchè saranno chiamati figli di Dio.(Mt 5,9)

LA PACE TRA I POPOLI E' INNANZITUTTO PACE FRA LE RELIGIONI

«Non c’è pace tra le nazioni senza pace tra le religioni. Non c’è pace tra le religioni senza dialogo tra le religioni. Non c’è dialogo tra le religioni senza la conoscenza dei fondamenti delle religioni».(Hans Küng)
Uno dei presupposti per un dialogo concreto è una conoscenza reciproca, obiettiva per quanto possibile, ma anche aperta a cogliere i lati positivi di ogni parte. Non sfuggire dai lati negativi, ma piuttosto lavorare sui temi che ci possano unire. Questo il nostro impegno su cui invitiamo tutti a confrontarsi.

Beati gli opertori di pace perchè saranno chiamati figli di Dio.(Mt 5,9)

sabato 25 novembre 2017

Lettera aperta agli uomini sul “donnicidio”

In occasione della Giornata contro la violenza sulle Donne, ecco l’appello, riassunto in una lettera aperta agli uomini, di Lidia Menapace, politica e saggista italiana, pubblicata su Patria Indipendente.
Cari compagni, cari amici iscritti alla nostra Associazione, spero di non irritarvi troppo trattando in forma di lettera aperta (dunque una scrittura domestica non accademica, non dalla cattedra) il tormentoso argomento del femminicidio. Cioè dell’uccisione di una donna in quanto donna.
Ma allora perché non donnicidio? Vado a controllare sui dizionari e scopro che donna significa “femmina dell’uomo”, cerco uomo e non trovo “maschio della donna”, bensì “essere dotato di ragione, che dà il nome a tutte le cose, a quelle che sono in quanto sono, a quelle che non sono in quanto non sono”.
Mi trovo tra stupefatta e impaurita: se lui incomincia a pensare che io sono tra le cose che non sono, mi elimina di botto. Vuol dire che alla base dell’uccisione di una donna in quanto donna c’è il fatto che essa sia considerata una cosa, non una persona. E una cosa può essere buttata sfatta distrutta da chi ne è possessore o proprietario. Ciò avviene da alcuni millenni nella nostra grande civiltà occidentale (ma non va poi meglio sotto altri punti cardinali): basta fare un rapido ripasso delle relazioni tra donne e uomini. Nello Stato avviene tardi addirittura l’idea che la donna possa avere diritti pari a quelli degli uomini. Per esempio il diritto alla inviolabilità del corpo: lo stupro era un reato contro la morale, non contro la persona, come ci accorgemmo nel fare una legge contro la violenza sessuale: un’impresa difficilissima, tanto che ci mettemmo due intere legislature per avere una buona legge, migliore di quella di quasi tutti gli altri Stati europei.
Si tratta di materia importante che si riferisce a ciò che accomuna tutti e tutte gli e le appartenenti alla specie umana e ci distingue dagli altri animali, cioè l’uso della parola come veicolo delle relazioni tra uomini e donne. Per questo le relazioni tra i generi della specie umana sono la misura del livello di civiltà: sempre per la straordinaria importanza delle relazioni tra gli e le umane, il livello di civiltà si può misurare o almeno intuire dal grado di civiltà delle relazioni tra i generi: si possono dunque misurare spostamenti indietro e in avanti, verso l’alto o il basso. Insomma ci si rende conto che donne vengono uccise – una ogni paio di giorni – nel nostro civilissimo Paese per l’unica colpa di non volere più, interrompere, rifiutare, respingere, una relazione che durava anche da tempo? e non è questo un segno della crisi generale che sta nel nostro tempo? e che non riguarda solo la finanziarizzazione dell’economia? Credo proprio di sì, e pur non essendo molto appassionata di pene né di delitti, non posso trattenermi dal chiedere che i maschi che si ritengono civili analizzino le loro reazioni al racconto dei numerosi femminicidi, e se si ritrovano indifferenti o addirittura hanno qualche mozione di simpatia/complicità con gli assassini, si esaminino attentamente, vadano da una brava psicologa, facciano con noi qualcosa per respingere questa vergogna. Ad esempio evitino di ridere al racconto di violenze, mostrino schifo ribrezzo disprezzo verso chi le compie.
Credo si debba chiedere il ripristino dell’educazione civica e sessuale, in modo che non si impiantino proprio nelle scuole degli anni più teneri della vita dei tremendi pregiudizi verso il genere femminile.
Viene talvolta rimproverata l’abitudine a vestire in modo molto sommario. Sarà il caso di ricordare che i grandi sarti sono spesso uomini e si chiede loro che non sfoghino le loro repressioni in una finta libertà di mostrare il corpo, che è di per sé un capolavoro, che si deve imparare a rispettare nudo o vestito anche quando l’età o la malattia non lo fanno più “bello”.
E infine, basta con le polemiche che colpevolizzano le madri che vestono le bambine in modo “seduttivo”. In realtà è il mercato che impone gli stili della moda e i modelli di comportamento, usurpando una funzione della società. Ma il mercato è cieco, letteralmente: non vede gli effetti dei codici che prescrive alla società. E’ alla società, alle persone, che va restituito il potere di dettare le norme dell’agire, di distinguere quelle che comportano offesa o cancellazione o calpestamento dei diritti altrui, di manifestare, in ultima analisi, l’autonomia del costume.
Qui c’è un invalicabile stop e chi non lo vede è a rischio di disumanizzarsi, insomma è la barbarie.
Lidia Menapace, partigiana, componente del Comitato Nazionale ANPI

