domenica 10 agosto 2014

Ferie e furti, le chiese di Codogno chiudono in agosto

La chiesa dei Frati di Codogno (Gazzola)
Ragioni che hanno convinto il parroco Don Diego Furiosi a sbarrare al culto alcuni dei templi codognesi. La situazione rimarrà così solo fino alla fine di agosto: a settembre, con la ripresa dell’attività pastorale a pieno regime, le chiese si spalancheranno di nuovo, ma resta il fatto che mancano le forze per poter tenere aperto durante l’estate le strutture religiose non solo al culto ma anche alla visita del patrimonio artistico e culturale della città.
Alla chiesa della Trinità di via Vittorio Emanuele è stata sospesa la messa domenicale e di fatto, nei giorni feriali, il tempio è chiuso al pubblico. Nei giorni scorsi, cancelli sbarrati anche alla Chiesa dei Frati che si affaccia su largo Don Nunzio Grossi: in questo caso, è stato affisso addirittura un cartello che sottolinea, come se fosse un normale negozio commerciale, che il tempio resterà chiuso fino al prossimo 24 agosto. Restano aperte in centro, invece, oltre alla parrocchia, anche la chiesa del Cristo di via Garibaldi e la chiesa di Santa Maria in via Roma. Il pericolo maggiore è rappresentato dalla scarsa custodia che mettererebbe a serio rischio il patrimonio custodito all’interno, vista la frequenza dei furti sacrileghi che colpiscono istituzioni religiose un po’ in tutta la penisola. Naturalmente anche la Bassa lodigiana non è immune da questa piaga, e ciò spiega la prudenza del parroco.
La chiesa dei Frati, per fare un solo esempio, è stata purtroppo più volte razziata: l’ultimo colpo avvenne nel mese di gennaio del 2011 quando ignoti razziarono due angioletti sull’altare e il Gesù Bambino in braccio alla statua di Sant’Antonio. Anche la chiesa di Caravaggio, fortunatamente sempre presidiata, è finita nel mirino di banditi senza scrupoli: l’ultimo blitz fu compiuto nel febbraio del 2010 quando furono razziati otto preziosi candelabri del ‘700.

Ciao...
ti ringrazio per le tue condivisioni.
Eccomi ora io a condividere con te questo commento al vangelo di Matteo .
Spero tutto bene. Un caro saluto e a risentirci presto.  
sr. Maria 

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Dal Vangelo di Matteo Mt 14,13-21
In quel tempo, avendo udito (della morte di Giovanni Battista), Gesù partì di là su una barca e si ritirò  in un luogo deserto, in disparte. Ma le folle, avendolo  saputo, lo seguirono a piedi dalle città. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati. 

Sul far della sera, gli si accostarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Ed egli disse: «Portatemeli qui».

 E dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull'erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli alla folla.

Tutti mangiarono a sazietà; e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.
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Dar da mangiare agli affamati

Matteo lega il miracolo della moltiplicazione dei pani dei pesci alla morte di Giovanni Battista. Gesù è stato appena informato del delitto compiuto da Erode Antipa su istigazione della moglie Erodiade, dai discepoli del precursore e amico. Si ritira allora, in segno di lutto, in un luogo solitario per pregare e pensare all’amico. Sono con lui i suoi discepoli. Il grande dispiacere per la perdita di quella persona cara, Gesù lo lenisce col silenzio, la solitudine, la preghiera. Il suo ritiro è violato però dalla folla che ha bisogno di lui. Egli comprende che a ricordare l’amico, più del pianto, valgono le opere di bene. Matteo sembra dire dunque che Gesù compie i miracoli delle guarigione e della moltiplicazione del pane per onorare il grande profeta martire appena scomparso. La carità è sempre il migliore suffragio. I miracoli sgorgano dal grande amore di compassione che Gesù ha verso la gente bisognosa, che gli si accalca intorno, variante di quella profonda amicizia che lo legava a Giovanni Battista. Soprattutto il gesto del pane donato agli affamati fino alla sazietà, diviene, per l’evangelista, un segno della carità di quel Dio che aveva donato, per quaranta anni, la manna dal cielo al suo popolo in cammino nel deserto, dopo avergli donato la sua parola come nutrimento spirituale. Parola e pane sono qui i doni di Gesù: la parola che cura e istruisce, il pane che nutre per la vita. Gesù era un uomo concreto, non un sognatore. Ha salvato l’uomo tutto intero, non solo la sua anima. Così lo aveva creato Dio, così egli lo redime. I miracoli sono il suo impegno per la salute del corpo, le sue parole sono lo strumento per la salvezza dell’anima.

