sabato 30 dicembre 2017

E LA RIVOLUZIONE DI PAPA FRANCESCO?

Quasi alla fine del quinto anno di pontificato (13 marzo 2018), la “rivoluzione” di Francesco
continua a dividere mondo cattolico, osservatori laici e stampa.
Gli ultrà del papa argentino la evocano ogni giorno, anche in questo 2017 appena concluso,
trasformando ogni gesto di Francesco, compreso il più innocuo, in rivoluzionario. Gli oppositori,
specularmente, gridano alla rivoluzione, ma con timore e terrore, denunciando ogni atto come
eversivo del bimillenario ordine costituito, capace di far naufragare la barca di Pietro nel mare
tempestoso del relativismo, del terzomondismo, addirittura del comunismo. Poi c’è la narrazione
della rivoluzione mancata – particolarmente di successo in un anno in cui i numeri 3 e 4 della
gerarchia della Santa sede (il card. Müller, fino a luglio custode dell’ortodossia come prefetto della
Congregazione per la dottrina della fede, e il card. Pell, superministro dell’economia di Oltretevere,
da giugno in Australia a difendersi dalle accuse di pedofilia), insieme al revisore generale dei conti
del Vaticano (Libero Milone, a giugno) e al vicedirettore dello Ior (Giulio Mattietti, a novembre)
sono stati allontanati dai Sacri palazzi – perché ostacolata dalla Curia cattiva, rafforzata dalle parole
di papa Francesco ai cardinali per gli auguri di Natale: «Fare le riforme a Roma è come pulire la
Sfinge d’Egitto con uno spazzolino da denti».
Ma quale rivoluzione? In realtà non è mai stata all’ordine del giorno, se alla parola assegniamo
l’autentico significato di mutamento radicale delle strutture. Le riforme sì. Più decise quelle
finanziarie (ma in ordine a trasparenza e legalità, non alla povertà), più modeste quelle curiali
(accorpamento di dicasteri) e liturgiche (autonomia alle Conferenze episcopali nazionali per la
traduzione dei testi), senza intaccare la dottrina.
Tuttavia sono cambiate la percezione e la prassi, con il lento spostamento dal primato della Verità (i
“principi non negoziabili”, non archiviati ma collocati in seconda linea) alla centralità delle
questioni sociali (migranti, ambiente, disarmo). Per la Chiesa cattolica non è poco.
Il 2018 sarà l’anno della rivoluzione? Probabilmente no. I nodi da affrontare, scogliere e tagliare ci
sarebbero, ma resteranno lì, temperati dalla pastorale di misericordia. Gli scontri, mediatici e non,
continueranno. E la barca di Pietro proseguirà la propria navigazione.
di Luca Kocci, in “il manifesto” del 29 dicembre 2017

venerdì 29 dicembre 2017

STUPORE DAVANTI AL TUO MISTERO

Liberaci,Signore,
da ogni arida pretesa
della mente e del cuore:
donaci lo stupore dinanzi al tuo mistero,
la fedeltà dell'inconoscenza.
Conduci la nostra intelligenza,
vivificata dal tuo Spirito,
sui sentieri dove tu tu riveli
nella tenebra luminosa
del silenzio.
Da' a noi occhi limpidi
per contemplarti,
e un umile cuore
per lasciarci contemplare da te.
Dio della storia,
che hai parlato le parole eterne
adattandole alle orecchie dell'uomo,
che non hai esitato
a entrare tu stesso nel tempo
per farti incontrare,
conoscere e amare da noi,
donaci di non cercarti lontano,
ma di riconoscerti
dovunque la tua Parola
proclama la certezza della tua presenza,
velata oggi certamente e sofferta,
libera un giorno e splendente,
al tramonto del tempo
quando sorgerà l'alba
del tuo ritorno glorioso.
Vieni, Spirito Santo,
vieni in noi,
inquieti per la febbre
che tu stesso ci hai contagiato:
vieni a ripresentare in noi e per noi
il mistero del Crocifisso Risorto,
vieni così a riempire la nostra vita,
perché la bocca parli finalmente
per la sovrabbondanza del cuore.
Amen.Alleluia!
Bruno Forte,Un tempo per stupirsi.

domenica 24 dicembre 2017

AUGURI PER UNA NUOVA NATIVITA' CON GESU'!

