giovedì 17 ottobre 2013

IL SINODO CHE VORREI

Mi piacerebbe che con i vescovi in Vaticano fossero invitate davvero le famiglie e non solo i loro problemi. Portando in dote il carisma di chi sa «fare casa»
Mi piacerebbe pensarlo intorno a una tavola, a condividere un pasto, in cui magari ognuno ha portato qualcosa per aiutare chi ospita. Mi piacerebbe pensarlo con la presenza dei bambini, che poi dopo "vanno a giocare di là" e "i grandi" parlano. E che la benedizione prima di iniziare la proponga e la guidi una coppia di sposi.
Fantastico un po', ma solo un po'. Sto pensando al prossimo Sinodo straordinario sulla famiglia - "Le sfide pastorali della famiglia nel contesto dell'evangelizzazione" - che si svolgerà a Roma tra il 5 il 19 ottobre 2014. Un'occasione bellissima, che mi entusiasma.
Mi piacerebbe che la famiglia e il matrimonio, per essere davvero "soggetti" del discorso, per essere protagonisti, come si scrive nei documenti, non divenissero oggetto di riflessioni e decisioni figlie solo della preoccupazione.
La questione dei divorziati risposati, urgente soprattutto per le persone che vivono questa condizione, o anche di riflesso le implicazioni di novità sul celibato dei sacerdoti, se messe troppo in cima alla lista delle priorità, rischiano di confermare uno stereotipo strisciante che non amiamo divulgare nella Chiesa: ossia che, in fondo, questi pazzi che si sposano e loro famiglie sono un po' una scocciatura, un intralcio.
E invece no! Alcuni, anche tra vescovi e sacerdoti, stanno scoprendo che la Chiesa ha bisogno degli sposi, del loro matrimonio e della loro famiglia. E non solo come santino da metter lì ogni tanto, che fa tanto cattolico; o come manovalanza "laica" quando serve e come capita, ma persino come guida e maestra su alcuni sentieri, vecchi e nuovi.
Mi limito a due idee sul sinodo che vorrei.
Per "difendere" la famiglia ed elevare davvero il matrimonio a vocazione complementare...si investa nella formazione, nel discernimento dei giovani e nel successivo sostegno alle coppie, tanto quanto avviene per religiosi/e e sacerdoti. Che poi è molto probabile che in una pastorale così esca fuori un gran bel prete da un gruppo di giovani coppie; o un matrimonio felice da uno o due che si pensavano, sognanti, come missionari in Brasile.
In secondo luogo... cari vescovi e parroci, lasciate agli sposi suggerire come pensare i tempi e gli spazi delle comunità cristiane, non solo quelli della segreteria parrocchiale o del corso di preparazione al Battesimo.
E lasciate che gli sposi, che vivono nel mondo, vi indichino cosa e chi guardare fuori dai confini della parrocchia e vi aiutino: ci sono tante solitudini e tanti sogni che meritano ascolto e che non bazzicano i sagrati oppure hanno smesso perché si sentono inutili in parrocchie già "occupate". Bisogna investirci però.
E a qualche coppia più matura e disponibile, magari, proponete di fare comunità con uno o più sacerdoti: che anche loro hanno bisogno di comunità e di famiglia.
Immagino case accoglienti con l'odore del sugo. Case con la porta aperta ma anche spazi di intimità e di ascolto. Case senza l'obbligo delle buone maniere a tavola e senza il salotto buono da "guardare e non toccare". E possibilmente senza pettegolezzi.
Sarà un bellissimo Sinodo. Lo sento.

Simone Sereni su VINO NUOVO.




LE FUGHE DEL ...POPOLO DI DIO.

La diocesi di Friburgo prepara un percorso per i divorziati risposati che li porti a riaccostarsi alla Comunione e la Santa Sede chiude subito il discorso. Subito tutte le agenzie hanno rilanciato la notizia data da Der Spiegel che presentava un lungo vademecum della diocesi di Friburgo - guidata dal dimissionario (per motivi di età) monsignor Robert Zoellisch, che è anche presidente della Conferenza episcopale tedesca - per accompagnare il cammino spirituale di separati, divorziati e divorziati risposati.
Ma a fare clamore è stata la possibilità prevista di arrivare a riammettere ai sacramenti i divorziati risposati. Immediata la replica del portavoce vaticano padre Federico Lombardi, che ha parlato di «una fuga in avanti, che non è ufficialmente espressione dell'autorità diocesana». In altre parole, il documento sarebbe soltanto frutto della Commissione pastorale diocesana per la famiglia, diventato pubblico senza che il vescovo lo abbia visto. Versione ufficiale non proprio convincente, visto che l’anno scorso ben 120 preti della diocesi di Friburgo avevano firmato un documento in cui si contestava la disciplina ecclesiale che vieta la Comunione ai divorziati risposati. In ogni caso padre Lombardi ha precisato che «non cambia nulla, non c’è alcuna novità per i divorziati risposati».

martedì 15 ottobre 2013

FUTURO//PRESENTE

L'uomo non pensa mai all'avvenire se non quando gli dà noia il presente.

Francesco Algarotti

PACE-CUORE

La pace non può regnare tra gli uomini se prima non regna nel cuore di ciascuno di loro.

Karol Wojtyla

AMORE

Sembra un paradosso, ma nell'amore due esseri diventano uno, e tuttavia restano due.

Erich Fromm

LA VERITA'

Talvolta la verità di una cosa non sta tanto nel pensiero di essa quanto nel modo di sentirla.