        La grande folla che si accalca attorno a Gesù per ascoltare la sua parola e ottenere la guarigione dei malati che trascina con sé, merita comprensione, simpatia e compassione. Il cuore del Figlio di Dio non può rimanere sordo alla muta invocazione di aiuto che sale da quella sua gente. Nessuno chiede esplicitamente nulla, ma parlano quegli occhi e quelle orecchie protesi, grida soprattutto quella fame e sete di Dio che ognuno si porta dentro. Questo grido inespresso muove Gesù, che lo sa interpretare, e lo muove all’azione. Quelle persone hanno ascoltato attenti e pazienti il suo insegnamento fino a sera, quasi senza accorgersi che il tempo trascorre a inesorabile. E’ l’ora della cena, il principale pasto della giornata, il luogo dove sono è disabitato, e gli apostoli sollecitano Gesù a licenziare la gente perché vada nei paesi vicini a comprarsi il pane prima che si faccia buio.

           La risposta di Gesù li coglie di sorpresa: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». E’ una proposta impossibile che va oltre le loro risorse, sia perché è impossibile trovare tanto cibo in quel luogo deserto, sia perché costerebbe un patrimonio che non hanno. Ma Gesù chiede ai discepoli di cambiare prospettiva: sostituire il «comperare» con il «donare», un capovolgimento dell’economia umana fondata sul potere di acquisto del denaro. Questo tipo di economia commerciale mostra ancora oggi la sua impotenza a risolvere i problemi della povertà del mondo. I poveri non hanno nulla da dare in contraccambio, perciò sono lasciati nella fame e nel sottosviluppo. Difficile trovare chi fornisce aiuti a fondo perduto, per mettere in movimento iniziative e sviluppo, nei paesi che non hanno risorse in tal senso. La scusa che impedisce spesso la carità è la convinzione che è troppo poco ciò che si può dare per cambiare una situazione di fame, è una goccia in un deserto, sparisce nel nulla in un pozzo senza fondo. Di questa mentalità risente la risposta dei discepoli: «Non abbiamo altro che cinque pani e due pesci». Pochissima cosa per una folle così grande, un aiuto perfettamente inutile. Era la merenda di un bambino, dice Giovanni (Gv 6,), figuratevi se poteva servire da cena a migliaia di persone!

      Gesù, per fare il miracolo, ha chiesto la minima collaborazione umana, anche se sproporzionata. Solo dopo quel piccolissimo gesto di generosità, il poco diventa molto, l’indigenza diventa abbondanza, la fame si trasforma in sazietà. Dio non fa tutto da solo, sollecita la nostra generosità, si serve della nostra povertà per operare miracoli nel mondo. Del resto sono sempre i poveri ad aiutare i poveri, perché sanno bene ciò che significa povertà e fame. Quel piccolo atto di carità di un bambino fa scattare la scintilla del miracolo nelle mani di Gesù. Egli ordina alla folla di sedersi comodamente sull’erba; ci tiene alla dignità di un banchetto che faccia sentire le persone ospiti graditi con un minimo di accoglienza umana. Nessuno si deve sentire trattato da straccione in fila per un pane. Solo ora può cominciare la distribuzione del cibo: Gesù prende i pani e pesci, alza gli occhi al cielo, recita la preghiera di ringraziamento a Dio Padre, «che da il cibo ad ogni vivente», spezza il pane e il pesce è fa servire a tutti la cena dai suoi discepoli. Il cibo si moltiplica nelle mani del Signore e passa nelle mani dei discepoli addetti al servizio delle mense. Così arriva, benedetto e abbondante nelle mani dei commensali, serviti e riveriti con grande delicatezza. Gesù sa fare le cose per bene: il suo dono non umilia, ma esalta l’uomo che lo riceve con signoria.

