martedì 29 ottobre 2019

RAZZISMO E ODIO : I MALI PEGGIORI DELL'UOMO CHE SI RIPRODUCONO SEMPRE!

Per Liliana Segre, senatrice a vita, sopravvissuta agli orrori del lager nazista di Auschwitz, gli haters, compresi quelli che la bersagliano con 200 messaggi razzisti al giorno sulla rete, "sono persone di cui avere pena" e che "andrebbero curate". Le ricordano quei ragazzi della Hitlerjugend che "insultavano noi, 700 donne denutrite, senza capelli mentre percorrevamo la strada che dal campo portava alla fabbrica di munizioni Union, nel fango o nella neve".
"Ci offendevano con parolacce irripetibili - ha raccontato all'Università Iulm di Milano, intervistata nel corso del convegno "Il linguaggio dell'odio", promosso dall'Ordine del giornalisti della Lombardia - e ci sputavano addosso". Per quei giovani, coetanei, lei era una ragazzina di 13 anni, "con le loro divise e fascia con croce uncinata" la senatrice a vita provava "odio, un odio immenso" che tenne dentro di sé fino a quando divenne nonna.
    "Fu allora che ripensai a quei ragazzi che vedo come se fosse ora - ha aggiunto - e mi è successa una cose straordinaria: ero tornata, ero viva, avevo potuto contare sull'amore , potevo essere nonna. Loro, figli e nipoti di nazisti, educati all'odio, quel sentimento se lo sono portati dentro tutta la vita. Ho pensato: sono stata più fortunata di loro, e non li ho odiati più". Un po' come gli haters che le augurano la morte tutti i giorni.
E qui la senatrice a vita dà prova della sua dolce ironia: "Ogni minuto va goduto e sofferto bisogna studiare, vedere le cose belle che abbiamo intorno, combattere quelle brutte, ma perdere tempo a scrivere a un 90enne per augurarle la morte... Tanto c'è già la natura che ci pensa". L'ex deportata si aspetta molto dalla Commissione anti odio di cui si discuterà in Senato. "Spero aderiscano in molti, sarebbe una brutta figura non aderire a una Commissione contro l'odio".
Estratto da Ansa del 29/10/2019

sabato 19 ottobre 2019

GLI ITALIANI SONO FAVOREVOLI ALL'ACCOGLIENZA DEI MIGRANTI!

È un’Italia inedita quella che emerge dalla ricerca su italiani e migranti condotta dall’istituto Ipsos di Nando Pagnoncelli per WeWorld Onlus. Il sondaggio è stato presentato da Marco Chiesara, presidente di WeWorld, che spiega: “I dati mostrano come il clima d’odio costruito negli ultimi anni abbia generato percezioni distorte, che alimentano paure infondate verso chi arriva in Italia in cerca di accoglienza. Paure che diventano prioritarie rispetto a problemi più concreti e reali”.

Quasi sette italiani su dieci sono favorevoli al diritto all'accoglienza dei migranti (il 68%).
Il dato evidenziato dall'istituto di ricerca è ancora più sorprendente se si considera un altro aspetto emerso dall'indagine: gli italiani sono convinti che il 31% dei residenti in Italia sia straniero, quando la cifra reale è del 9%. Una percezione nettamente falsata dunque. Il tema dell'accoglienza tuttavia non è trattato con leggerezza dagli italiani, che per l'84% chiede all'Unione europea di svolgere un ruolo centrale a sostegno dell'Italia. Un terzo degli intervistati invece si dimostra molto ostile al tema dell'accoglienza sostenendo che non sia più possibile ospitare rifugiati e migranti e si dichiara in linea con la chiusura delle frontiere.

L'immigrazione è comunque in alto tra i motivi di preoccupazione degli italiani, anche se non entra nella "top 3", posizionandosi invece al quarto posto. Precedono, come primo motivo di apprensione il tema della disoccupazione, segue poi la situazione economica e in terza posizione il tema delle tasse. La metà degli italiani inoltre ritiene che l'immigrazione stia dividendo il paese in frange opposte e per questa conseguenza indiretta viene considerata negativamente. Non hanno quasi nessun dubbio invece, quando si parla di sfruttamento degli immigrati nel mercato del lavoro: il 75% ritiene che questo problema sia reale. Quando si parla di inserimento nel mondo del lavoro dei nuovi arrivati però, il 55% degli intervistati è convinto che le aziende dovrebbero dare la precedenza alle assunzioni ai lavoratori italiani. E quest'ultimo dato non sorprende se consideriamo che la disoccupazione è il primo motivo di preoccupazione per gli intervistati.
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Estratto da www.fanpage.it