Stanley Kubrick






































































SOSTENIAMO PIETRO ORLANDI


E' partita l'idea di coinvolgere i circa 90 mila iscritti per inviare una cartolina illustrata della propria città in cui sollecitare Papa Francesco a ricevere Pietro Orlandi e contribuire a chiarire l'enigma del rapimento della sorella Emanuela.

La data per l’invio delle cartoline da tutt'Italia: il 16 ottobre.

Il testo può essere libero o riportare la seguente dicitura "Santo Padre, accogli la richiesta di Pietro Orlandi di poterti incontrare. Aiutalo a far conoscere la verità sul rapimento della cittadina vaticana EMANUELA, sua sorella”

Pagina facebook:

Appello Petizione Al Papa Per La Verità Su Emanuela Orlandi


domenica 13 ottobre 2013

PIETRO PAROLIN,NUOVO,MA NON TROPPO,SEGRETARIO DI STATO

Una chiara discontinuità, ma in forte sintonia con il suo predecessore. Si può sintetizzare così la scelta del nuovo segretario di Stato vaticano fatta da papa Francesco. La nomina a sostituto del cardinale Tarcisio Bertone dell’arcivescovo Pietro Parolin - 58 anni, vicentino, attualmente nunzio in Venezuela ma per molti anni già “ministro degli Esteri” in Vaticano.
La discontinuità è evidente: con Parolin si torna a un segretario di Stato che viene dalla carriera diplomatica, dopo la parentesi di Bertone, che tante critiche e polemiche ha sollevato. Il nuovo segretario di Stato viene descritto come un fedele e disponibile servitore della Chiesa qualsiasi sia il compito che gli viene affidato, e anche un capace diplomatico a cui viene attribuito ad esempio il merito del miglioramento delle relazioni della Chiesa con il Vietnam.
Il cambiamento peraltro ha interessato soltanto la “testa” della Segreteria di Stato perché gli altri incarichi sono stati confermati: il sostituto Giovanni Angelo Becciu, il segretario per i rapporti con gli Stati Dominique Mamberti, e il sotto-segretario ai rapporti con gli Stati Antoine Camilleri. Nessuna rivoluzione, dunque, che tanti invece prevedevano e auspicavano, anche se il cambiamento della Curia è solo all’inizio.
Peraltro lo stesso cardinal Bertone rimane – almeno per ora – a capo della Commissione cardinalizia di vigilanza sullo Ior, il che significa che la sua era non è ancora finita. Le vicende dello Ior hanno rappresentato infatti uno dei punti più controversi durante il suo mandato: basti ricordare gli scandali finanziari che sono emersi recentemente; il tentativo di coinvolgere l’istituto nel mega-progetto di creazione di un polo sanitario vaticano, passando dal salvataggio dell’ospedale San Raffaele (operazione poi fortunatamente fallita); lo stop a quel processo di trasparenza voluto da Benedetto XVI, con tanto di ignominioso siluramento dell’allora presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi. E’ perfino banale affermare che finché Bertone rimarrà in quella posizione sarà molto difficile, se non impossibile, fare luce su tutte queste vicende.
Detto questo, però, nei criteri di scelta si deve notare una forte sintonia di papa Francesco con chi l’ha preceduto. Non bisogna infatti dimenticare che anche papa Benedetto XVI aveva iniziato il suo pontificato all’insegna della riforma della Curia vaticana, e la scelta del cardinale Bertone quale segretario di Stato era un forte segnale di rinnovamento, per non dire di sfiducia nei confronti dei curiali. Bertone infatti non veniva dalla “scuola” della diplomazia vaticana, e la sua nomina significava anche la volontà di privilegiare l’evangelizzazione rispetto alle preoccupazioni “politiche” tipiche degli ambienti diplomatici. Inoltre, papa Ratzinger aveva scelto qualcuno che conosceva bene e con cui aveva un rapporto di assoluta fiducia, visto che Bertone era da anni segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede quando lui ne era il prefetto.
Così la guida della Segreteria di Stato da parte del cardinale Bertone si è trasformata in un Calvario per il papa, preso tra il poter contare su una persona di fiducia e la pressione crescente di vescovi e cardinali che gli chiedevano di allontanare il cardinal Bertone dalla segreteria di Stato.
Proprio per quanto successo, ora papa Francesco si trova a dover procedere nella riforma della Curia, con ancora più urgenza e maggiori pressioni. E anche lui sembra muoversi sulla base di conoscenze personali e sui consigli di una ristretta schiera di persone di cui si fida o pensa di potersi fidare.Per la Segreteria di Stato ha puntato su una persona di esperienza diplomatica e di provata capacità di lavorare con tutti, e in ogni caso monsignor Parolin non godrà di tutto il potere e libertà di fare e disfare che invece si era garantito il suo predecessore.
C’è dunque solo da pregare perché i nuovi collaboratori assecondino davvero il Papa nel compito di portare Cristo ovunque, anche nelle più lontane periferie esistenziali.
Riccardo Cascioli

venerdì 11 ottobre 2013

ANTICA SAGGEZZA

A chi opera con calma, ogni cosa è chiara e sicura; la fretta è sconsiderata e cieca.
Tito Livio

PENSIERO

Il tempo per leggere,
come il tempo per amare,
dilata il tempo per vivere.