Signore Gesù,
amico e fratello,
accompagna i giorni dell'uomo
perché ogni epoca del mondo,
ogni stagione della vita
intraveda qualche segno del tuo regno
che invochiamo in umile preghiera,
e giustizia e pace s'abbraccino
a consolare coloro
che sospirano il tuo giorno. 

Signore Gesù,
giudice ultimo del cielo e della terra, vieni!
La nostra vita sia come una casa
preparata per l'ospite atteso,
le nostre opere
siano come i doni da condividere
perché la festa sia lieta,
le nostre lacrime siano come l'invito a fare presto.
Noi esultiamo nel giorno della tua nascita,
noi sospiriamo il tuo ritorno:
vieni, Signore Gesù!


 Carlo Maria Martini

martedì 19 dicembre 2017

GIOVANI E RELIGIONE

L'associazione francese per il dialogo interreligioso “Coexister” pubblica un'indagine sulle parole-chiave che 2000 studenti di scuola media inferiore e superiore associano alle differenti religioni.
A che cosa pensano i giovani se si dice loro “ebraismo”, “cristianesimo”, “islam” o “ateismo”?
Non c'è un criterio scientifico e di rappresentatività, ma le convinzioni religiose di questi giovani sono abbastanza vicine a quelle dell'insieme della popolazione: lo 0,76% si sente più “vicino” all'ebraismo, il 49,2% al cristianesimo, il 6,53% all'islam e il 42,61% all'ateismo.
Che cosa mostrano allora queste risposte?
In primo luogo i giovani hanno pochi pregiudizi: “Kippà” e “sinagoga” vengono al primo posto per l'ebraismo, “Chiesa” e “Gesù Cristo” per il cristianesimo, “moschea”,“velo” e “Corano” per l'islam. “Questo mostra che c'è una trasmissione minima delle conoscenze del fatto religioso”, ritiene Charles Mercier, professore di storia contemporanea all'università di Bordeaux.
Inoltre, le risposte maggiormente date sono sempre rispettose.  “Tra le prime dieci, non c'è nessuna
parola violenta, aggressiva o razzista”, si rallegra Samuel Grzybowski. La presenza importante di
“genocidio” e “Hitler” tra le parole associate all'ebraismo è senza dubbio da collegare allo studio della Shoah a scuola. L'unica cosa negativa, per Samuel Grzybowski: “I non-musulami scrivono
sistematicamente Mahomet invece di Mohammad, mentre questa appellazione è considerata
peggiorativa da molti musulmani”.
Dalle risposte, traspaiono comunque anche cliché e visioni negative, ma più marginalmente. “Tirchi” o “Rabbi Jacob” o “banchieri” tornano anche se non spesso tra le parole associate all'ebraismo. Lo stesso succede per l'islam, a cui i giovani associano regolarmente “cuscus”,“terroristi”, o “arabi”.
Più marginalmente, il cristianesimo per alcuni è sinonimo di “chiuso”, “vecchio” o anche
“crociate”. Ma neanche l'ateismo è risparmiato: “ignoranza”, “incomprensibile” o “indeciso”
figurano tra le parole che gli sono talvolta associate.
“Le tre parole che i giovani associano alla loro religione riguardano più spesso l'interiorità, mentre quelle che associano alle altre religioni riguardano più facilmente segni esteriori”. Ad esempio, “Gesù Cristo” è la prima parola associata al cristianesimo dai giovani cristiani, mentre “Chiesa” è quella preferita dai non-cristiani.
Ma l'esempio che colpisce di più è senza dubbio quello del velo islamico: è la seconda parola
associata all'islam dai non-musulmani, mentre è solo alla nona posizione per gli studenti musulmani. “Si vede qui che questo segno esteriore, su cui si accentrano i dibattiti è considerato caratteristico dell'islam più dai non-musulmani che dai musulmani”.