mercoledì 16 ottobre 2019

16 ottobre 1943

NON C'È FUTURO SENZA MEMORIA 
COLORO CHE NON HANNO MEMORIA DEL PASSATO SONO DESTINATI A RIPETERLO

«La grande razzia nel vecchio Ghetto di Roma cominciò attorno alle 5,30 del 16 ottobre 1943. Oltre cento tedeschi armati di mitra circondarono il quartiere ebraico. Contemporaneamente altri duecento militari si distribuirono nelle 26 zone operative in cui il Comando tedesco aveva diviso la città alla ricerca di altre vittime. Quando il gigantesco rastrellamento si concluse erano stati catturati 1022 ebrei romani.
Due giorni dopo in 18 vagoni piombati furono tutti trasferiti ad Auschwitz. Solo 15 di loro sono tornati alla fine del conflitto: 14 uomini e una donna. Tutti gli altri 1066 sono morti in gran parte appena arrivati, nelle camere a gas. Nessuno degli oltre duecento bambini è sopravvissuto.»
(F. Cohen, 16 ottobre 1943. La grande razzia degli ebrei di Roma)

"La memoria del 16 ottobre è uno degli eventi maggiori della storia della nostra Roma contemporanea. A partire da questa memoria si costruisce un'idea di Roma e di solidarietà tra i romani. E' la memoria di una ferita all'intera città, ma soprattutto alla Comunità ebraica perpetrata, come un ladro nella notte, dopo che si era provveduto a isolare quella Comunità con le leggi razziste e con la politica fascista. A partire da quella memoria si afferma la volontà di un patto tra i romani per non dimenticare, per non isolare mai più nessuna comunità, per considerare la Comunità ebraica di questa città come uno dei luoghi decisivi per la nostra identità. Noi, come Sant'Egidio, ci sentiamo dentro questo patto a non dimenticare, che vuol dire non tollerare che nessuna comunità - soprattutto la comunità ebraica - sia isolata nella vita cittadina. Un patto per non dimenticare: è quello che si celebra ogni mese di ottobre con questa manifestazione".
(Andrea Riccardi)

"Io credo che questa commemorazione che viene fatta ogni anno ci deve portare soprattutto a riflettere fino a che punto può decadere l'animo umano, fino a che punto si può scendere nella bassezza, fino ad arrivare a perdere la ragione.
Ci troviamo qui ogni anno per ricordare queste vittime, per rivolgere un pensiero a loro che hanno dato dignità al popolo ebraico, perché erano vittime innocenti e quindi la loro morte è stata un crimine verso il popolo ebraico, ma soprattutto verso l'umanità".
(Elio Toaff)

"Ricordare insieme il 16 ottobre 1943, non è per noi un'abitudine. Anzi, più si allontana quel giorno e più cresce in noi la responsabilità di mantenere vivo il ricordo di quel tragico evento, che ha lasciato una ferita profonda non solo nella comunità ebraica di Roma, ma nella vita dell'intera città. Per questo la Comunità di Sant'Egidio e la Comunità ebraica di Roma, sono fedeli a questo appuntamento, compiendo ogni anno un pellegrinaggio della memoria, che da Trastevere si muove verso il Portico d'Ottavia. E' un pellegrinaggio pacifico che vuole ripercorrere in senso contrario il triste itinerario di quella gente inerme, che fu deportata con violenza da queste strade."
(Alessandro Zuccari)

martedì 15 ottobre 2019

COSA FACCIAMO?... BEVIAMO!