Daniel Pennac

INTERVISTA AL RETTORE DELL'UNIVERSITA' CATTOLICA DI CORDOBA

Collegialità, sacerdozio femminile, accesso ai sacramenti per omosessuali e divorziati. Sono queste, per il gesuita Rafael Velasco, rettore dell’Università cattolica di Córdoba, in Argentina, le riforme urgenti che la Chiesa dovrebbe abbracciare. Così si è espresso in una lunga e articolata intervista concessa al giornalista argentino Mariano Saravia (e diffusa sul profilo Facebook di quest’ultimo ad agosto) in occasione dell’annuncio della sua rinuncia al rettorato – effettiva a partire da marzo 2014 –, in cui ha toccato tutti i temi caldi di questa stagione ecclesiale, a partire dalla riforma della Curia, «l’ultima corte medievale viva e vegeta nel XXI secolo».
«Quando papa Francesco non si è recato al concerto (offerto dall'Orchestra sinfonica nazionale della Rai in occasione dell'Anno della Fede, ndr) dicendo che non è un principe rinascimentale ho cominciato a pensare che si sta muovendo contro questo stato di cose e contro l’oscurità che genera», ha detto p. Velasco. «Qui in Argentina, e anche a Cordoba, è necessaria una maggiore trasparenza perché c’è una segretezza inopportuna». Un esempio? La nomina dei vescovi che dovrebbe essere più partecipata dalla comunità: «Non dico democratizzare al punto che le persone si esprimano attraverso un voto, ma per lo meno che esprimano le proprie opinioni», che «le si ascolti». «Alcuni anni fa – racconta il rettore – mi toccò rispondere a una richiesta da parte del nunzio il quale, sottolineando la segretezza della questione, mi chiedeva informazioni in merito a una persona che stava per essere nominata come vescovo. Io risposi dicendo di chiedere ai suoi parrocchiani visto che nessuno poteva conoscerlo meglio. Non mi interpellarono più», conclude ridendo. «Quello che chiedo è che si realizzi una maggiore collegialità nella Chiesa, che è ciò che ha stabilito il Concilio Vaticano II. Che non governi solo il papa, ma il papa e i vescovi». «Mi sembra che papa Francesco vada in questa direzione», aggiunge p. Velasco sottolineando la necessità di passare dalle parole ai fatti: «La Chiesa ha un’agenda in sospeso molto importante, soprattutto con se stessa». «Se vuole essere segno che Dio si avvicina a tutti, la prima cosa che deve fare è non essere escludente. Ci sono riforme importantissime da fare: per esempio che i divorziati siano ammessi alla comunione, che se un omosessuale vive stabilmente in coppia possa fare la comunione»; «diciamo che non ci devono essere differenze tra uomo e donna, diciamo che la donna è importante, però la escludiamo dal sacerdozio».
E le parole del papa sui gay durante la Gmg? «Se il papa è il leader spirituale e mi dice che non li giudichiamo, e quindi non li condanniamo, bene vorrei chiedergli che ruolo avranno d’ora in poi i gay nella comunità ecclesiale». «Credo che se tiriamo le conclusioni logiche di questo discorso dovremmo riabilitare totalmente per quanto riguarda i sacramenti, a cominciare dalla comunione, una persona omosessuale che vive secondo le stesse regole di amore e fedeltà che chiediamo agli eterosessuali».
Quanto all’invito rivolto dal papa ai giovani, agli anziani e ai poveri di non restare ai margini? «Bisognerebbe dirlo ai vescovi», commenta p. Velasco. «Nella società è lo stesso: il problema non è dei poveri, il problema è di chi li esclude, di chi impedisce loro l’accesso alla terra, all’educazione, alla giustizia. A questi bisogna rivolgersi e dire chiaramente che sono ingiusti». «Quando dico questo mi dicono che sono politicizzato. Ma nello scontro tra un forte e un debole, se non prendo posizione di fatto è come se la prendessi, a favore del forte. La neutralità non è possibile. L’inganno teologico, in gran parte della Chiesa, è credere che sia possibile l’apoliticità».
Insomma, anche rispetto alle aspettative suscitate da questo inizio pontificato, «bisogna essere cauti», secondo p. Velasco. «Nonostante guardi con speranza alle cose che sta facendo e aspetto cambiamenti concreti, non bisogna dimenticare che Bergoglio non ha mai visto con simpatia la Teologia della Liberazione. Questa è la verità». «Lui va nelle villas miserias, ha un contatto diretto con il popolo, il che è positivo, però non è rivoluzionario in alcun modo». «Credo – conclude – che con il tempo, superato il polverone, vedremo chi è Francesco. Per esempio che cosa intende dire con l’espressione “Chiesa povera per i poveri”, perché questa frase può voler dire diverse cose. Può significare rafforzamento dei poveri per porre in essere movimenti di liberazione accompagnati dalla Chiesa, ma può significare anche un approccio più assistenziale e non di trasformazione della società». (ingrid colanicchia su Adista)