     Il banchetto sull’erba del prato ai bordi del lago di Genezaret è l’anticipo simbolico del banchetto pasquale dell’eucaristia celebrato qualche mese dopo a Gerusalemme. Il suo significato eucaristico è evidenziato dall’evangelista Giovanni (Gv 6,16-58). I gesti compiuti da Gesù sono quelli dell’ultima cena: «prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede». Ormai nella chiesa apostolica quel gesto è ripetuto dai discepoli di Cristo nelle celebrazioni delle chiese locali. Ma rimane per i fedeli l’invito alla solidarietà verso i poveri, come segno di autenticità. Perciò fin dai tempi apostolici non ci fu mai eucaristia senza la raccolta delle offerte per i poveri. Questo sta a significare che la «caritas» nella chiesa non è un optional, ma un dovere che sgorga dal dono che Gesù fa di se stesso nel sacramento e dall’invito rivolto agli apostoli: «voi stessi date da mangiare ai poveri», io farò il resto che manca. Nessuno si può tirare indietro.


             Casa Emmaus

  Suore Francescane Missionarie di Assisi

         Via San Francesco, 17 - Assisi  (PG)

          Tel. (+39) 075 812 435 / 815 119

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venerdì 8 agosto 2014

PROPOSTA EVANGELICA


" Il pane che a voi avanza,
è il pane dell'affamato.
 
La tunica appesa al vostro armadio,
è la tunica di chi è nudo.
 
Le scarpe che voi non portate,
sono le scarpe di chi è scalzo.
 
Il denaro che tenete nascosto,
è il denaro del povero.
 
Le opere di carità che voi non compite,
sono altrettante ingiustizie che voi commettete."
 
San Basilio, 329-379, vescovo di Cesarea (Cappadocia)

QUEI PRETI RIVOLUZIONARI...!

Fu al governo con i sandinisti di Daniel Ortega per 11 anni: dal 1979 al 1990. Padre Miguel D’Escoto Brockmann – della congregazione di Maryknoll – venne per questo colpito da una sospensione a divinis. Come un altro sacerdote, Ernesto Cardenal. Come una serie di altri religiosi che in America latina condivisero i principi progressisti della teologia della liberazione. Erano gli anni in cui Giovanni Paolo II si opponeva duramente a questo movimento, anche attraverso una serie di processi canonici. E Miguel D’Escoto Brockmann – come tanti altri – ne fece le spese. Con la sospensione dal sacerdozio.

Oggi per lui, e forse anche per la Chiesa, arriva una svolta. Papa Francesco ha dato il suo assenso per la revoca della pena canonica inflitta al sacerdote nicaraguense. E’ stato il sacerdote, attraverso una lettera a Bergoglio, a manifestare il desiderio di “ritornare a celebrare l’eucarestia prima di morire”. E Francesco ha deciso di dire sì, lasciando al superiore generale dell’istituto il compito di “seguire il confratello nel processo di reintegrazione al ministero sacerdotale”.

Padre d’Escoto – che oggi ha 81 anni – aveva comunque accettato la sospensione. Pur rimanendo membro della propria società missionaria. Da qualche anno il sacerdote aveva abbandonato l’impegno politico che lo portò anche alle Nazioni Unite. Nel 2008 arrivò a presiedere la 63esima Assemblea permanente dell’Onu invocando una diversa politica israeliana nei confronti dei palestinesi.