martedì 21 novembre 2017

"Così lasciai detto di staccarmi la spina"

Padre Alberto Maggi, sacerdote e teologo, fine biblista, frate dell'Ordine dei Servi di Maria, ha raccolto in un libro - "Chi non muore si rivede. Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vita" - la sua esperienza a "un passo dalla morte".
 
Non aveva paura di farla finita?
"Assolutamente no. Dissi ai medici. Non preoccupatevi. Se muoio durante l'operazione è solo la mia parte biologica a deperire. La mia anima, invece, continuerà a vivere per sempre. Diedi disposizione anche per il funerale: dopo la Messa in convento nessuno avrebbe dovuto seguire la salma al cimitero. Il mio corpo piuttosto doveva essere consegnato alle pompe funebri mentre tutti i presenti sarebbero dovuti restare in convento a festeggiare non il povero Alberto, ma il "beato" Alberto. Ricordavo a tutti l'Apocalisse, il testo di Giovanni per il quale la morte è una beatitudine".
 
La vita non è sacra?
"Questo è il punto: è sacra la vita o l'uomo? Se è sacra la vita si deve difendere a oltranza anche quando diviene accanimento; se, invece, è sacro l'uomo gli si deve riconoscere la sua dignità e in alcuni casi lo si può anche aiutare ad andarsene serenamente".
 
Eppure, a volte, anche chi firma per farla finita, o dichiara pubblicamente le sue intenzioni in questo senso, poi si pente.
"È vero. Infatti il paziente va sempre ascoltato perché non tutti quando si trovano a un passo dalla morte sono pronti ad andarsene. Non vedono la morte come un nuovo inizio, ma come una fine e hanno paura, vogliono restare. E anche questo loro sentire va rispettato. Ho in mente casi diversi. Ricordo in particolare un amico medico che ha avuto la Sla. Si trovava in coma. Sembrava non avesse possibilità di svegliarsi. O lo si lasciava morire sotto sedazione o gli si applicava una tracheostomia per permettergli di respirare. I familiari mi chiesero un parere. Dissi loro che senz'altro non avrebbe voluto la tracheostomia. Invece, incredibilmente, si svegliò e fu lui a chiederla ai medici. Andò avanti tra atroci sofferenze, una gamba amputata, una sacca per l'alimentazione. Lì capii che nulla è scontato su questo terreno e che il paziente va sempre ascoltato".
 