giovedì 10 ottobre 2013

MARTINI,IL SOGNO ININTERROTTO DI UNA CHIESA COLLEGIALE,di Aldo Maria Valli

Il 7 ottobre del 1999 in Vaticano si tiene l’assemblea per l’Europa del Sinodo dei vescovi e quando il cardinale Carlo Maria Martini prende la parola il suo primo pensiero è per l’amico Basil Hume, morto il 17 giugno di quell’anno. Il monaco benedettino dal sorriso gentile, tifoso del Newcastle e autore di libri come Un cardinale che cammina al buio, se n’è andato all’età di 76 anni, ucciso da un tumore all’addome. Nel 1998, al compimento dei 75 anni, aveva chiesto a Giovanni Paolo II di poter tornare in convento ad Ampleforth per vivere gli ultimi anni nella preghiera e nella contemplazione, ma dal Vaticano era arrivato l’ordine di restare al suo posto, quello di arcivescovo di Westminster. Nelle assemblee sinodali, ricorda Martini, Hume incominciava i suoi interventi con le parole «I had a dream», «Ho fatto un sogno», e «anch’io – aggiunge l’arcivescovo di Milano – in questi giorni ho avuto un sogno, anzi parecchi sogni».
Ciò che Martini dice in quel giorno di ottobre nell’aula del Sinodo rappresenta una sintesi efficace del suo pensiero ed è un’indicazione per il futuro della Chiesa (testo integrale in Adista n. 73/99, ndr). A 72 anni, avvicinandosi a sua volta al limite dei 75 e guardando già a Gerusalemme, la città santa nella quale desidera fortemente trascorrere l’ultima parte della sua vita terrena, il cardinale tocca tre punti: l’ecclesiologia di comunione, ovvero la necessità, alla luce del Concilio Vaticano II, di un confronto tra i vescovi sulle questioni più pressanti per la vita della Chiesa, la centralità della comunità parrocchiale rispetto alla crescita dei movimenti ecclesiali, e infine il rapporto con la Sacra Scrittura.
È un discorso breve, com’è da abitudine al Sinodo, ma va analizzato con attenzione perché attraverso rapidi accenni Martini esprime ciò che veramente gli sta a cuore e lascia una consegna che oggi è diventata più che mai attuale.
Martini chiede per la Chiesa, in presenza di tante sensibilità diverse a seconda dei contesti culturali, la fine del centralismo e l’inizio di una nuova era all’insegna di un’autentica collegialità. Chiede, precisamente, che si proceda a un «confronto collegiale e autorevole fra tutti i vescovi su alcuni temi nodali» emersi dopo la fine del Concilio Vaticano II. Non è un sogno rivoluzionario: si tratta semplicemente di applicare la lezione conciliare. Eppure la proposta di Martini viene guardata per lo più con sospetto, tanto che il Vaticano si guarda bene dal diffondere il testo.
Il cardinale non si limita al metodo. Accenna infatti anche ai temi che dovrebbero essere al centro di un confronto ampio e sincero tra i pastori: la carenza di ministri ordinati, il ruolo della donna nella società e nella Chiesa, la disciplina del matrimonio, la visione cattolica della sessualità, la prassi penitenziale, i rapporti con le Chiese sorelle dell'ortodossia e più in generale il bisogno di ravvivare la speranza ecumenica, il rapporto tra democrazia e valori e tra leggi civili e legge morale. Sullo sfondo c’è una domanda: in che modo Gesù Cristo, vivente nella Chiesa, è oggi sorgente di speranza?
Per Martini la parrocchia mantiene un ruolo centrale. Si tratta di vedere in quale modo può continuare ad attualizzare, «col suo servizio profetico, sacerdotale e diaconale, quella presenza del Risorto nei nostri territori che i discepoli di Emmaus poterono sperimentare nella frazione del pane». Nel corso del Sinodo, rileva, si è sottolineato l’importante ruolo dei movimenti ecclesiali nel ridare un’anima spirituale alla società, «ma è necessario che i membri dei movimenti e delle nuove comunità si inseriscano vitalmente nella comunione della pastorale parrocchiale e diocesana, per mettere a disposizione di tutti i doni particolari ricevuti dal Signore e per sottoporli al vaglio dell'intero popolo di Dio». Infatti, «dove questo non avviene, ne soffre la vita intera della Chiesa, tanto quella delle comunità parrocchiali quanto quella degli stessi movimenti». Al contrario, quando invece «si realizza una efficace esperienza di comunione e di corresponsabilità la Chiesa si offre più facilmente come segno di speranza e proposta credibile alternativa alla disgregazione sociale ed etica da tanti qui lamentata».
Ora, anche se il linguaggio martiniano è diverso da quello bergogliano, è davvero difficile non scorgere una profonda affinità tra il “sogno” del cardinale e quanto papa Francesco sta predicando: la collegialità all’interno di una Chiesa povera, accogliente e misericordiosa, l’idea che la consultazione non sia da considerare un pericolo ma un’opportunità, la richiesta di uscire senza timore, la disponibilità al confronto con le trasformazioni sociali e culturali.Da Martini veniva una provocazione salutare e la prova sta nel fatto che, quasi quindici anni dopo, la Chiesa è stata costretta, in seguito a vicende drammatiche, a prendere atto della validità di quel “sogno”, del quale oggi si sta facendo interprete un altro gesuita.
È un passaggio, quello maturato con l’elezione di Francesco, che il cardinale Martini – morto un anno fa, il 31 agosto 2012 – non ha potuto vivere. Fosse stato in vita, ne avrebbe gioito, anche se sicuramente, con la sua signorilità, avrebbe evitato di rivendicare primogeniture. Di certo il suo testamento spirituale, con quell’accenno alla Chiesa che è indietro di duecento anni, ha fatto breccia nella maggioranza dei cardinali elettori. E siamo sicuri che ora il padre Carlo Maria sorride e continua nella sua preghiera di intercessione.