giovedì 14 dicembre 2017

INCLUSIONE

<<Dipendiamo gli uni dagli altri in così tanti modi che non possiamo vivere più a lungo in comunità isolate e ignorare ciò che accade fuori da queste comunità.>>

 (Tenzin Gyatso)

PREGHIERA NELL'ATTESA DEL NATALE

Vieni sempre Signore

 Vieni di notte, ma nel nostro cuore è sempre notte:

e dunque vieni sempre, Signore.

Vieni in silenzio, noi non sappiamo più cosa dirci:

e dunque vieni sempre, Signore.

Vieni in solitudine, ma ognuno di noi è sempre più solo:

e dunque vieni sempre, Signore.

Vieni figlio della pace, noi ignoriamo cosa sia la pace:

e dunque vieni sempre, Signore.

Vieni a liberarci, noi siamo sempre più schiavi:

e dunque vieni sempre Signore.

Vieni a consolarci, noi siamo sempre più tristi:

e dunque vieni sempre Signore.

Vieni a cercarci, noi siamo sempre più perduti:

e dunque vieni sempre Signore.

Vieni, tu che ci ami, nessuno è in comunione col fratello

se prima non è con te, o Signore.

Noi siamo tutti lontani, smarriti,

né sappiamo chi siamo, cosa vogliamo:

vieni, Signore.

Vieni sempre, Signore.
(Padre Davide Turoldo)

sabato 9 dicembre 2017

Non è ancora giunta l'ora del biotestamento?

Vi ricordate della povera Luana Englaro? Sono passati 8 anni. Un caso ormai archiviato. Un dramma che ha arroventato la scena politica italiana, spaccando l'Italia in due: da una parte chi sosteneva che si trattasse dell'assassinio di una giovane donna in grado, per alcuni, addirittura di partorire, e dall'altra coloro che invocavano la libera scelta della morte dolce o dell'eutanasia.
Ci fu anche qualcuno che, inascoltato e dotato di buon senso, sosteneva che per non scivolare né
nell'eutanasia né nell'accanimento terapeutico non si dovesse stabilire una regola generale e astratta buona per ogni situazione ma che per affrontare quella zona grigia che attende tutti alla fine della vita bisognasse valutare caso per caso: bisognava cioè pensare non una legge rigida e prescrittiva ma un'indicazione del paziente, e del suo fiduciario che il medico avrebbe verificato naturalmente alla luce della sua relazione con il paziente.
Da ieri ad oggi i casi di "accompagnamento alla morte" si sono ripetuti e hanno continuamente solleticato e pressato la politica e la riflessione etico-morale degli italiani.
Ora sembra che finalmente stia per essere approvata una legge, equilibrata e saggia, che fa fronte alla crescente invasività delle tecniche che aumentano il rischio di accanimento e, insieme, tutela il medico che dovrà scegliere in scienza e sapienza.
È tempo ora, finalmente, di stabilire diritti e confini sul fine vita. Bisogna legiferare, evitando quella
contrapposizione ideologica, quel bipolarismo etico del passato, così paralizzante.
Dobbiamo valorizzare gli elementi buoni del dibattito che nel corso di così tanti anni si si è svolto.
Chiara è la difficoltà a legiferare su una materia nella quale il malato può cambiare idea, fino all'ultimo momento. Ma è per questo motivo che occorre valorizzare il triangolo medico-paziente-famiglia ricreando una fiducia che spesso è venuta meno, o una sorta di Commissione nei casi estremi, e poi la mediazione del tutore, della famiglia.
Sull'altro versante bisognerà perfezionare le tecniche per togliere il dolore, che vanno estese e rese più fruibili. Così come il ricorso alla sedazione profonda. Ma la base di tutto resta la relazione medico-paziente che va umanizzata, non burocratizzata o resa diffidente da paure legali.
Detto questo, la legge non risolve tutto. Questo però non deve diventare un alibi per non legiferare, ma serve la consapevolezza che farlo in modo astratto non sempre aiuta. L'esperienza di altri Paesi ci dice che occorre ascoltare la specificità dei singoli casi, là dove l'universalità della condizione umana del morire, diventa irriducibile peculiarità di ogni persona, e dei suoi affetti.