Con la decisione di oggi, e con la futura e tanto attesa beatificazione di padre Oscar Romero – arcivescovo di San Salvador trucidato il 24 marzo 1980, mentre celebrava messa nella cappella di un ospedale – per la Chiesa potrebbe davvero aprirsi una nuova fase.

giovedì 7 agosto 2014

HANNO RAPITO VANESSA E GRETA!

 «A Cesenatico non le rapivano!», scrive Riccardo su Twitter. Ed è un gentiluomo, perché aggiunge:
«La loro motivazione è comunque nobilissima». Un gentiluomo isolato. Le reazioni alla scomparsa
di Vanessa e Greta ad Aleppo, in Siria, sono state, in media, più crudeli. È sembrato di tornare, di
colpo, ai giorni di Rossella Urru, sequestrata in Algeria nel 2011; o ai tempi delle due Simone,
rapite in Iraq, dieci anni fa. Stessi giudizi frettolosi. Ai pavidi non piacciono quelli che hanno
coraggio. «Evviva l’incoscienza due ventenni senza nessun tipo di preparazione!!! Bene che vada ci
toccherà pagare profumatamente e riportarle con l’aereo di Stato!», scrive un lettore tra i commenti
di Corriere.it . «Due ragazze ventenni se ne vanno in Siria senza arte né parte», commenta un altro.
«Va bè, non diciamo che se la sono cercata: ma possiamo pensarlo?». E arriverà di peggio, state
certi. Due belle ragazze con i sorrisi aperti e i capelli lunghi, una bionda e una mora. Basta e
avanza, perché si scateni l’immaginario televisivo dei superficiali.
Secondo l’Unicef la mattanza siriana ha già ucciso 11.400 bambini. Un terzo aveva meno di 10
anni. Le persone coinvolte dal conflitto sono ormai 11 milioni, quasi 5 milioni di minori.
Aggiungete quasi 3 milioni di profughi fuggiti nei Paesi dell’area (Turchia, Giordania, Libano,
Iraq): tra loro, un milione e mezzo di bambini. Metteteli in fila indiana: arrivano da Milano e Roma.
Pensiamo poco, e non facciamo nulla, davanti a questo scandalo. Giudichiamo subito, e con
sufficienza, due ragazze che davanti all’orrore hanno provato, con i loro mezzi, ad aiutare, prima in
Italia poi in Siria. Inesperte? Ovvio. Impulsive? Probabilmente: chi a vent’anni non cerca di
dividere il bene dal male? Incoscienti? D’accordo. Ma ammirevoli.
Il confine tra incoscienza e coraggio è spesso nascosto dalla passione. Le due ragazze ne hanno in
abbondanza. Greta e Vanessa, 20 anni e 21 anni, Brembate (Bergamo) e Besozzo (Varese): la
Lombardia che ogni mattina sale sul pullman per andare a scuola, e poi scopre, di colpo, la ferocia
del mondo. «Lo prendo come un fatto personale», diceva Vanessa di quanto accadeva in Siria, un
Paese dove aveva contatti ed era già stata. Non sono turiste del rischio, Vanessa e Greta. Sono le
figlie di una buona Italia, che ora deve riportarle a casa. Senza gridare, senza accusare e, almeno
stavolta, senza litigare.
di Beppe Severgnini
in “Corriere della Sera” del 7 agosto 2014
PRECISAZIONE.
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In data 7/8/14 ho cancellato dal mio blog un commento giuntomi da anonimo con accuse a persone in riferimento ad alcuni fatti accaduti. Se questa persona,con prove alla mano,deve accusare qualcuno di qualcosa lo faccia direttamente presso le autorità atte ad accertarne la verità.
Ho sempre creduto - e continuerò a credere -  nella libertà di pensiero e di espressione, non dimenticando che in essa deve trovare spazio prima di tutto il rispetto della libertà di pensiero e di espressione dell'altro.
Grazie.
AGOSTINO BONASSI.

domenica 3 agosto 2014

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Matteo 14,13-21. 