Ricorda altri casi?
"Un caso diverso fu quello di Max Fanelli, anch'egli colpito da Sla. Andai a trovarlo. Gli funzionava solamente un occhio col quale usava una macchinario per comunicare. L'occhio era appena incorso in un'infiammazione: "Tra poco non potrò più comunicare. Il mio corpo diverrà un sarcofago", mi disse. Una cosa da impazzire. Si batté fino alla fine per una legge che non continuasse, per chi si trova in condizioni estreme, cure inutili".
 
Le parole di Francesco di oggi cosa dicono?
"Dicono della sua passione per l'umanità. Il Papa alla dottrina preferisce l'uomo. Non vuole portare gli uomini verso Dio, sennò ci sarebbe bisogno di leggi, di norme, quanto portare Dio verso gli uomini. E vuole farlo, appunto, non con una dottrina ma con una carezza, un linguaggio insomma che tutti possono capire. Una carezza la comprendono tutti, anche i cosiddetti lontani. Gesù è stato la tenerezza di Dio per i bastonati dell'umanità. Sapeva bene che anche coloro che erano abbandonati andavano accarezzati e in questo modo dava loro la possibilità di rinascere".

lunedì 20 novembre 2017

"Trovati i resti cremati di Buddha"

QUEI resti umani cremati rinvenuti in un cassone di ceramica nella contea di Jingchuan, in Cina, sembrano essere appartenuti a Buddha. Almeno così si legge nell'iscrizione trovata accanto: "I monaci Yunjiang e Zhiming della scuola Lotus, che appartenevano al tempio Mañjusri del monastero di Longxing nella prefettura di Jingzhou, hanno raccolto più di 2.000 pezzi di sharira, così come denti e ossa del Buddha, e li hanno seppelliti nella sala Mañjusri  di questo tempio ".
Il termine sharira ha un’accezione ampia e indica qualsiasi tipo di reliquia legata all''Illuminato', originario del Nepal. E' quanto risulta dalle relazioni degli archeologi, tradotte in inglese nella rivista Chinese Cultural Relics. Gli scavi nella zona erano iniziati cinque anni fa per riparare le strade del villaggio di Gongchi. Poi, la scoperta di un tesoro: non solo quella che sembra la tomba del famoso asceta, ma anche 260 statue buddiste a corredo.
Secondo la tradizione, Gautama Siddharta morì a Kusinagara, in India nel 486 a.C. e il suo corpo, avvolto in centinaia di pezze di cotone, venne cremato nel corso di una cerimonia imponente. La disputa per impossessarsi dei resti portò alla loro suddivisione tra i maggiori contendenti e alla relativa dispersione dell’immenso patrimonio della sharira.
Circa 1000 anni fa, Yunjiang e Zhiming avrebbero trascorso vent'anni della loro vita a rimettere insieme i resti di Buddha, seppellendo, infine, il loro tesoro il 22 giugno del 1013. Adesso, la loro sacra collezione è stata riportata alla luce.
Gli archeologi non danno certezze: non c’è modo di sapere se effettivamente questi resti appartengano al fondatore di una delle religioni più antiche del mondo. Rimarrà un mistero. Ma la scoperta ha comunque un grande valore storico perché fornisce un approfondimento inedito sulla cultura che ha plasmato e segnato il buddismo. Le statue, alte circa 2 metri - rinvenute nei pressi del cassone ma forse sepolte in tempi differenti - raffiguranti il Buddha, devoti illuminati, dei o semplici oggetti legati alla spiritualità buddista, erano parte di un complesso luogo di culto.
Questo è solo l’ennesimo capitolo delle vicende legate alle ceneri dell’Illuminato. Tra le precedenti scoperte archeologiche in Cina, quella di un osso del cranio, apparentemente al Buddha, trovato all'interno di uno scrigno d'oro a Nanjing.
Da "Repubblica.it"

venerdì 17 novembre 2017

Utilità di un anniversario...nonostante i 500 anni di differenze!

