LA
COLPA DI AUSCHWITZ
Credo che non ci sia molto da
questionare o da verificare intorno alle cause, ai perché si giunse
alla cosiddetta “soluzione finale”, meglio da noi oggi conosciuta
come “Shoah”, ovvero lo sterminio in massa di sei milioni di
ebrei, a cui bisogna aggiungere i delinquenti comuni, gli avversari
politici, gli zingari, gli omosessuali (contro i quali ancora oggi si
organizzano manifestazioni:sic!), i testimoni di Geova, e....tutti
coloro che non rientravano nell'organizzazione delle mente nazista.
Furono messe in campo motivazioni
storiche, politiche, sociali, razziali,religiose, economiche: gli
ebrei e tutti gli altri andavano eliminati perché per loro non c'era
posto, loro occupavano i posti spettanti ai nostri; la loro presenza
era un furto alla civiltà!
Deliranti e mostruose affermazioni! Non
meritano altro che di diventare polvere che il vento annienti e
disperda nell'universo!
Ma anche in questa, come in molte altre
storie, c'è un lato oscuro, strano, che ha dell'incredibile e
purtroppo continua ad essere, per alcuni versi, inspiegabile.
Durante i vari processi ai criminali
nazisti, i giudici e i procuratori generali, per illuminare, a
beneficio delle giovani generazioni future, le zone oscure del
dramma, “torturavano” insistentemente i vari testimoni con
domande ancora oggi aperte: perché non vi siete rivoltati? Perché
non avete resistito? Eravate diecimila contro dieci, contro uno,
perché vi siete lasciati condurre al mattatoio come bestiame?
Ed essi rispondevano invariabilmente
sempre con la stessa risposta:”Voi non potete sapere; chi non è
stato laggiù non può capire!”.
Nel corso degli anni alcuni psichiatri,
fra cui Bettelheim e Frankl, si sono avventurati nella psicologia dei
detenuti nei Lager nazisti nel tentativo di trovare una spiegazione
al consenso della vittima di fronte alla crudeltà del carnefice. La
loro spiegazione fa riferimento alla disintegrazione della
personalità degli ebrei o al risveglio del “desiderio di morte”
nell'io. Ma non dimentichiamo il senso di colpa di cui erano
impregnati i prigionieri: un sentimento d'essenza religiosa.
Dice Elie Wiesel:<<Se mi trovo
qui è perché Dio mi ha punito; ho peccato e quindi pago; se subisco
questo castigo vuol dire che l'ho meritato...Prima il prigioniero
sacrificava la sua libertà a quella di Dio...Vivo, e quindi sono
colpevole; se sono ancora qui è perché un amico, un compagno, uno
sconosciuto è morto al mio posto>>: in un mondo chiuso questa
idea, questa certezza di fede produceva una potenza distruttrice
dagli effetti facilmente intuibili.
E così l'ebreo perdeva la sua identità
e diventava un semplice numero che si identificava in una
collettività dimenticata, condannata e sacrificata. Non sarebbero
neppure stati capaci di lottare, di ribellarsi, di compiere un gesto
d'onore, perché sentivano di tradire coloro che erano andati
incontro alla morte docilmente e in silenzio. Elie Wiesel racconta di
<<quella donna che, nuda e ferita, riuscì a fuggire dalla
fossa comune dove gli ebrei della sua città erano stati massacrati,
e che poco dopo vi ritornò per unirsi a quella fantasmagorica
comunità di cadaveri.” Salvatasi miracolosamente, rifiutava la
vita divenuta ai suoi occhi impura.
Ed è quello a cui si è assistito nel
tempo: i reduci hanno opposto un silenzio opprimente che si sono
portati con sé da “laggiù”. Abbiamo avuto testimoni che hanno
raccontato a distanza di trenta-quarant'anni i fatti che hanno
vissuto, quasi che non volessero mai aprirsi o che avessero
addirittura paura della propria voce narrante la tragedia.
Eppure nonostante i numerosi processi e
lo spazio dato loro dalle istituzioni e dai media per lanciare la
loro sfida al mondo, per urlare la loro condanna alla Storia, hanno
molto spesso preferito tacere e continuare il loro monologo come se
appartenessero al mondo dei morti, che ormai non possono e non
meritano di sentire.
<<La colpa non è stata
inventata ad Auschwitz, vi è stata solamente sfigurata.>>
A.B.
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