In quel tempo, quando udì della morte di Giovanni Battista, Gesù partì su una barca e si ritirò in disparte in un luogo deserto. Ma la folla, saputolo, lo seguì a piedi dalle città.
Egli, sceso dalla barca, vide una grande folla e sentì compassione per loro e guarì i loro malati.
Sul far della sera, gli si accostarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare».
Ma Gesù rispose: «Non occorre che vadano; date loro voi stessi da mangiare».
Gli risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci!».
Ed egli disse: «Portatemeli qua».
E dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull'erba, prese i cinque pani e i due pesci e, alzati gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla.
Tutti mangiarono e furono saziati; e portarono via dodici ceste piene di pezzi avanzati.
Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.


sabato 2 agosto 2014



LIBERATELO !!
Preti sposati: la disciplina ecclesiastica repressiva impera sull'esperienza liberatrice del cristianesimo primitivo

L'associazione dei sacerdoti lavoratori sposati rilancia le tesi di Juan José Tamayo Docente presso l’Università Carlos III di Madrid.
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«Bisogna però che il vescovo sia irreprensibile, non abbia preso moglie che una volta sola, sia sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia dirigere bene la sua casa e abbia figli sottomessi con ogni dignità, perché se uno non sa governare la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?».

Questo testo non è firmato da un movimento cristiano progressista dei nostri giorni che rivendica la soppressione dell’obbligo al celibato per i sacerdoti. È tratto dalla Prima Lettera a Timoteo – Nuovo Testamento – scritta forse alla fine del I Secolo, epoca in cui vescovi e preti erano in maggioranza sposati. Il celibato non appare come un comando o una condizione necessaria imposta da Gesù di Nazareth alle sue e ai suoi seguaci. Piuttosto era fondamentale la rinuncia ai beni e la condivisione di essi con i poveri. Niente che fosse relativo alla sessualità. E non si esigeva la continenza sessuale né dai dirigenti delle prime comunità, né, successivamente, da vescovi, presbiteri e diaconi. Era un’opzione libera e personale. L’esercizio dei carismi e dei ministeri al servizio della comunità non richiedeva che si conducesse una vita da celibe.

Nella Prima Lettera ai Corinti, scritta nell’anno 52 dell’era cristiana, Paolo di Tarso va anche oltre e rivendica il suo diritto a sposarsi così come il resto degli Apostoli: «Non abbiamo diritto a farci accompagnare da una sposa cristiana come gli altri fratelli del Signore e di Pietro?» (1Cor 9,4-6). Non esiste, pertanto, un vincolo intrinseco fra il celibato e il ministero sacerdotale.

La prima legge ufficiale riguardante il celibato obbligatorio per i sacerdoti è stata promulgata esplicitamente nel II Concilio Lateranense nel 1139 – implicitamente lo aveva già fatto il I Concilio Lateranense nel 1123 – richiamando alla necessità della continenza sessuale e alla purezza rituale per celebrare l’eucarestia. Siamo dunque di fronte ad una tradizione tardiva, lontana dalle origini del cristianesimo e pertanto dall’intenzione del suo fondatore Gesù di Nazareth.

Per molto tempo si è creduto che la legge sulla continenza sessuale dei chierici avesse la sua origine nel Concilio di Elvira, degli inizi del IV secolo, e in quello di Nicea (del 325). Oggi, tuttavia, è opinione molto diffusa fra gli specialisti che i documenti attribuiti al Concilio di Elvira non appartengano tutti ad esso, ma ad una collezione canonica che data intorno alla fine del IV secolo; e che a Nicea non sembra si sia trattato della continenza dei sacerdoti (cfr. E. Schillebeeckx, Il ministero nella Chiesa, Servizio di presidenza nella comunità di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 1981).