Il 31 ottobre 1517 Martin Lutero rese pubbliche le 95 tesi contro l’abuso dell’indulgenza. La famosa affissione delle tesi alla porta della chiesa del castello di Wittenberg è considerata l’inizio della Riforma. Quest’atto diede l’avvio a un movimento su scala globale, che ha esercitato in maniera durevole la sua influenza non solo in Germania, ma anche in Europa e in America, lasciando tracce un po’ in ogni parte del mondo. La Riforma ha così impresso il suo carattere sulla Chiesa e sulla teologia, ma anche su musica, arte, economia, società, lingua e diritto. Non c’è ambito che non sia rimasto al di fuori della sua sfera d’influenza. 
Il 31 ottobre 2017 abbiamo commemorato il 500° anniversario dell’affissione delle tesi.
Non è difficile trovare disorientamento, se non addirittura forti perplessità, di fronte a questo anniversario che mai aveva sollecitato così tante attenzioni: l'inizio, cinquecento anni fa, di un movimento di Riforma che ha mutato il volto della società. 
Un anniversario che non ha mai certo voluto puntare all'esaltazione di un uomo così complesso com'è stato Martin Lutero (tanto meno a processi di beatificazione, come inteso da qualcuno), né a risolvere in modo semplicistico argomenti che rimangono (e rimarranno) differenti. Questa data, però, ha sollecitato interrogativi e dibattiti che inevitabilmente non hanno mai smesso di coinvolgere tutti i cristiani, quale sia la loro appartenenza.
E soprattutto è emersa con forza la necessità di comprendere il senso del termine Riforma, non sbrigativamente come la protesta ideata da Lutero, ma come un processo dinamico, uno strumento evangelico, che da sempre ha accompagnato e sollecitato la Chiesa.
Ancor oggi la parola Riforma ci aiuta a vivere un’esperienza di continua conversione, in una provocazione costante per abitare al meglio la Scrittura nelle pagine della storia. Riforma è questione di stile, rivolto a tutti i cristiani, chiamati a vivere la sequela di Gesù sulla strada delle Beatitudini. Riforma incarna poi anche due ulteriori parole preziose: fedeltà (come rimanere sempre più fedeli alla Scrittura e alle Fonti) e responsabilità (come aderire sempre meglio al Messaggio e all'impegno cristiano nella società).
Se questo rinnovato incontro ci permette di ritrovarci sotto il manto di Dio, in una fraternità gratuita donataci dallo stesso Gesù Cristo, in una comunione diversificata com'è quella dello Spirito santo; se questo anniversario ci offre l’opportunità di ascoltarci e di conoscerci veramente, superando linguaggi che in passato ci hanno impedito di comprenderci; se quest’occasione ci chiede di vivere sempre meno indifferenti, e di superare la confusione imparando a porre una «gerarchia nelle verità della dottrina» (Unitatis redintegratio 11), tutto ciò non è forse una benedizione?
Camminare su questa strada non è facile per nessuno; ma riconoscere l’unicità della fede e le sue differenze storiche non smettendo mai di interrogarsi sulla nostra relazione con Dio e con gli altri, potrebbe finalmente trasformare l’ecumenismo, come valorizzazione delle diversità cristiane, da imprevisto a regola, da eccezione a consuetudine, da problema a prassi, considerandolo semplicemente uno stile, lo stile dei cristiani.

giovedì 16 novembre 2017

Una scelta libera in una Chiesa libera

«Una sessuofobia plurisecolare rischia di fare, alla Chiesa e al mondo, molto più male che bene, proprio in quanto “fobia repressiva”, al posto di una eventuale capacità naturale individuata e compresa con un discernimento profondo e prolungato nel tempo di “sublimazione” della propria forza e del proprio istinto sessuale, prendendo in prestito dalla psicologia junghiana e dalle filosofie orientali un concetto ancora oggi troppo poco ricercato, studiato e compreso da parte delle chiese cristiane. Si può certamente senza ombra di dubbio vivere una vita giusta ed essere santi davanti a Dio. E davanti agli uomini, sia come sacerdoti sposati che come monaci rinuncianti. Con entrambe le categorie nel mondo, non del mondo, e per il mondo!

