SACERDOTI NELLA SHOAH
Non
saprei fino a che punto possa essere di comune interesse oppure quale
livello di attualità possa rivestire. Sta di fatto che al processo
di Norimberga, contro i criminali di guerra nazisti, fu denunciata la
cifra di 5445 sacerdoti cattolici uccisi nei campi; inutile
aggiungere che se tanti furono uccisi, i deportati furono molti di
più. Il numero di gran lunga più rilevante fu quello dei Polacchi
che contarono, fra di loro, più di 3000 morti; di fatto, una tale
ferocia si giustifica con la caratteristica della nazione polacca in
cui il Cristianesimo costituiva un elemento di identificazione
rilevante e poiché la Germania voleva l’annientamento della
Polonia.
Nella
maggiore parte dei casi però la loro deportazione non era collegata
a motivazioni di consapevolezza politica; soprattutto i preti
italiani deportati non lo furono per una loro scelta antifascista o
antitedesca. Più spesso, per non dire quasi sempre, essi si
trovarono nei campi o perché, cappellani militari, che dopo la
sfaldamento dell’esercito (8 settembre 1943), vollero seguire i
militari arrestati dalla polizia politica nazista, o perché non
vollero abbandonare le popolazioni delle loro parrocchie, sottoposte
alla deportazione.
Di
qui l’ovvia conseguenza: i sacerdoti, ma in genere anche i
religiosi di altre confessioni, tentarono il recupero del ruolo
tradizionale del prete all'interno dei lager, amministrando i
sacramenti e celebrando il rito sacro. Ma si accorsero quasi subito
che si trattava di una speranza e di un tentativo irrealistico. Le
testimonianze sono assolutamente convergenti; di celebrare
l’Eucarestia non si poteva neppure parlare, dal momento che le
autorità dei campi ritenevano che la più importante delle torture
fosse l’annullamento di ogni espressione di vitalità umana, anche
nelle sue espressioni spirituali. Solo la confessione poteva ancora
essere erogata, in mezzo a mille accorgimenti, e soprattutto senza
che se ne accorgessero le guardie della polizia nazista.
A
questo punto però, impossibilitato a celebrare il rito,
impossibilitato a farsi interprete del mistero, il prete scopre il
ruolo della condivisione, della partecipazione alla vita comune di
dolore e di sofferenza. Sperimenta anche che, a questo livello, il
messaggio cristiano ha da dare una risposta. E tutto questo non
nell’ottica della cristiana rassegnazione, ma nella scoperta di una
spiritualità che è quella della identificazione con la persona del
Cristo e delle sue sofferenze. Afferma un testimone, prete tornato da
Dachau “… i preti, sottoposti alle più degradanti umiliazioni,
ai lavori più pesanti, alle nudità ed alle percosse diventano gli
interpreti di un sacerdozio di condivisione”. Da traduttore del
mistero ad interprete della condivisione, rimanendo in rapporto di
solidarietà con un’umanità di sofferenza e con una concreta
esperienza di imitazione del Cristo sofferente.
Nell’autunno
del 1944, dopo varie trattative, si conclude un accordo tra S. Sede
ed autorità naziste per riunire tutti i sacerdoti ed eventualmente
anche i religiosi di altre confessioni, nel campo di Dachau, in due
blocchi il 26 ed il 28. Ma mentre la S. Sede voleva ripristinare la
possibilità per i religiosi di celebrare l’Eucarestia ed
amministrare i Sacramenti almeno in un luogo, le autorità naziste,
in realistica previsione di una guerra ormai persa, ritenevano
opportuna la disponibilità più semplice dei preti come merce di
scambio, in caso di trattative. Speravano, in buona sostanza, di un
appoggio del Vaticano con gli alleati, in cambio della liberazione di
un certo numero di sacerdoti. Sta di fatto però che molti sacerdoti
tentarono di sfuggire alla “diocesi” di Dachau; benché
consapevoli di una prospettiva meno drammatica, rimasero, per quanto
possibile, nei vari campi perché non volevano abbandonare gli altri
deportati.
Don Roberto Angeli, che finì appunto nella nuova
destinazione, deportato per una consapevole scelta antifascista,
partecipando anche alla resistenza toscana fra il 1943 ed il 1944,
fino all’arresto, offre una significativa motivazione: “…la
baracca dei preti fu chiusa in un recinto, circondata da filo
spinato: nessuno vi poteva entrare e nessuno ne poteva uscire. Si
trattava di un’altra raffinatissima crudeltà: se il nostro
sacerdozio non era per gli altri che valore aveva? Quello sterile
egoismo sacro non poteva che deprezzarci moralmente di fronte a noi
stessi e di fronte agli altri”.
E
parecchi sacerdoti lo capirono, comunque avessero inteso operare sia
durante il ventennio, sia durante la guerra: non potevano essere più
gli uomini della separatezza, gli uomini di un gruppo e neppure
potevano chiudersi nella loro Chiesa; erano diventati gli uomini
della partecipazione alle vicende dell’umanità. Avrebbero potuto
essere uomini che avrebbero avuto molto da insegnare (ovviamente oggi
sono morti) a molti: ecco cosa intende papa Francesco quando invita a
guardare alle periferie del mondo!
A.B.
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