martedì 16 febbraio 2016

L’indagine

È questo il titolo del volume che a cura di Rita Bighi e Paola Bignardi raccoglie i risultati di un’indagine promossa dall’Istituto Toniolo, quello che fondò e tuttora governa l’Università Cattolica, su Giovani e fede in Italia: che poi è anche il sottotitolo del lavoro. La pubblicazione (editrice Vita e pensiero) costituisce un approfondimento del più vasto «Rapporto giovani» sostenuto da Fondazione Cariplo e Intesa Sanpaolo, partito nel 2013 con novemila interviste sulle aspettative dei 18-30enni e via via proseguito con altre analisi su cose tipo il lavoro, le istituzioni, la felicità. Questa volta l’indagine è basata su colloqui anche piuttosto lunghi. Con 23 intervistatori per 150 intervistati, tutti battezzati, presi tanto in paesini minuscoli quanto in grandi città da un capo all’altro d’Italia e divisi in due categorie di età, 19-21 e 27-29 anni.
Ne è venuto fuori un ritratto fatto di storie più che di numeri, ma con alcune costanti. L’avvicinamento alla religione per tradizione familiare, il catechismo vissuto soprattutto come un elenco di comandamenti, la prima comunione fatta perché si doveva e poi la fuga dopo la cresima («non ne potevo più»), a dispetto del «bel ricordo» dell’oratorio. Finché più avanti, sui 25 anni, a volte ritornano. Magari perché capita un fatto doloroso, o l’incontro con un prete giusto. Così come un prete sbagliato poteva averli fatti allontanare. Quel che è cambiato, rispetto agli anni del catechismo, è che oggi Dio per loro è un’altra cosa: «Credo nel mio Dio ma non nel loro», dicono. Anche quando a messa ci vanno. Perché vivono la faccenda non come religione ma come sistema di valori. Un’etica. Fatta di «amore, rispetto, eguaglianza». Altra cosa dalla istituzione «Chiesa», che associano a «clero corrotto», «esteriorità», «regole». Per questo, al contrario, son praticamente zero quelli a cui non piace papa Francesco.
E se potrebbe apparire facile liquidare come «comoda» l’idea di questo che una definizione ormai non recente qualifica come un Dio-fai-da-te, la ricerca sottolinea invece l’importanza che sia proprio la Chiesa, oggi, a dover rinnovare il suo linguaggio: che «non passa per un più abile uso dei media — scrivono le curatrici — ma per una maggiore coerenza tra dire e fare».

Forse la cosa più bella — quella che se bastasse dirla per crederci convertirebbe il mondo intero — è la risposta di uno degli intervistati alla domanda su cosa ci trova nel credere in Dio: «Ci trovo che Lui ti fa sentire amato, speciale, nonostante magari tu non sia il meglio o creda di non esserlo. Ci trovo che Lui non fa cose nuove, diciamo, ma fa nuove tutte le cose». Sarà anche Dio a modo mio, ma qualche teologo ha qualcosa da dire su un Tizio del genere?

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