Sogno davvero questo “riconoscimento reciproco” tra mondo e spirito, tra terra e cielo, tra Chiesa e Stato, tra poteri religiosi e poteri temporali. Abbiamo tutti bisogno di aprirci al cosmo e alle sue forze benefiche, di non vivere come dei reclusi, o degli ostinati solitari incapaci di interesse e di amore per la vita e/o per gli altri, ma di imparare a stare invece sempre di più in mezzo alla vita e in mezzo agli altri. “Mai senza l’altro”, e’ il titolo di un celebre saggio del gesuita Michel de Certau. Ma per potere realizzare la visione di questa comunione fraterna con il prossimo, e per poter essere persone forti e felici a tutti i livelli, non sono sufficienti improvvise riforme missionarie. Non basta uscire allo sbaraglio, e neppure degenerare nel triste luogo comune dell’armiamoci e partite…!  Bisogna, piuttosto, che la visione aristotelica dell’uomo come “animale sociale” converga e si fonda con i valori rivelati dello Spirito di Dio, che mette al centro di tutto il CUORE e insegna a prendere atto degli onnipresenti, infiniti, ed illusori “dualismi naturali” e a renderci sempre più immuni da essi e dalle loro influenze oscillatorie, e a superarli.

Rimanendo sempre “nel mondo, ma non secondo l’opinione del mondo”.»

di Michele Steinfl, studioso di Teologia

in http://www.paeseitaliapress.it/

martedì 14 novembre 2017

Forse serve davvero una legge sul fine vita...

Non c’è dubbio che la denuncia e la petizione pubblica di Gesualdi comporti l’andare ben oltre il problema politico e sociale e metta la coscienza del credente (e di chi non lo è) di fronte al problema dell’uso della propria libertà riguardo al fine-vita.
Già il card. Martini aveva fatto cenno alla problematica del fine-vita e lui stesso ad un certo punto della sua malattia ha detto no all'accanimento terapeutico, spiegando che non è una forma di eutanasia e precisando che non ci sono regole generali per stabilire se l’intervento medico sia appropriato, richiamando l’importanza di non trascurare la volontà della persona malata. Egli infatti disse: “La crescente capacità  terapeutica della medicina consente di protrarre la vita pure in condizioni impensabili. Senz'altro il progresso medico è  ormai positivo. Ma nello stesso tempo le nuove tecnologie che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo  umano richiedono un supplemento di saggezza per non promulgare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona”.
Ma, oltre a questo, è importante anche l’impegno di alleviare la sofferenza del malato, che è un impegno di misericordia e di rispetto alla vita, perché la vita è qualcosa di sacro, di stupefacente: basta riflettere sul lungo viaggio di ogni forma di vita nel corso dei secoli per considerarla sacra, in particolare la vita umana dal momento del concepimento fino alla fine.
Il valore della vita, inoltre, si esprime secondo diverse forme, tutte importanti, avvalorate nel corso della storia dai vari pensieri filosofici, che noi chiamiamo  vita biologica, vita animale, vita psichica, vita logica, vita spirituale. Nel nostro linguaggio abituale noi ricorriamo genericamente alla parola “vita”, ma il termine racchiude in sé questi vari aspetti.
Il rispetto per la vita, quindi, deve essere esteso a tutte queste diverse forme in modo tale che siano tra loro in armonia. Purtroppo ci sono situazioni, esperienze e comportamenti che ledono a questa armonia, che creano lacerazioni e conflittualità. La malattia, come la SLA, crea una disarmonia tra la vita biologica, la vita psichica e la vita spirituale. Le malattie croniche e inguaribili producono un conflitto irreversibile tra le diverse forme vitali: quando si espande questa disarmonia come si deve intendere il rispetto alla vita?
Probabilmente è fondamentale in queste circostanze il rispetto della coscienza e della libertà della persona ammalata.
E’ vero che possiamo trovarci di fronte a chi, nella piena consapevolezza della sua coscienza, accetti di rispettare la vita biologica, anche se minacciata da percorsi inguaribili, a scapito della vita psichica e spirituale: sono coloro che, nel nome della propria fede o di altre convinzioni, ritengono un valore accettare la sofferenza come segno di partecipazione responsabile al dolore diffuso nel mondo. Chi si dispone a vivere la malattia irreversibile in questo modo, merita tutto il nostro rispetto e il riconoscimento della sua forza e del suo coraggio.
Ma meritano altrettanto rispetto tutti coloro che non riescono o non vogliono che la vita biologica prevalga sulle altre forme di vita, non accettando la disarmonia provocata dalla malattia irreversibile.
Si deve prendere atto che ciò che è un valore per una persona, non è detto che lo sia per un’altra; ciò che può essere edificazione per uno, per un altro che la pensa diversamente si può tramutare in tortura. Una diversa concezione della vita può produrre una diversa etica e da essa si possono raggiungere valutazioni differenti nei confronti di situazioni concrete.
In questi casi che cosa significa rispettare la sacralità della vita? E’ più sacra la vita biologica o la vita spirituale che salvaguarda la coscienza e la  libertà della persona?
Rispettare la vita di una persona significa rispetto per la sua coscienza e la sua libertà e ciò avviene se il malato può disporre dell’autodeterminazione. Da qui nasce l’esigenza che il sentimento di rispetto si concretizzi dal punto di vista politico istituzionale in una adeguata legislazione riguardante la libera autodeterminazione che consenta a ciascuno di decidere della propria  morte. Il diritto alla vita è indiscutibile, ma non può essere imposto come un dovere: nessuna persona deve essere costretta a vivere subendo una continua tortura, come la Gastrotomia Endoscopica Percutanea (PEG) o con la tracheotomia quando ci sono difficoltà respiratorie.
E in questo senso si vorrebbe augurare a Michele Gesualdi la opportunità di vedere un parlamento che si rimbocca le maniche e fa la sua doverosa parte (ma ne dubito) per consentire ai malati come lui, di trovare uno sbocco dignitoso per uscire dalla sofferenza e dalla tortura.
Dal blog "Appunti Alessandrini".