IMU E CHIESA

L’IMU NON C’È PIÙ. MA ANCHE CON LA SERVICE TAX LA CHIESA CONTINUA A NON PAGARE
Nell’annoso e confuso dibattito su Imu sì, Imu no, Imu forse, una sola cosa sembra assolutamente certa: gli immobili di proprietà ecclesiastica – e delle organizzazioni senza fini di lucro – continueranno ad essere esentati dal pagamento dell’imposta.
Il presidente del Consiglio Enrico Letta, presentando la nuova Service tax – la tassa che dovrebbe sostituire ed inglobare una serie di imposte locali, da quelle sulla casa (appunto l’Imu) a quelle sulla spazzatura (Tarsu) – è stato esplicito: «C’è tutto il tema dei locali legati alle attività non profit del Terzo settore (compresi quindi gli immobili di proprietà ecclesiastica, ndr) che sono stati pesantemente penalizzati dall’Imu», ha detto Letta nella conferenza stampa di presentazione della nuova tassa. «Nella Service tax vogliamo completamente alleggerirla, perché crediamo che questo passo sia importante».
La traduzione del lessico coperto, e ancora un po’ democristiano, del presidente del Consiglio è inequivocabile: esenzione totale. Si torna quindi alle origini, quando tutti gli immobili di proprietà degli enti ecclesiastici non pagavano una lira, perché all’epoca c’era ancora la lira.
La storia dell’esenzione Ici è infatti piuttosto lunga e travagliata. Venne introdotta fin da subito, nel 1992, con la nascita dell’imposta. Però a metà degli anni ‘90 il Comune dell’Aquila avviò un contenzioso con l’Istituto delle suore zelatrici del Sacro Cuore e gli intimò il pagamento dell’Ici per alcuni immobili usati come casa di cura per anziani e pensionato per studentesse universitarie. Ne scaturì una battaglia di ricorsi e contro-ricorsi fra le religiose e l’amministrazione comunale che, dopo una trafila legale durata quasi dieci anni, il Comune vinse: la Corte di Cassazione stabilì che l’attività delle suore non era né di culto né benefica – come prevedeva la legge – ma commerciale, perché le anziane e le studentesse pagavano l’ospitalità, quindi l’Ici andava versata.
A quel punto ci fu l’intervento risolutivo di Silvio Berlusconi (presidente del Consiglio) e Giulio Tremonti (ministro dell’Economia), al governo nel 2005, che modificarono la legge: erano esentati dall’Ici tutti gli immobili di proprietà ecclesiastica in cui si svolgevano anche attività commerciali purché «connesse a finalità di religione o di culto». Un condono tombale.
L’anno successivo, vinte le elezioni, Romano Prodi (presidente del Consiglio) e Pierluigi Bersani (ministro dello Sviluppo economico) corressero la rotta – anche perché l’Unione europea si stava interessando al caso sulla base di una denuncia presentata dai Radicali per improprio aiuto di Stato – giocando con gli avverbi: sono esentati dall’Ici gli immobili di proprietà ecclesiastica (e degli enti senza fini di lucro) destinati al culto e allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive purché «non abbiano esclusivamente natura commerciale». Il «non esclusivamente» sanò alcune situazioni limite, ma mantenne intatti i privilegi delle migliaia di conventi trasformati in alberghi – gli stessi ricordati da papa Bergoglio durante la sua visita al Centro Astalli di Roma lo scorso 10 settembre: «Carissimi religiosi e religiose, i conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi. I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati» –, case di riposo, cliniche e scuole private, tanto che lo stesso Bersani, l’inventore della formula avverbiale, ammise che la norma lasciava spazio ad una «casistica di confine», all’interno della quale era possibile ottenere l’esenzione dal pagamento.
Con la trasformazione dell’Ici in Imu, sembrava che l’esenzione potesse essere abolita: si sarebbero dovute delimitare le superfici in cui venivano svolte attività sociali e di culto distinguendole da quelle destinate ad attività commerciali, per esentare le prime e far pagare le seconde. Ma i tempi troppo stretti non lo hanno permesso e così l’esenzione è rimasta in vigore anche per il 2012. E sarebbe restata anche negli anni successivi perché, con il governo Monti ancora formalmente in carica benché le elezioni politiche si fossero svolte la settimana prima, la risoluzione n. 3/DF del 4 marzo 2013, firmata dal direttore generale delle Finanze, Fabrizia Lapecorella (nomen omen, avrebbero detto i romani), chiariva che per gli enti ecclesiastici e non profit la scadenza del 31 dicembre 2012 per adeguarsi alla nuova normativa che prevedeva la suddivisione degli spazi commerciali/non commerciali «non deve considerarsi perentoria», ma poteva essere assolta «entro il 31 dicembre del quinto anno». Cinque anni in più, quindi, per riscrivere i loro Atti costitutivi e i loro Statuti, passaggi obbligatori per godere dell’esenzione dal pagamento dell’Imu sulle porzioni degli edifici adibiti ad uno scopo non commerciale che così risultava di fatto garantita fino a tutto il 2017.
Poco dopo, il 28 aprile 2013, nasce il governo Letta-Alfano che prima sospende il pagamento dell’Imu e poi abolisce l’imposta inserendola nella nuova Service tax, da cui gli enti ecclesiastici e non profit, come ha detto il presidente del Consiglio, saranno esentati. A meno che i conti pubblici in agonia non costringano il governo a tornare sui suoi passi.
È impossibile quantificare con precisione il patrimonio immobiliare della Chiesa in Italia. Una parte è di proprietà vaticana – in particolare dell’Apsa (Amministrazione del patrimonio della sede apostolica) e di Propaganda Fide (ovvero la Congregazione vaticana per l’Evangelizzazione dei Popoli) –, quindi formalmente di uno Stato estero per cui i dati sono inaccessibili; il resto è disperso in una miriade di enti ecclesiastici (diocesi e arcidiocesi, istituti per il sostentamento del clero, istituti religiosi, capitoli, parrocchie, confraternite, pie società ecc.). Una stima esatta quindi è irrealizzabile. La valutazione più attendibile resta quella operata dal Gruppo Re, una società fondata nel 1984 e specializzata nella consulenza e nei servizi immobiliari, finanziari e gestionali agli organismi ecclesiastici: la Chiesa italiana sarebbe padrona del 20% del patrimonio immobiliare italiano. A parte le chiese e gli edifici di culto, si tratta di decine di migliaia di istituti religiosi, conventi, collegi, seminari, canoniche – spesso dismessi e convertiti ad altro uso, da alberghi a case di accoglienza – ma anche palazzi e appartamenti, spesso in zone di pregio, terreni e campi accumulati in 2000 anni di storia o acquisiti recentemente sotto forma di donazioni e lasciti. Tutti questi immobili di proprietà ecclesiastica (ma anche di altri enti catalogati come «senza fini di lucro») destinati «allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive» sono esenti dal pagamento delle tasse, prima Ici e ora Imu. L’Associazione nazionale dei Comuni italiani calcola che le mancate entrate dovute all’esenzione ammonterebbero ad una cifra fra i 400 e i 700 milioni di euro annui.
(luca kocci)