L’attuale Codice di Diritto Canonico, promulgato da Giovanni Paolo II in Vaticano il 25 gennaio 1983, si allontana dalle origini e segue la tradizione repressiva posteriore. Prescrive il canone 277: «I chierici sono tenuti all’obbligo di osservare la continenza perfetta e perpetua per il Regno dei cieli, perciò sono vincolati al celibato, che è un dono particolare di Dio mediante il quale i ministri sacri possono aderire più facilmente a Cristo con cuore indiviso e sono messi in grado di dedicarsi più liberamente al servizio di Dio e degli uomini». Ai sacerdoti è richiesta prudenza nel trattare con persone – donne, si intende – che possano mettere in pericolo l’obbligo di custodire la continenza.

Il cambiamento è abissale: dalla libertà di scelta all’imposizione della vita celibataria, dal libero esercizio della sessualità all’astinenza sessuale, dalla vita di coppia alla vita solitaria. La disciplina ecclesiastica repressiva impera sull’esperienza liberatrice del cristianesimo primitivo. Il Codice di Diritto Canonico scavalca il Nuovo Testamento e la sua autorità finisce con l’imporsi. Il cristianesimo a rovescio!

Cosa è successo nel cattolicesimo romano per produrre questa involuzione? Quali sono le ragioni di un tale cambiamento? Una prima ragione è stata la purezza legale, che proibiva le relazioni sessuali dei sacerdoti prima della celebrazione eucaristica perché la si potesse celebrare limpidamente.

Ha influito anche l’incorporazione alla teologia cristiana del dualismo platonico: la considerazione negativa del corpo come qualcosa da mortificare e della carne quale ostacolo alla salvezza, e la considerazione dell’anima come unica essenza dell’essere umano che bisognava salvare a detrimento del corpo. Secondo questa antropologia dualista, si riconosceva alla vita celibataria un “plusvalore” sulla vita matrimoniale. Nel suo famoso libro Camino, san José María Escrivá de Balaguer è ben esplicito a riguardo: «Il matrimonio è per la truppa, non per i grandi ufficiali della Chiesa. Così, mentre mangiare è un’esigenza di ogni individuo, generare è un’esigenza della specie, potendo disinteressarsene le persone singolari. Bramosia di figli? Figli, molti, e un’impronta incancellabile di luce lasceremo se sacrifichiamo l’egoismo della carne» (Massima 28).

La terza ragione è stata la demonizzazione della donna, ritenuta tentatrice, lasciva, libidinosa, passionale, sensuale, in grado di portare l’uomo alla perdizione. E questo non si applicava solo a determinate donne dalla vita poco esemplare, ma si riteneva che fosse iscritto nella stessa natura femminile. Alcuni Padri della Chiesa hanno definito la donna «la porta di Satana», la «causa di tutti i mali».

Oggi c’è un clima generalizzato, dentro e fuori il cattolicesimo, favorevole alla soppressione dell’anacronistica legge del celibato. Ventisei donne innamorate di preti hanno scritto al papa chiedendogli di derogare da essa per la «devastante sofferenza» che «lacera l’anima» loro e dei loro compagni sacerdoti. Nel volo di ritorno a Roma, dopo la sua visita in Giordania, Palestina e Israele, papa Francesco ha affermato che il celibato «è un dono per la Chiesa» e che di esso ha «grande stima», ma che, «non essendo un dogma di fede, la porta resta sempre aperta».

In termini simili si è espresso mons. Pietro Parolin, pochi giorni dopo essere stato nominato da Francesco segretario di Stato del Vaticano, in dichiarazioni rilasciate l’8 settembre 2013 al quotidiano El Universal del Venezuela, Paese di cui era nunzio: il celibato obbligatorio – ha detto – «non è un dogma della Chiesa e si può discutere perché è una tradizione ecclesiastica». Tali pronunciamenti non suppongono alcuna novità, coincidono con affermazioni note e condivise tanto dai difensori come dai detrattori di questa tradizione ecclesiastica.