LA GIORNATA DEI GIUSTI

Un piccolo grande segnale quello di riconoscere e istituire la giornata dei giusti: il 6 marzo. Da ieri, con la legge approvata in via definitiva al Senato, anche il nostro Paese fa la sua parte. Ma chi sono i giusti? Qual è l’origine delle ricerche sulle “ biografie giuste” e quale significato si lega a una parola così impegnativa?
La genesi del riconoscimento porta al lavoro del memoriale di Yad Vashem a Gerusalemme: un segno perenne per ricordare i non ebrei che durante la Shoah hanno aiutato chi era in pericolo. Il giusto tra le nazioni non è un eroe né un combattente della Resistenza, spesso è qualcuno che si muove secondo principi semplici e istintivi nella quotidianità riservata: dare soccorso, prestare assistenza, nascondere chi è in difficoltà, offrire un tetto o una minestra a chi è in fuga
Un gesto di responsabilità individuale, un’assunzione di consapevolezza che rischia di essere dimenticata, o relegata alla memoria individuale dei protagonisti. Una scelta che può essere pagata a caro prezzo, non c’è spazio per il libero arbitrio quando la macchina dello sterminio si mette in moto: chi non piega la testa può pagare il prezzo più alto come ammonimento o esempio per gli altri. Il riconoscimento dell’onorificenza è il culmine del lavoro di storici e ricercatori che verificano testimonianze e documenti fino a pronunciarsi nel merito di vicende lontane. Il principio è quello di un passo della Bibbia — « Chi salva una vita, salva il mondo intero » — e non è poco di questi tempi quando altre vite vengono spezzate in tanti angoli del pianeta.
La banalità del bene diventa un valore riconosciuto e riconoscibile, un segno positivo che attraversa e condiziona individui e collettività.  Un lievito prezioso che a partire dalla giornata dei giusti ha affermato principi ben più impegnativi: quello della responsabilità individuale, della centralità della vita umana, della possibilità di fare qualcosa contro l’odio e l’intolleranza, contro le tante forme di discriminazione e violenza che attraversano il presente.

giovedì 7 dicembre 2017

Papa Francesco ci invita a pregare così...

Páter hemōn. Simone Weil lo recitava ogni mattina nell’originale greco, «questa preghiera contiene tutte le domande possibili, non se ne può concepire una sola che non via sia racchiusa». Eppure, spiega Francesco, «ci vuole coraggio per pregare il Padre nostro». In un mondo «malato di orfanezza», le parole trasmesse da Gesù ai discepoli («Signore, insegnaci a pregare») mostrano un Dio che si fa dare del tu, e chiamare «papà». Il pontefice ne parla con don Marco Pozza, teologo e cappellano del carcere di Padova, un dialogo versetto per versetto che TV2000 ha cominciato a trasmettere ogni settimana ed ora esce per intero nel libro Quando pregate dite Padre nostro, con le riflessioni inedite di Francesco alternate a quelle di Angelus e udienze. Ci vuole coraggio, ripete il Papa. «Dico: mettetevi a dire “papà” e a credere veramente che Dio è il Padre che mi accompagna, mi perdona, mi dà il pane, è attento a tutto ciò che chiedo, mi veste ancora meglio dei fiori di campo. Credere è anche un grande rischio: e se non fosse vero?»