martedì 8 ottobre 2013

CHIAVE DI LETTURA PER CAMBIARE...

Papa Francesco, incontrando i Vescovi brasiliani a Rio durante il suo soggiorno per la Giornata Mondiale della Gioventù dello scorso luglio, ha lanciato nuovi segnali alla Chiesa, è tornato a tracciare un cammino. Dobbiamo riprendere le sue riflessioni, i suoi suggerimenti e ripensare le nostre iniziative alla luce di quelle indicazioni. E’ un vocabolario su cui riflettere.

Unità. Il Papa, ricordando la storia del ritrovamento della statua della Vergine, stimola a procedere nell’unità: “Muri, abissi, distanze presenti anche oggi sono destinati a scomparire. La Chiesa non può trascurare questa lezione: essere strumento di riconciliazione. In Aparecida, sin dall’inizio, Dio dona un messaggio di ricomposizione di ciò che è fratturato, di compattazione di ciò che è diviso”. Poi sottolinea l’importanza della semplicità: “I pescatori coprono quel mistero della Vergine con il manto povero della loro fede. Chiamano i vicini per vedere la bellezza trovata; si riuniscono intorno ad essa; raccontano le loro pene in sua presenza e le affidano le loro cause. Dio si fa portare a casa. Egli risveglia nell’uomo il desiderio di custodirlo nella propria vita, nella propria casa, nel proprio cuore. Egli risveglia in noi il desiderio di chiamare i vicini per far conoscere la sua bellezza. La missione nasce proprio da questo fascino divino, da questo stupore dell’incontro. Parliamo di missione, di Chiesa missionaria. Penso ai pescatori che chiamano i loro vicini per vedere il mistero della Vergine. Senza la semplicità del loro atteggiamento, la nostra missione è destinata al fallimento”.

Non pensare solo alle risorse. Egli continua con altri aspetti importanti. Ad esempio quando ricorda che i risultati dell’impegno pastorale non si basa sulla ricchezza, sull’imponenza delle risorse, ma sulla creatività dell’amore. La tenacia, la fatica, il lavoro, la programmazione, l’organizzazione – dice Francesco –sono necessarie, “ma prima di tutto bisogna sapere che la forza della Chiesa non abita in se stessa, bensì si nasconde nelle acque profonde di Dio, nelle quali essa è chiamata a gettare le reti”.

La grammatica della Semplicità. Un’altra lezione da ricordare è che la Chiesa “non può allontanarsi dalla semplicità, altrimenti disimpara il linguaggio del Mistero e resta fuori dalla porta del Mistero, e, ovviamente, non riesce ad entrare in coloro che pretendono dalla Chiesa quello che non possono darsi da sé, cioè Dio. A volte, perdiamo coloro che non ci capiscono perché abbiamo disimparato la semplicità, importando dal di fuori anche una razionalità aliena alla nostra gente. Senza la grammatica della semplicità, la Chiesa si priva delle condizioni che rendono possibile “pescare” Dio nelle acque profonde del suo Mistero”.

Dialogo. Pone poi, Francesco, la questione (“il mistero difficile”) della gente che lascia la Chiesa; “persone che ritengono che ormai la Chiesa non possa offrire più qualcosa di significativo e importante. Forse la Chiesa è apparsa troppo debole, forse troppo lontana dai loro bisogni, forse troppo povera per rispondere alle loro inquietudini, forse troppo fredda nei loro confronti, forse troppo autoreferenziale, forse prigioniera dei propri rigidi linguaggi, forse il mondo sembra aver reso la Chiesa un relitto del passato, insufficiente per le nuove domande; forse la Chiesa aveva risposte per l’infanzia dell’uomo ma non per la sua età adulta. Di fronte a questa situazione che cosa fare?”

Ed ecco la risposta che è anche indicazione di un impegno, di un invito, di un programma. “Serve una Chiesa che non abbia paura di entrare nella loro notte. Serve una Chiesa capace di incontrarli nella loro strada. Serve una Chiesa in grado di inserirsi nella loro conversazione. Serve una Chiesa che sappia dialogare con quei discepoli, i quali, scappando da Gerusalemme, vagano senza meta, da soli, con il proprio disincanto, con la delusione di un Cristianesimo ritenuto ormai terreno sterile, infecondo, incapace di generare senso”. Ancora l’invito a saper dialogare, a incontrare l’altro alle periferie dell’esistenza (economica, culturale, morale, spirituale, sociale), a fare del dialogo non tanto una modalità, uno strumento, ma soprattutto uno stile, una mentalità, un atteggiamento. Per questo “serve una Chiesa in grado di far compagnia, di andare al di là del semplice ascolto; una Chiesa che accompagna il cammino mettendosi in cammino con la gente; una Chiesa capace di decifrare la notte contenuta nella fuga di tanti fratelli e sorelle da Gerusalemme. Dando calore al cuore dei discepoli di Emmaus, come Gesù”. A chi organizza dibattiti per spiegare i motivi su cui riteniamo si fondi la famiglia e il genere delle persone, un invito a riflettere sullo stile più che sui principi.