lunedì 13 novembre 2017

Nonostante tutto...il cinema è un'arte!

<<Film come sogni, film come musica. Nessun'arte passa la nostra coscienza come il cinema, che va diretto alle nostre sensazioni, fino nel profondo, nelle stanze scure della nostra anima.>>
Ingmar Bergman

domenica 12 novembre 2017

DOV'È FINITA LA LEGGE SUL TESTAMENTO BIOLOGICO?

Un appello accorato, che arriva direttamente dal cuore della terra di don Milani. E' tutto scritto nella lettera che Michele Gesualdi, malato da 3 anni di Sla, ex allievo di don Milani nella scuola di Barbiana, ha scritto ai presidenti di Camera e Senato per accelerare l'approvazione della legge sul “fine vita”.
La missiva è stata letta a Radio Radicale dove era presente in studio la figlia di Gesualdi, Sandra. Michele oggi non si muove più, è prigioniero del suo stesso corpo "come fosse immerso in una colata di cemento". Ma il cervello, per contrappasso, rimane lucidissimo, insieme alle sue finestrelle, gli occhi, che rimangono l'unico modo per comunicare.   
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Mi chiamo Michele Gesualdi, qualcuno di voi probabilmente ha sentito parlare di me perché sono stato presidente della provincia di Firenze per due legislature e allo scadere dei mandati sono stato sostituito da Matteo Renzi. Oggi vi scrivo per implorarvi di accelerare l’approvazione della legge sul testamento biologico, con la dichiarazione anticipata di volontà del malato, perché da tre anni sono stato colpito dalla malattia degenerativa Sla e alcuni sintomi mi dicono che il passaggio al mondo sconosciuto non potrebbe essere lontano.
I medici mi hanno informato che in caso di grave crisi respiratoria può essere temporaneamente superata con tracheotomia come in caso di ulteriore difficoltà a deglutire si può ricorrere alla Peg.(Gastrotomia endoscopica percutanea) La Sla è una malattia spaventosa, al momento irreversibile e incurabile. Avanza, togliendoti giorno dopo giorno un pezzo di te stesso: i movimenti dei muscoli della lingua e della gola, che tolgono completamente la parola e la deglutizione, i muscoli per l’articolazione delle gambe e delle braccia, quelli per il movimento della testa, e respiratori e tutti gli altri.
Alla fine rimane un scheletro rigido come se fosse stato immerso in una colata di cemento. Solo il cervello si conserva lucidissimo insieme alle le sue finestrelle cioè gli occhi, che possono comunicare luce ed ombre, sofferenza, rammarico per gli errori fatti nella vita, gioia e riconoscenza per l’affetto e la cura di chi ti circonda. Se accettassi i due interventi invasivi mi ritroverei uno scheletro di gesso con due tubi, uno infilato in gola con attaccato un compressore d’aria per muovere i polmoni e uno nello stomaco attraverso il quale iniettare pappine alimentare.
Per quanto mi riguarda in modo molto lucido ho deciso di rifiutare, ogni inutile intervento invasivo ed ho scritto la mia decisione chiedendo a mia moglie di mostrarla ai medici affinché rispettino la mia volontà. Quando mia moglie e i miei figli mi hanno visto ridotto ad uno scheletro dovuto alla difficoltà di deglutire, mi hanno implorato di accettare almeno l’intervento allo stomaco per essere alimentato artificialmente perché sarebbe stato un dono anche un solo giorno in più che restavo con loro.