Credo sia giunta l’ora di passare dalle parole ai fatti, dalle dichiarazioni propagandistiche al cambiamento normativo. È ora di dare scacco matto al celibato obbligatorio e dichiarare il celibato opzionale. Altrimenti, quanti sono scettici rispetto all’intenzione di Francesco di riformare la Chiesa avranno un argomento in più per continuare ad esserlo.

Conviene ricordare che nel cristianesimo, almeno nel cristianesimo di Gesù di Nazareth, l’incompatibilità non è fra amore di Dio e sessualità, fra amore divino e amore umano. In assoluto. L’opposizione è fra l’amore verso Dio e l’amore verso il denaro, in accordo con la massima evangelica «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza» (Mt 6,24). Se si ama il denaro, Dio è di troppo.

Bisognerebbe leggere Eduardo Galeano [giornalista, scrittore e saggista uruguayano] per de-demonizzare il corpo, perderne la paura e riconoscerlo nella sua vera dimensione piacevole e festiva: «La Chiesa dice: il corpo è una colpa. La scienza dice: il corpo è una macchina. La pubblicità dice: il corpo è un affare. Il corpo dice: io sono una festa». È una riflessione in più per opporsi a norme che impongono comportamenti repressivi che rendono (più) infelici le persone.

Le tesi sono state pubblicate in adista (segni Nuovi n 28 del 26 Luglio 2014)
Preti sposati si mettono a disposizione per le chiese italiane rimaste senza il parroco

Appello dei sacerdoti sposati ai Vescovi italiani e a papa Francesco a riaccoglierli nel ministero presso le chiese e le parrocchie chiuse

Roma, 29/07/2014 (informazione.it - comunicati stampa) I sacerdoti sposati lanciano un appello a tutti i Vescovi Italiani della Conferenza Episcopale, affinché intercedano direttamente sul soglio di Pietro con Papa Francesco per consentire loro di prendere in mano le redini di una delle tante chiese italiane rimaste orfane di un parroco: «i vesvovi italiani», spiegano, «potrebbe prendere a cuore la causa dei sacerdoti sposati e del loro reinserimento nel ministero pastorale attivo nelle parrocchie perorando presso Papa Francesco e i vertici del Vaticano un provvedimento canonico che consenta ai Vescovi diocesani di poter accogliere i sacerdoti sposati e le loro famiglie».

Chieste le dimissioni dagli incarichi pastorali, i sacerdoti rinunciano al celibato, possono sposarsi con rito religioso e avere figli. Ma la vocazione che anni prima li aveva spinti al seminario non si spegne.

Così chiedono di tornare a servire la comunità, portando con sé l’intera famiglia, in modo da tenere aperti i battenti delle tante chiese e parrocchie che rischiano di diventare contenitori vuoti da visitare solo in occasioni speciali senza alcun senso di comunità.

Nei mesi scorsi la chiusura delle parrocchie di molte città italiane, per sopraggiunti limiti d’età dei parroci, aveva creato un terremoto fra i fedeli che lì arrivavano dalle città interessate.

Le chiese e le parrocchie rischiano di riempirsi di contenitori vuoti: sacri, ma pur sempre inutilizzati. E se i banchi dei seminari si svuotano, dicono i sacerdoti sposati, allora è meglio ricorrere a chi guida è già stato.

«I sacerdoti sposati con le loro famiglie sono una ricchezza per la Chiesa».

Riferimenti Contatto
http://nuovisacerdoti.altervista.org

Ufficio Stampa
Sacerdoti Sposati
Ass. Sacerdoti Lavoratori Sposati
(Roma) Italia
sacerdotisposati@alice.it

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