Prima la mediazione decisiva tra Cuba e gli Stati Uniti, poi il passo decisivo verso il riconoscimento
dello stato di Palestina e le premesse per imbastire un dialogo con la Cina
comunista. Prima ancora, la veglia di preghiera con annesso digiuno per la Siria e la lettera inviata a
Vladimir Putin.
“Grazie a Papa Francesco, il peso della diplomazia pontificia nel contesto internazionale è in
crescita. Ma come lo stesso Pontefice ci ha ricordato più volte, rappresentare la chiesa cattolica agli
occhi del mondo è un compito molto delicato, che richiede pazienza e perseveranza”, diceva
qualche giorno fa il cardinale Dominique Mamberti, prefetto della Segnatura apostolica.
L’attivismo del Pontefice sorprende, lui che era stato raccontato come Papa spirituale,
quasi un eremita, a sentire quel che dicevano di lui alcuni cardinali nel dopo Conclave. “Si diceva
che Bergoglio, Papa pastorale, non fosse portato alla diplomazia. Invece, si moltiplicano incontri e
iniziative, come questa tra Stati Uniti e Cuba”, notava sul Corriere della Sera lo storico Andrea
Riccardi. Senza dimenticare la reunion nei Giardini Vaticani, del giugno scorso, tra lui e
Bartolomeo I, Abu Mazen e Shimon Peres. Una diplomazia diretta, fatta di colloqui a Santa Marta o
telefonate intercontinentali, ma che si fonda soprattutto sul ritrovato dinamismo della Segreteria di
stato retta dal cardinale Pietro Parolin.
Certo, su Palestina e Cuba i negoziati – lenti e pazienti – andavano avanti da decenni. Eppure, a
proposito di Cuba, “il vero diplomatico in tutta questa vicenda è stato Papa Francesco”, ha spiegato
mons. Giovanni Angelo Becciu, sardo di Pattada, sostituto della Segreteria di stato e già nunzio
sull’isola. Lì avevano già messo piede Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ma doveva arrivare un
Papa argentino per mediare sottotraccia tra Washington e L’Avana.
Non è un caso, se è vero che – come diceva al Foglio lo storico Massimo Faggioli – Bergoglio “è un latinoamericano, il che comporta una certa
quantità di anti americanismo. Negli Stati Uniti questo si sa bene, solo che non si può accusare
esplicitamente il Pontefice di essere anti yankee. E’ una questione latente”. Insomma, Raúl Castro
non poteva sperare di meglio per tentare di cancellare l’embargo che strangola l’economia della
repubblica socialista.
Ma in cima all’agenda del Papa gesuita c’è l’Asia da evangelizzare. Il continente immenso dove
assai poco il cristianesimo ha attecchito, isole felici a parte (Filippine, Corea del sud, Sri Lanka). E’
l’eterna chimera della chiesa romana, se è vero che “già negli anni Trenta si diceva che l’Asia
rappresentava la sfida, poi le cose non sono andate avanti per il meglio”, ricordava Andrea Riccardi. In due anni di pontificato, Francesco c’è stato due volte, visitando tre
paesi. Istinto del missionario, quello
del Bergoglio che da giovane voleva trasferirsi in Giappone, ma anche sano realismo politico: la
Cina, potenzialmente, è il più grande paese cristiano al mondo, se si mettono insieme i fedeli alla
chiesa ufficiale di stato e quanti si richiamano alla chiesa sotterranea in comunione con Roma, sul
cui numero le cifre sono ancora dibattute. E’ anche per questo che il Vaticano mantiene il profilo
basso riguardo Pechino, non alzando la voce per l’occultamento delle croci e per la sparizione di
sacerdoti e vescovi, che spesso ricompaiono sui bollettini ufficiali solo da morti.
Quel che c’era da dire pubblicamente sulla questione è stato detto otto anni fa, con la “Lettera ai
cattolici cinesi” di Ratzinger (alla cui stesura partecipò Parolin). A questa,
in una delle ultime conferenze stampa in aereo, il Papa si è richiamato. Il resto è prudenza assoluta:
niente metafore o battute, solo parole di “vicinanza” per il “grande popolo cinese al quale voglio
bene”.
di Matteo Matzuzzi in “Il Foglio” del 15 maggio 2015
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