Questo mi ha messo in crisi e ho ceduto anche per sdebitarmi un po’ nei loro confronti. A cosa fatta, confermo tutti i motivi dei miei rifiuti, che consistono nel fatto che non sono interventi curativi, ma solo finalizzati a ritardare di qualche giorno o qualche settimana l’irreparabile, che per il malato, significa solo allungare la sofferenza in modo penoso e senza speranza Per i malati di Sla la morte è certa, e può essere atroce se giunge per soffocamento. C’è chi sostiene che rifiutare interventi invasivi sia una offesa a Dio che ci ha donato la vita.
La vita è sicuramente il più prezioso dono che Dio ci ha fatto e deve essere sempre ben vissuta e mai sprecata. Però accettare il martirio del corpo della persona malata, quando non c’è nessuna speranza né di guarigione né di miglioramento, può essere percepita come una sfida a Dio. Lui ti chiama con segnali chiarissimi e rispondiamo sfidandolo, come se si fosse più bravi di lui, martoriando il corpo della creatura che sta chiamando, pur sapendo che è un martirio senza sbocchi.
Personalmente vivo questi interventi come se fosse una inutile tortura del condannato a morte prima dell’esecuzione. Come tutti i malati terminali negli ultimi 100 metri del loro cammino, pregano molto il loro Dio, e talvolta sembra che il silenzio diventi voce e ti dica : “Hai ragione tu, le offese a me sono altre, tra queste le guerre e le ingiustizie sociali perpetuate a danno della umanità. Chi mi vuole bene può combatterle con concrete scelte politiche, sociali, sindacali, scolastiche e di solidarietà ”.
Di fronte a queste parole rimane una grande serenità che ti toglie la voglia di piangere e urlare. Ti resta solo l’angoscia per le persone che ami e che ti amano. Quando mia moglie ha saputo che in caso di crisi respiratoria durante la notte non ha altra scelta che chiamare il 118 e che il medico di bordo o quelli del pronto soccorso, possono rifiutarsi di rispettare la volontà del malato e procedere ad interventi invasivi, si è disperata e mi ha detto: “Se ti viene di notte una crisi forte non posso chiuderti in camera e assistere disperata in silenzio a vederti morire. Sarebbe per me un triplice dramma: Tremendamente sola di fronte alla tragedia, non poter corrispondere a un tuo desiderio, anche se sofferta da me e dai figli e l’immenso dolore di perderti”.
Per l’insieme di questi motivi sono a pregarvi di calarvi in simili drammi e contribuire ad alleviarli con l’accelerazione della legge sul testamento biologico. Non si tratta di favorire la eutanasia , ma solo di lasciare libero, l’interessato, lucido cosciente e consapevole, di essere giunto alla tappa finale, di scegliere di non essere inutilmente torturato e di levare dall’angoscia i suoi familiari, che non desiderano sia tradita la volontà del loro caro. La rapida approvazione delle legge sarebbe un atto di rispetto e di civiltà che non impone ma aiuta e non lascia sole tante persone e le loro famiglie.