Il Padre nostro dice l’essenziale, al piccolo Bergoglio lo insegnò la nonna. «A me dà sicurezza», racconta. «Ho un papà davanti al quale mi sento sempre un bambino. Un padre che ti accompagna, ti aspetta». Che stia «nei cieli» indica l’onnipotenza, non la distanza. Santificare il suo nome significa essere coerenti e il nome è misericordia. Un’anziana che si voleva confessare, ricorda il Papa, gli disse: «Se Dio non perdonasse tutto, il mondo non esisterebbe». Così «protagonista della storia è il mendicante», materiale e spirituale, «dire “venga il tuo regno” è mendicare». La sua volontà è che «nulla vada perduto». Il pane quotidiano, la remissione dei debiti. La durezza dei Dottori della legge sta nel sentirsi giusti, «potrai perdonare se hai avuto la grazia di sentirti perdonato». Di qui le riflessioni vertiginose sulla sorte di Giuda e il male. Non è mai Dio a tentarci, quell’«indurci» è «una traduzione non buona», dice Francesco, nell’ultima versione Cei si legge «non abbandonarci». Il senso è: «Quando Satana ci induce in tentazione, tu, per favore, dammi la mano, dammi la tua mano».
Da "www.corriere.it"

mercoledì 6 dicembre 2017

Padre nostro:nuova versione della preghiera

“Non indurci in tentazione, ma liberaci dal male”. Recitano così le ultime parole del Padre nostro, la preghiera più celebre del mondo cristiano, secondo il testo introdotto 50 anni fa dal Concilio Vaticano II. Questa frase, tuttavia, è contestata da molti. I teologi, poi, ne hanno discusso per anni.
Una nuova traduzione integrale in francese della Bibbia — pubblicata nel 2013 e riconosciuta dal Vaticano — ha corretto lo scritto modificando il verbo da “non indurci in tentazione” a “non farci cadere in tentazione”. Dio, così, da “tentatore” diventa “protettore”. La versione “corretta” della preghiera è (e sarà) recitata in tutte le chiese francesi in occasione della prima domenica dell’Avvento e cancella l’idea di Dio che spinge i fedeli verso il peccato per vedere se riescono ad evitarlo.
“La diocesi di Lugano, ovviamente, deve adeguarsi a quanto avviene in Italia”, ha detto il vescovo Valerio Lazzeri ai microfoni della RSI. “La tempistica dell’introduzione di questa nuova formula dipende dalla volontà di promuovere una nuova edizione del missale da parte della Conferenza episcopale italiana. Il cambiamento è minimo e questa rinnovata frase, che ha sempre provocato discussioni, non credo che creerà troppi problemi”, ha aggiunto.
I vescovi francesi avrebbero dovuto aspettare la pubblicazione dei nuovi messaggi previsti nel 2019 — che porteranno anche altri cambiamenti —, ma la Conferenza episcopale ha deciso di accelerare i tempi, almeno per il Padre nostro. I cattolici del Belgio e del Benin hanno adottato la nuova versione già dalla Pentecoste, in giugno, come molte parrocchie francesi.

martedì 5 dicembre 2017

Premio Nobel per la pace 2017

AFP ha riferito che gli ambasciatori degli Stati dotati di armi nucleari, ad eccezione di Russia e Israele, boicotteranno la cerimonia del Premio Nobel per la pace che si terrà a Oslo, in Norvegia, il 10 dicembre. Durante questa cerimonia l’ICAN (Campagna Internazionale per l’Abolizione delle armi Nucleari) riceverà formalmente il premio dall’Istituto Nobel.

Beatrice Fihn, in qualità di direttore esecutivo di ICAN, e Setsuko Thurlow, superstite della bomba di Hiroshima, riceveranno insieme il premio per gli sforzi profusi, che risalgono in realtà fin dagli inizi dell’esistenza delle armi nucleari, al fine di bandire la bomba.

L’impulso per l’assegnazione del premio di quest’anno è stato il Trattato, recentemente firmato, sul divieto delle armi nucleari, che l’ICAN ha fatto tanto per ottenere e che gli Stati dotati di armi nucleari hanno fatto tanto per cercare di evitare. Il loro fallimento ora si è trasformato come nella storia della volpe e dell’uva, dato che i loro ambasciatori devono stare lontani dalla cerimonia che normalmente riunisce a Oslo i diplomatici di alto livello.