Formazione. Poiché, per il Papa, serve una Chiesa capace ancora di ridare cittadinanza a tanti dei suoi figli che camminano come in un esodo, egli si chiede e chiede agli operatori pastorali (e a tutti coloro che si dicono credenti): “siamo ancora una Chiesa capace di riscaldare il cuore? Una Chiesa capace di ricondurre a Gerusalemme? Di riaccompagnare a casa? In Gerusalemme abitano le nostre sorgenti: Scrittura, Catechesi, Sacramenti, Comunità, amicizia del Signore, Maria e gli Apostoli… Siamo ancora in grado di raccontare queste fonti così da risvegliare l’incanto per la loro bellezza?”. Da ciò deriva l’importanza di “promuovere e curare una formazione qualificata che crei persone capaci di scendere nella notte senza essere invase dal buio e perdersi; di ascoltare l’illusione di tanti, senza lasciarsi sedurre; di accogliere le delusioni, senza disperarsi e precipitare nell’amarezza; di toccare la disintegrazione altrui, senza lasciarsi sciogliere e scomporsi nella propria identità”. Serve, quindi, una revisione a fondo delle strutture di formazione e di preparazione del clero e del laicato, dice ancora Francesco. Del resto, se ci pensiamo bene, la formazione laicale è, ultimamente, abbastanza debole o comunque non rispondente alle vere sfide dell’oggi.

Ascolto e pluralismo. Un altro aspetto sottolineato da Papa Francesco riguarda la necessità di sapere (o ritornare ad) essere una chiesa “lenta”: per ascoltare, per ricucire e ricomporre. Una Chiesa non travolta della frenesia dell’efficienza, ma capace di saper accordare il passo con le possibilità dei pellegrini, con i loro ritmi di cammino. Come pure invita a costruire una rete di “testimonianze” che, parlando lo stesso linguaggio, assicurino dappertutto non l’unanimità, ma la vera unità nella ricchezza della diversità. Quello del pluralismo nella Chiesa è uno dei temi sensibili, e difficile da realizzare, ma essenziale se non utilizzato per dividersi o per emarginare le posizioni più critiche o “profetiche”. Uniti nella diversità. “Non tanto diversità di idee per produrre un documento, ma varietà di esperienze di Dio per mettere in moto una dinamica vitale”. Una dinamica per una “pastorale” che non è altra cosa che l’esercizio della maternità della Chiesa “capace di riscoprire le viscere materne della misericordia. Senza la misericordia c’è poco da fare oggi per inserirsi in un mondo di “feriti”, che hanno bisogno di comprensione, di perdono, di amore”.

Libertà, laicità, trascendenza. Una pastorale missionaria che tenda (parlava alla Chiesa Brasiliana, ma è valido per tutti) che tenda a rinforzare la famiglia, che rimane cellula essenziale per la società e per la Chiesa; a preoccuparsi dei giovani, che sono il volto futuro della Chiesa; e promuova il ruolo delle donne. Questo orienta anche il compito della Chiesa nella società: “Nell’ambito della società c’è una sola cosa che la Chiesa chiede con particolare chiarezza: la libertà di annunciare il Vangelo in modo integrale, anche quando si pone in contrasto con il mondo, anche quando va controcorrente, difendendo il tesoro di cui è solo custode, e i valori dei quali non dispone, ma che ha ricevuto e ai quali deve essere fedele. Educazione, salute, pace sociale: per rispondere adeguatamente a tali sfide non sono sufficienti soluzioni meramente tecniche, ma bisogna avere una sottostante visione dell’uomo, della sua libertà, del suo valore, della sua apertura al trascendente”.

Ambiente. E in ultimo, trovandosi nella nazione che comprende nei propri confini l’Amazzonia, c’è stato anche il forte richiamo al rispetto e alla custodia dell’intera creazione che Dio ha affidato all’uomo non perché la sfrutti selvaggiamente, ma perché renda il creato un giardino.

Questo lo stimolo del Papa, che in altra occasione (ad Aparecida ai responsabili dell’episcopato sud americano) aveva richiamato anche altre parole che devono sempre essere presenti in quanti operano per testimoniare il Cristo e il suo Vangelo: Rinnovamento interno della Chiesa, Dialogo con il mondo attuale, La tentazione della ideologizzazione del messaggio evangelico, il clericalismo (“il parroco clericalizza e il laico gli chiede per favore che lo clericalizzi, perché in fondo gli risulta più comodo. La proposta dei gruppi biblici, delle comunità ecclesiali di base e dei Consigli pastorali vanno nella linea del superamento del clericalismo e di una crescita della responsabilità laicale”). Teniamolo presente anche in Italia.
by Redazione Appunti Alessandrini:Carlo Baviera.


domenica 6 ottobre 2013

Un prete aquilano scrive a Papa Bergoglio
"Il celibato non è dogma, concedici il matrimonio"

