martedì 26 gennaio 2016

27 GENNAIO : " GIORNATA DELLA MEMORIA"

LA COLPA DI AUSCHWITZ
Credo che non ci sia molto da questionare o da verificare intorno alle cause, ai perché si giunse alla cosiddetta “soluzione finale”, meglio da noi oggi conosciuta come “Shoah”, ovvero lo sterminio in massa di sei milioni di ebrei, a cui bisogna aggiungere i delinquenti comuni, gli avversari politici, gli zingari, gli omosessuali (contro i quali ancora oggi si organizzano manifestazioni:sic!), i testimoni di Geova, e....tutti coloro che non rientravano nell'organizzazione delle mente nazista.
Furono messe in campo motivazioni storiche, politiche, sociali, razziali,religiose, economiche: gli ebrei e tutti gli altri andavano eliminati perché per loro non c'era posto, loro occupavano i posti spettanti ai nostri; la loro presenza era un furto alla civiltà!
Deliranti e mostruose affermazioni! Non meritano altro che di diventare polvere che il vento annienti e disperda nell'universo!
Ma anche in questa, come in molte altre storie, c'è un lato oscuro, strano, che ha dell'incredibile e purtroppo continua ad essere, per alcuni versi, inspiegabile.
Durante i vari processi ai criminali nazisti, i giudici e i procuratori generali, per illuminare, a beneficio delle giovani generazioni future, le zone oscure del dramma, “torturavano” insistentemente i vari testimoni con domande ancora oggi aperte: perché non vi siete rivoltati? Perché non avete resistito? Eravate diecimila contro dieci, contro uno, perché vi siete lasciati condurre al mattatoio come bestiame?
Ed essi rispondevano invariabilmente sempre con la stessa risposta:”Voi non potete sapere; chi non è stato laggiù non può capire!”.
Nel corso degli anni alcuni psichiatri, fra cui Bettelheim e Frankl, si sono avventurati nella psicologia dei detenuti nei Lager nazisti nel tentativo di trovare una spiegazione al consenso della vittima di fronte alla crudeltà del carnefice. La loro spiegazione fa riferimento alla disintegrazione della personalità degli ebrei o al risveglio del “desiderio di morte” nell'io. Ma non dimentichiamo il senso di colpa di cui erano impregnati i prigionieri: un sentimento d'essenza religiosa.
Dice Elie Wiesel:<<Se mi trovo qui è perché Dio mi ha punito; ho peccato e quindi pago; se subisco questo castigo vuol dire che l'ho meritato...Prima il prigioniero sacrificava la sua libertà a quella di Dio...Vivo, e quindi sono colpevole; se sono ancora qui è perché un amico, un compagno, uno sconosciuto è morto al mio posto>>: in un mondo chiuso questa idea, questa certezza di fede produceva una potenza distruttrice dagli effetti facilmente intuibili.
E così l'ebreo perdeva la sua identità e diventava un semplice numero che si identificava in una collettività dimenticata, condannata e sacrificata. Non sarebbero neppure stati capaci di lottare, di ribellarsi, di compiere un gesto d'onore, perché sentivano di tradire coloro che erano andati incontro alla morte docilmente e in silenzio. Elie Wiesel racconta di <<quella donna che, nuda e ferita, riuscì a fuggire dalla fossa comune dove gli ebrei della sua città erano stati massacrati, e che poco dopo vi ritornò per unirsi a quella fantasmagorica comunità di cadaveri.” Salvatasi miracolosamente, rifiutava la vita divenuta ai suoi occhi impura.
Ed è quello a cui si è assistito nel tempo: i reduci hanno opposto un silenzio opprimente che si sono portati con sé da “laggiù”. Abbiamo avuto testimoni che hanno raccontato a distanza di trenta-quarant'anni i fatti che hanno vissuto, quasi che non volessero mai aprirsi o che avessero addirittura paura della propria voce narrante la tragedia.
Eppure nonostante i numerosi processi e lo spazio dato loro dalle istituzioni e dai media per lanciare la loro sfida al mondo, per urlare la loro condanna alla Storia, hanno molto spesso preferito tacere e continuare il loro monologo come se appartenessero al mondo dei morti, che ormai non possono e non meritano di sentire.
<<La colpa non è stata inventata ad Auschwitz, vi è stata solamente sfigurata.>>
A.B.


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