Chiesa, che cosa fai del tuo linguaggio?
di Gershom Leibowicz
in “www.baptises.fr” del 2 marzo 2015 (traduzione: www.finesettimana.org)
Nonostante le apparenze, la Chiesa parla una sola lingua, quella della dottrina. La prima fase del sinodo sulla famiglia ha messo in evidenza che la preminenza del linguaggio dottrinale ne costituiva sempre la principale posta in gioco.
Una lingua dottrinale legittima, ma morta
Certo, la lingua del magistero è legittima, perché razionalizza a posteriori la fede della Chiesa. Ma essa non può essere l'unica lingua parlata nella Chiesa, perché si rivela incapace di esprimere senso nelle situazioni che vivono gli uomini e le donne di oggi.
Rifiutando la distinzione e la distanza tra natura e cultura, inglobando queste due nozioni in un solo concetto che è quello della “legge naturale” e che è alla base di questa lingua dottrinale, la Chiesa la condanna a restare teorica, concettuale, atemporale, astratta e cristallizzata. Essa è strutturalmente incapace di tenere in considerazione la storia, inadatta ad integrarla, cioè a rivolgersi alla vita in perpetua evoluzione. Non può quindi raggiungere gli uomini e le donne la cui vita concreta si inscrive in una storia, è un momento di una storia.
La sua logica consiste esclusivamente nel tentare, senza mai riuscirvi, a far entrare una realtà vissuta inserita in una storia, in casi fissati di concetti e di nozioni astratte presentati come un ideale da raggiungere.
Come mettere in relazione dottrina e vita concreta, condizione della testimonianza?
I protestanti hanno risposto alla domanda con il primato della coscienza personale. L'ebraismo ricorre alle possibilità dell'interpretazione senza fine che gli permette anche di raggiungere le persone nella loro storia. La Chiesa cattolica ha preferito aggirare il problema distinguendo dottrina e pastorale. Ma questa manovra di elusione mostra presto i suoi limiti. Da un lato perché la pastorale è sempre subordinata alla dottrina e dall'altro lato perché oggi, essendo la dottrina accessibile a tutti, la pastorale non ha più spazio per dispiegarsi, tenuto conto che la mediazione obbligatoria del confessore che era il suo principale vettore è caduta in desuetudine.
Per una “lingua viva” dei battezzati
Quando Sant'Agostino riflette sul linguaggio e tenta di rispondere alla domanda “di che cosa è segno la parola?”, distingue due nozioni complementari:
– il verbum, parola la cui sola finalità è di essere pronunciata indipendentemente dal suo
senso. Una parola fuori del tempo e della storia, una “parola parlata” senza rapporto con la
realtà, la cui solo funzione è di essere pronunciata. In materia di sacramento, essa esprime la
dimensione “già là” del sacramento stesso. Esempio: il matrimonio sacramentale è
indissolubile. La lingua della dottrina procede dalla dimensione verbum.
– il dictio, parola la cui finalità è di essere totalmente a servizio del significato. È la “parola
parlante”, inscritta nella storia, capace di inserirsi nella nostra storia, di darle un senso, di
aprirle un avvenire. In materia di sacramento, è la dimensione “non ancora” che orienta la
vita.
È nel registro del dictio, quello della vita concreta, capace di raggiungere ciascuno in un momento della sua storia, che si gioca oggi la credibilità della testimonianza. Questa è la lingua dei battezzati.
Legittimare una lingua vivente diversa da quella del magistero
Si può certamente obiettare: che ne è dell'unità della Chiesa, se essa parla diverse lingue?
Effettivamente, se si presuppone che la comunione che è la Chiesa procede obbligatoriamente da un'organizzazione gerarchica piramidale, la pluralità delle lingue è una minaccia per l'unità. E la preminenza del linguaggio dottrinale è giustificata.
Se al contrario si ritiene che la Chiesa comunione risulta dalla tensione feconda e organizzata tra i tre poli di uguale importanza che sono il magistero, i teologi e i fedeli battezzati, la pluralità delle lingue, ciascuna adatta alla sua funzione e alla sua missione a servizio della comunione, è allora possibile e auspicabile.
Questa Chiesa è esistita, non solo nel racconto degli Atti degli Apostoli in cui ciascuno comprende il messaggio nella propria lingua, ma anche, come ha mostrato Yves Congar, all'epoca in cui il sensus communis fidelium era preso in considerazione per ponderare il carattere astratto della lingua magisteriale.
Nel suo funzionamento attuale, la Chiesta sottostima la dimensione dictio del proprio linguaggio subordinandola di fatto alla dimensione verbum da cui tutto dipende. È ciò che contribuisce a squalificare il suo linguaggio, anzi a costituirlo in contro-testimonianza. A questo proposito basta pensare a Humanae Vitae o alla condizione dei divorziati risposati nell'accesso ai sacramenti.
Con molti cattolici, oso dire che i battezzati possono testimoniare l'amore incondizionato di Dio per ciascuno, indipendentemente dalla loro situazione, impegnando la Chiesa, senza indebolirne l'unità né nuocere alla comunione, parlando la loro lingua viva che non è obbligatoriamente una semplice declinazione di quella del magistero. È la posta in gioco del sinodo sulla famiglia, è la mia risposta alla consultazione avviata.
mercoledì 4 marzo 2015
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