Caro direttore,
chieda al Papa a nome mio e di tanti altri preti, quando la Chiesa si sveglierà nell'approvare il celibato facoltativo dei sacerdoti! il Cardinale Martini aveva ragione a dire che
la Chiesa è indietro di 200 anni. Apprezzo il celibato, ma la Bibbia, soprattutto le lettere pastorali di Paolo, ci fa capire che il celibato non va imposto. San Paolo attacca chi
vieta il matrimonio definendolo falso profeta.... San Paolo scrive che i preti, vescovi e diaconi dovevano essere uomini di una sola moglie. Quindi sposati una sola volta.
Rimasti vedovi, penso potevano risposarsi. Così mi insegnò pure un mio prof della facoltà teologica. La chiesa cattolica di rito bizantino e maronita permette ai seminaristi di
sposarsi, ma devono decidere prima del diaconato. Abbiamo infatti preti bizantini e maroniti sposati! Caro Papa Francesco, ti voglio bene e mi commuovi perché parli col
cuore libero...allora ti chiedo: perché la chiesa cattolica romana di rito latino non rivede la norma sul celibato obbligatorio? La trovo una norma stupida, anti biblica! Il
celibato deve essere facoltativo.
Alcuni miei amici preti bravissimi sono stati costretti a lasciare il sacerdozio perché si sono innamorati seriamente di una donna. Ora hanno famiglia, figli e sanno cosa è il
sacrificio e la gioia di guidare la famiglia piccola chiesa domestica. Sono preti che potrebbero benissimo essere reinseriti nella Chiesa vista la crisi grave di vocazioni. Preti
omosessuali, che rispetto e stimo, possono invece continuare a fare i preti. Convivono pure col compagno e nessuno dice nulla. Se invece ti vedono con una donna, subito la
gente bigotta e fissata inizia a pensare male quando invece non c'è nulla di male se c'è amore vero!! Siamo indietro di 200 anni...
Caro cardinal Martini dal Cielo, aiuta Papa Francesco insieme allo Spirito Santo a portare la Chiesa verso nuovi orizzonti. Basta liberarsi dai pensieri farisaici e ipocriti. Il bello
è che Papa Giovanni Paolo II parlò bene del matrimonio dei preti quando approvò il codice di diritto canonico per le chiese orientali. Bellissimo il libro di Donald Cozzens
"Verso un volto nuovo del sacerdozio" (Queriniana). Cozzens, prete psicologo americano, scrisse questo libro dopo gli scandali dei preti pedofili. Il vescovo don Tonino Bello,
morto in concetto di santità, nel libricino intervista “Chiesa di parte”, scrisse che il celibato è un dazio e ciò non va bene. Profetizzò che in futuro uomini sposati sarebbero
diventati preti! Don Tonino Bello vescovo ha la stessa tempra del Papa. Peccato che pure don Tonino è salito al Cielo, ma Dio sa come fare. Don Andrea Gallo, nel suo libro
“Come un cane in Chiesa” ci aiuta a riflettere su temi che danno fastidio a certi uomini di Chiesa ultra moralisti e retrogradi.
Non voglio fare polemica, ma questa mia lettera vuole essere una critica rispettosa e costruttiva verso la Santa Sede. L'Abbe Pierre, nel suo libro “Mio Dio perché”, ci aiuta
come don Gallo ad aprire gli occhi pure sulla castità repressa e bloccante. Ben venga la castità, ma ben vengano pure i rapporti sessuali fatti con amore vero e vita! Ci vuole
equilibrio e ci vuole una morale più aperta se no la scienza teologica viene meno! Ben vengano i valori e i principi! Ma sono stufo di difendere una teologia morale obsoleta e
fossilizzata.Credo nell'amore infinito di Dio. Dio ci ama e questo è il tempo della Misericordia Infinita di Dio. Poi sarà la Fine!
Cara Chiesa, ritorna alle origini e apri gli occhi!! Caro Papa Francesco, grazie per aver scelto mons. Parolin come nuovo segretario di Stato: ha già detto che il celibato non è
un dogma! E bravo pure il cardinale Hummes, ex prefetto della Congregazione per il clero che fu messo a tacere perché pure lui disse che il celibato dei preti non È un
dogma.
Caro Papa Francesco grazie per aver parlato delle lobby gay del Vaticano. Sei un Papa eccezionale e senza peli sulla lingua. Non sono arrabbiato con i gay, li rispetto e li
accolgo come fratelli. Sono arrabbiato con gli ipocriti e li affido alla potenza rinnovatrice di amore dello Spirito Santo.
Caro Papa se mi vuoi contattare chiama il direttore del giornale, ma non punirmi. Anzi ti chiedo scusa se mi sono sfogato così apertamente. Prega per me caro Papa e se mi
chiami non dirò di questa nostra mail perché ho paura di certi monsignori, vescovi e cardinali che sono indietro di 200 anni. Ma di te caro Papa non ho paura e ti voglio tanto
bene. Prega per me perché sono un po' in crisi, ma ho tanta voglia di amare, di evangelizzare, di celebrare con amore e gioia L'Eucarestia fonte e culmine della vita cristiana.
Sono in crisi perché non esiste più una Fede matura. Poca gente frequenta i sacramenti con sincerità. Gli altri lo fanno solo per tradizione ma i loro cuori sono lontani da Dio.
Ogni giorno nella mia parrocchia e altrove devo lottare contro i farisei ipocriti o contro un certo fanatismo deviante. I cristiani veri sono pochi. Pazienza, meglio pochi ma
buoni.
Un sacerdote aquilano
Piccola meditazione quotidiana
6 ottobre
Beato chi può dire a se stesso: "Io vivo per Dio!". Beato chi ripone il senso della sua esistenza alla sorgente limpida di Dio!


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Da
In Te la pace del cuore, frère Roger di Taizé, Editrice Elle Di Ci

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