Secondo il pezzo di AFP “hanno chiaramente ricevuto l’istruzione di esprimere le loro riserve nei confronti di ICAN e del trattato globale, finalizzato al divieto delle armi di distruzione di massa, ha detto il capo dell’ Istituto Nobel, Olav Njolstad”.

Questa non è una sorpresa, se si considera che Stati Uniti, Regno Unito e Francia, al momento dell’approvazione del testo del trattato, hanno rilasciato una dichiarazione che inizia così: “Francia, Regno Unito e Stati Uniti non hanno partecipato ai negoziati sul trattato di divieto delle armi nucleari. Non abbiamo intenzione di firmare, ratificare o prendervi parte. Pertanto, non vi sarà alcuna modifica degli obblighi giuridici dei nostri paesi in materia di armi nucleari”.

Secondo l’Istituto Nobel, gli ambasciatori di India e Pakistan saranno in viaggio nel momento della cerimonia, mentre la Cina non partecipa alla premiazione dal 2010, anno in cui un dissidente cinese è stato insignito del premio. La Corea del Nord non ha un’ambasciata a Oslo.

La cerimonia di premiazione giunge in un altro momento di forte tensione nucleare, con la Corea del Nord che sperimenta diversi componenti di una bomba nucleare e sembra sempre più fiduciosa di poter colpire qualsiasi bersaglio negli Stati Uniti.

Vito Mancuso

<<La forza profetica di Francesco è così evidente che anche il mondo laico lo ascolta e lo considera un punto di riferimento. Nella Chiesa, però, una parte lo segue, un'altra lo avversa. Le tensioni sono diventate fortissime. C'è il rischio che il treno della Chiesa si spezzi.>>

sabato 2 dicembre 2017

La nuova figura di prete: il pendolare-condiviso!

Professor Franco Garelli, dove scompare la figura tradizionale del parroco guida unica della chiesa locale, quali cambiamenti avvengono? 
«Passare da un unico responsabile, un unico pastore, figura di riferimento anche dal punto di vista sociale, a una gestione collegiale di più preti occupati in più parrocchie, oppure a un unico parroco condiviso con altre parrocchie, può portare disorientamento nei fedeli, soprattutto i più anziani. Di sicuro è una novità che interpella la fede, perché la rende meno comoda. Ma il laicato è chiamato ad abituarsi e anche a valorizzare queste dinamiche nuove».
E il parroco? Quanto gli si complica la vita? 
«I parroci di più comunità spesso non hanno il coraggio di chiedere di costituire un’unica realtà parrocchiale, con una chiesa “centrale” e le altre “satelliti”. Allora fanno “salti mortali” per celebrare messa in tutto il territorio: questo crea problemi grossi. Diventano preti pendolari, rischiando di disperdersi, di vivere a spicchi». 
Stiamo assistendo a un declino della Chiesa in Italia?
«No. Queste situazioni possono anche essere un arricchimento, già solo per il fatto che non ci si abitua troppo al parroco. Ci si può confrontare con le sensibilità diverse dei vari sacerdoti che ruotano. C’è sicuramente chi fa fatica ad abbandonare il vecchio modello, ma la possibilità del confronto tra realtà diverse vicine territorialmente, spesso della stessa città ma fino a poco tempo prima separate da steccati campanilistici, può essere stimolante per tutti. Si può sperimentare la bellezza di avere progetti comuni». 
Quindi nessun dramma?
«Chi vuole la messa sotto casa vive con inquietudine le unità o le comunità pastorali tra più parrocchie. Ma la religiosità è anche vita comunitaria aperta, e se c’è dinamismo tra realtà diverse tutto può diventare più incoraggiante. Se si riesce a creare aggregazione tra le parrocchie della zona si evita di rendere viziata l’aria della propria comunità a causa della chiusura, e vivere così momenti – spirituali e di festa – nuovi e piacevoli». 
La gestione delle parrocchie affidata ai laici è una via percorribile?
«Sì. Bisogna dare loro più spazio soprattutto per i ruoli organizzativi, amministrativi ed educativi. Il parroco deve imparare a delegare, mantenendo funzioni più di coordinamento e di garante, focalizzandosi sull’aspetto spirituale; dovrebbe essere attorniato da laici responsabili nei vari campi. Senza dimenticare l’associazionismo ecclesiale, un bacino da cui si può sempre attingere. Ovviamente c’è il pericolo di una mancanza di sintonia tra laici e parroco, o quello delle fazioni tra laici, ma sono rischi da correre».
La Chiesa dovrebbe prendere altre iniziative?
«L’invecchiamento del clero italiano dovrebbe portare a ristrutturazioni a livello delle diocesi. Per esempio trasferimenti: c’è molto più clero al Sud che al Nord. Oppure andrebbe sfoltito l’elevato numero di preti impegnati in apparati amministrativi delle diocesi: accorpandole si eviterebbe la moltiplicazione degli uffici e così si libererebbero risorse sacerdotali».
Intervista a Franco Garelli, di Domenico Agasso jr., in “La Stampa” del 25 novembre 2017