Lodigiano, l’alcol fra minorenni fa sempre più vittime:la dipendenza ora inizia a 12 anni
«Tantissimi minori al Pronto Soccorso per intossicazione alcolica, necessario intervenire fin dalle scuole medie». I tentacoli dell’alcol arrivano ai giovanissimi, l’allarme parte dall’Acat (Associazione club alcologici territoriali) che registra un lieve calo nel consumo ma un forte abbassamento dell’età media, con le prime sbronze a 12 e 13 anni. L’allerta è arrivata a margine della tradizionale festa annuale dell’Acat, tenutasi sabato sera a Codogno nella Sala Cabrini della Rsa Columbus. A oggi le famiglie seguite dall’Acat tra Lodi e Codogno sono 27, con dipendenze legate soprattutto all’alcol, ma non solo, anche alla droga e alle ludopatie, in forte crescita negli ultimi anni. Da gennaio a ottobre sono già 60 i ragazzi che si sono rivolti al dipartimento dipendenze dell’Asst per abuso di cannabis, cocaina, ma anche alcol e dipendenze da gioco.
«Dal nostro osservatorio ci risulta che il consumo sia in lieve flessione in generale, ma contemporaneamente si è abbassata in modo drastico l’età media dei consumatori, tanto che ormai l’allarme arriva all’età della scuola media – spiega Andrea Tramontano, presidente Acat -. È da tempo ormai che l’allarme è stato lanciato, a livello nazionale e locale».
A Codogno la questione era arrivata anche in consiglio comunale, per il diffondersi di pubblicità di eventi che proponevano alcol al pubblico, chiaramente orientato ai minori, come la tombola organizzata per le scolaresche che metteva in palio delle bevute di superalcolici. E le feste di fine anno delle scuole superiori del Lodigiano (per una platea tra i 14 e i 19 anni) da anni registrano casi di intossicazione etilica. L’abuso di alcol però non è confinato solo alle feste o agli eventi straordinari.
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Andrea Bagatta su Il Cittadino del 15/10/2019

venerdì 4 ottobre 2019

“Comunicare la bellezza del creato”

Mi permetto di raccontarvi il testo congiunto che i rappresentanti delle Chiese cristiane in Italia – cattolici, ortodossi ed evangelici – hanno elaborato sul tema della custodia del creato. Nel documento si affermano la responsabilità delle chiese nei confronti della creazione e la necessità di pregare affinché l’umanità rispetti il pianeta. Un messaggio importante che intende promuovere cambiamenti a partire dalle comunità con gesti concreti. 

I dati, davvero preoccupanti, per il futuro prossimo dell’umanità e dell’intero cosmo, ci spronano, come Chiese cristiane, ad agire con progetti e strategie coraggiose e improrogabili per un cambio di stile di vita quotidiana nella luce dei passi che i cristiani hanno già compiuto.

La nostra coscienza credente, attingendo dalla visione ebraico-cristiana del creato, ci invita a coniugare la spinta etica della fede con il sapere umano e scientifico, in vista di scelte sagge ed efficaci. Come? Educando ad uno sguardo nuovo: dal bene per me al bene per tutti.

La Parola del Signore ci chiede la responsabilità e la consapevolezza di esercitare la diaconia della speranza. Insieme alla predicazione occorre promuovere cambiamenti a partire dalle nostre comunità con gesti concreti.  

Esercitare la diaconia della speranza vuol dire:

• comunicare la bellezza del creato;

• denunciare le contraddizioni al disegno di Dio sulla creazione;

• educare al discernimento, imparando a leggere i segni che madre terra ci fa conoscere;

• dare una svolta ai nostri atteggiamenti ed abitudini non conformi all’ecosistema;

• scegliere di costruire insieme una casa comune, frutto di un cuore riconciliato;

• mettere in rete le scelte locali, cioè far conoscere le buone pratiche di proposte eco-sostenibili e promuovere progetti sul territorio;

• promuovere liturgie ecumeniche sulla cura del creato in particolare per il “Tempo del Creato” (1° settembre – 4 ottobre);

• elaborare una strategia educativa integrale, che abbia anche dei risvolti politici e sociali;

• operare in sinergia con tutti coloro che nella società civile si impegnano nello stesso spirito;


• le Chiese cristiane sappiano promuovere scelte radicali per la salvaguardia del creato