sabato 11 novembre 2017

Una “lettera aperta” a papa Francesco

In questi giorni sta raccogliendo firme in tutto il mondo una lettera aperta a papa Francesco (partita dalla Repubblica Ceca, dall’Austria, dalla Germania, dalla Società europea per la ricerca teologica) che dice così:
“Caro e stimatissimo papa Francesco, le tue iniziative pastorali e la loro fondazione teologica sono oggi sottoposte a un veemente attacco da parte di un gruppo nella Chiesa. Con questa lettera aperta noi ti vogliamo esprimere la nostra gratitudine per la tua coraggiosa e teologicamente ineccepibile leadership pontificale. In poco tempo tu sei riuscito a rinnovare la cultura pastorale della Chiesa cattolica romana in fedeltà alle sue origini in Gesù. La gente ferita, la natura ferita vanno dritte al tuo cuore, Tu vedi la Chiesa come un ospedale da campo sul ciglio della vita. Al centro della tua preoccupazione c’è ogni singola persona amata da Dio. Nell’incontro con gli altri la compassione e non una angustiante interpretazione legalistica della legge deve avere l’ultima parola. Dio e la sua misericordia caratterizzano l’impostazione pastorale che tu vorresti per la Chiesa. Il tuo sogno è di una Chiesa madre e pastora. Noi condividiamo il tuo sogno. Ti preghiamo di non allontanarti dal cammino che hai intrapreso e ti assicuriamo il nostro pieno sostegno e la nostra costante preghiera”. Tutti possono firmare questa lettera, andando sul sito http://www.pro-pope-francis.com/

LA PROFEZIA DI FRANCESCO

<<...Le relazioni internazionali non possono essere dominate dalla forza militare, dalle intimidazioni reciproche, dall’ostentazione degli arsenali bellici. Le armi di distruzione di massa, in particolare quelle atomiche, altro non generano che un ingannevole senso di sicurezza e non possono costituire la base della pacifica convivenza fra i membri della famiglia umana, che deve invece ispirarsi ad un’etica di solidarietà. Insostituibile da questo punto di vista è la testimonianza degli Hibakusha, cioè le persone colpite dalle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki, come pure quella delle altre vittime degli esperimenti delle armi nucleari: che la loro voce profetica sia un monito soprattutto per le nuove generazioni!...
...Occorre dunque innanzitutto rigettare la cultura dello scarto e avere cura delle persone e dei popoli che soffrono le più dolorose disuguaglianze, attraverso un’opera che sappia privilegiare con pazienza i processi solidali rispetto all’egoismo degli interessi contingenti. Si tratta al tempo stesso di integrare la dimensione individuale e quella sociale mediante il dispiegamento del principio di sussidiarietà, favorendo l’apporto di tutti come singoli e come gruppi. Bisogna infine promuovere l’umano nella sua unità inscindibile di anima e corpo, di contemplazione e di azione...>>
Dal discorso di Papa Francesco ai partecipanti al convegno "PROSPETTIVE PER UN MONDO LIBERO DALLE ARMI NUCLEARI E PER UN DISARMO INTEGRALE"

giovedì 9 novembre 2017

Lezione di ... tennis


<<L'autentico eroismo è sicuramente sobrio, privo di drammi. Non è il bisogno di superare gli altri a qualunque costo, ma il bisogno di servire gli altri a qualunque costo.>>

Arthur Ashe    

mercoledì 1 novembre 2017

Simone Weil

<<Oggi non è sufficiente essere santo: è necessaria la santità che il momento presente esige, una santità nuova, anch'essa senza precedenti.>>

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