venerdì 1 dicembre 2017

Mancano i preti e ci si accorge che esistono i laici!

«I conti sono presto fatti: abbiamo una media di tre ordinazioni e una decina di decessi l’anno. Nei
miei sette anni a Torino i preti sono passati da 550 a meno di 480». L’arcivescovo, monsignor Cesare Nosiglia, puntualizza i numeri del suo clero come premessa per un altro numero. Capace, questo, di riassumere come stia cambiando la Chiesa, la sua organizzazione. Come la crisi delle vocazioni non possa più essere ignorata dai fedeli. «In Diocesi - prosegue l’arcivescovo - cento parrocchie non hanno più il parroco residente. Il parroco vicino ha accettato di assumere l’incarico anche per la comunità rimasta scoperta. Io dico che è come un padre con due figli. Ne aveva uno, poi ne è nato un altro».
«Per il sacerdote - riflette Nosiglia - significa senza dubbio moltiplicare le responsabilità. Ma il lavoro che tutti stanno facendo, gradualmente, con molta pazienza e coinvolgimento della gente, è
finalizzato a una collaborazione con i laici sempre più intensa in tutti gli ambiti pastorali. Per favorire una pastorale giovanile comune, molto importante perché i giovani si muovono nel quartiere e possono fare molto per amalgamare». Un altro ambito è la carità. «Se le Caritas e le San Vincenzo lavorano insieme vedono meglio le povertà del territorio, possono usare al meglio le risorse», dice l’arcivescovo. «Tutto questo - prosegue - bisogna farlo anche come Unità Pastorali, che in città comprendono le 3-4 parrocchie di un quartiere: per dare risposte omogenee. Sempre con il forte apporto dei laici, che ci sono: diaconi, ministri dell’eucaristia, educatori. I laici devono rendersi conto di essere indispensabili. E che tutto si fa in vista della missionarietà della Chiesa. La singola parrocchia non è in grado di andare verso i lontani, le periferie esistenziali. Insieme si può essere invece evangelizzatori efficaci».
«È più facile avere una comunità di ventimila persone piuttosto che due da diecimila con tutto il peso di doppie questioni amministrative. I preti sono oberati, le questioni pratiche portano via tempo. Noi abbiamo attivato un gruppo di esperti: commercialisti, architetti, che possano supportarli in diversi ambiti. È un discorso che abbiamo fatto anche a livello di Cei. Sappiamo che i sacerdoti vanno aiutati e speriamo di arrivarci. Intanto ogni giorno ringrazio i parroci e tanti altri che lavorano con grande generosità nelle loro parrocchie amando profondamente i loro fedeli e sostenendo il carico di impegni sempre più ampio e pressante. Io stesso imparo da loro ad affrontare serenamente le difficoltà che a volte debbo incontrare nel mio ministero»
Intervista a Cesare Nosiglia, a cura di Maria Teresa Martinengo in “La Stampa” del 25 novembre 2017

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