martedì 1 ottobre 2019

A PROPOSITO DEL DIBATTITO SUL FINE VITA

"Chiedevo perché non possiamo avere in Italia la stessa possibilità che esiste in altri Paesi civili di scegliere serenamente il modo in cui morire quando la sofferenza è grave e irrimediabile. Mi rispose allora l’Osservatore Romano, presentando argomenti contrari. Ritengo che il rispetto delle opinioni diverse sia il fondamento della democrazia, e sia particolarmente importante su un tema delicato come questo. 
La prima riguarda le dichiarazioni recenti di alcuni rappresentanti del mondo medico, che chiedono di non essere obbligati ad assistere una persona che vuole terminare la sua vita. Mi ha colpito la frase di un medico che diceva «si parla della libertà del paziente, ma che ne è della libertà del medico?». Il medico curante che per motivi legati alle sue convinzioni morali non può farlo, secondo la legge del Paese, dirige semplicemente il paziente verso un collega che non ha simili impedimenti e salvaguardando la libertà tanto del paziente che del medico. Mi sembra una soluzione civile. Non dobbiamo imporre l’uno all’altro le nostre convinzioni religiose o morali; dobbiamo rispettare le convinzioni di ciascuno, e avere leggi che permettano questo, e limitino la nostra libertà solo se la nostra libertà può nuocere ad altri. Nel rispondere al mio articolo, l’Osservatore Romano presentava l’alternativa fra una morte «in un freddo letto di ospedale», «oscura, tremebonda e piena di tabù», oppure una morte in casa propria, scelta e vissuta serenamente. Sono d’accordo. Il suicidio assistito deve avvenire in casa, serenamente. Eventualmente attorniati dai propri cari. Noi tutti dovremo affrontare l’ultimo giorno della nostra vita. Io spero intensamente che il mio possa essere in una situazione di serenità e affetto. I medici sanno che ci sono condizioni che portano a sofferenze estreme e senza rimedio, e a un degrado e un abbrutimento senza ritorno. Alcuni fra noi vogliono affrontare questo degrado comunque. Li rispetto. Altri preferiscono non farlo. Ritengo meritino eguale rispetto. L’Osservatore Romano mi obietta che se la ragione della scelta di morire è una sofferenza estrema e incurabile, la risposta è che oggi ci sono «cure palliative» che risolvono il problema. Sarebbe bello se tali cure fossero sufficienti, ma purtroppo non lo sono. Aumentare fortemente la dose di farmaci come la morfina è talvolta possibile, ma equivale in molte situazioni a un’eutanasia, perché accelera la fine della vita. Questo lascia una zona grigia, ben conosciuta dai medici, in cui si gioca fra ambiguità e ipocrisia, a fin di bene, per fare senza dire. Non è un modo onesto di gestire qualcosa di sacro e importante come la morte, secondo me. Dopo la nascita, la morte è il passo più importante della vita. Trattiamolo con il rispetto che merita, con il viso scoperto e la fronte alta, non con non-detti e mezze parole oscure. Di fronte a sofferenze irrimediabili e terribili, che purtroppo esistono, di fronte a un degrado fisico e sopratutto spirituale senza ritorno, quando il paziente non chiede altro che smettere di soffrire, e la famiglia ne è consapevole, credo che pochi medici che abbiano un poco di cuore neghino davvero la pace a chi la vuole con tutta l’anima. Non lasciamo che questo avvenga in un oscuro limbo di semi-illegalità, che può poi portare a degenerazioni che arrivano fino alla cronaca nera. I primi beneficiari di una legge su questo argomento sono i medici, che non siano più obbligati a dover far fronte non solo a difficili scelte umane, ma anche ad assurdi rischi legali. Il problema del suicidio assistito non è, e non deve essere, una questione fra laici e religiosi. 
Una delle condizioni che porta al suicidio assistito è che la sofferenza sia grave e irrimediabile. Un’altra, ovvia, è che il desiderio di morire sia forte, sincero, motivato e genuino. Forse non sarà una legge perfetta. È solo una delle soluzioni che Paesi diversi hanno adottato. A me sembra comunque molto migliore della situazione italiana, che mette i medici nella posizione dolorosa di dover scegliere se violare la propria umanità oppure violare la legge. Perché la vera questione qui non è la libertà. È l’umanità. Permettere, a chi lo desidera fortemente, di evitare la sofferenza. Questa è umanità. Quella stessa umanità che anima chi si adopera ad alleviare le sofferenze in tanti altri ambiti, e che anima tantissime persone, tanto nel mondo religioso che in quello delle persone che non sono religiose. La morte è sempre difficile. La si affronta con timori e lascia in chi resta le emozioni più dure. Ciascuno di noi è diverso. Arriviamo con sentimenti diversi alla morte dei propri cari e alla propria. Non pretendo di dire agli altri come dovrebbero avvicinarsi alla morte. Ma penso che questo rispetto dovrebbe essere reciproco. Se una persona, i suoi medici, i suoi familiari, convergono tutti nel ritenere giusto e sereno un modo di morire, penso dobbiamo interrogarci tutti se non sia meglio accettare la possibilità che di fronte al dolore irrimediabile qualcuno preferisca scegliere lui stesso il momento, che viene comunque, in cui sentirsi, come Abramo nella Genesi, «sazio di giorni»."
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ESTRATTO DA UN ARTICOLO DI CARLO ROVELLI in “Corriere della Sera” del 1 ottobre 2019

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