Come è capitato spesso in questi anni, mercoledì scorso il papa ha pronunciato un bel discorso. Ha
detto il pontefice che le donne dovrebbero essere, per il loro lavoro, retribuite come gli uomini, che
l’emancipazione femminile non è affatto un male e che essa non va assolutamente messa in
relazione con il fatto che le giovani coppie ritardino sempre di più l’età del matrimonio e della
riproduzione.
Bene, ben detto. Tuttavia siamo anche obbligati a ricordare che il papa non rappresenta solo un’autorità morale, alla
quale competa di pronunciare discorsi edificanti o di indicare mete morali e traguardi politici da
raggiungere. Il pontefice è anche un uomo di governo, il capo di un’immensa organizzazione
mondiale, alla quale aderiscono, a vario titolo, più di un miliardo di uomini e di donne. Queste
ultime sperimentano, all’interno della Chiesa, una condizione di perenne subordinazione,
un’esclusione strutturale da tutti i luoghi di indirizzo e di comando, ad ogni livello: indispensabili per far funzionare tutta la
complessa macchina cattolica, ma immancabilmente confinate a ruoli esecutivi ed ancillari.
Sono infatti le donne, in grande maggioranza, ad occupare i banchi delle chiese e ad ascoltare i
sermoni dei sacerdoti, ad aiutare, spesso del tutto gratuitamente, i preti a gestire le chiese e le case
parrocchiali, a tenerle pulite e in ordine. Sono sempre, in larghissima proporzione, le donne ad
animare le organizzazioni di volontariato cattoliche, a trasmettere la fede ai giovani, nelle aule del
catechismo o tra le mura domestiche, a lavorare alacremente e con impegno, sempre in posizioni
subordinate si intende, negli uffici diocesani o nella curia romana. Sono ancora le donne ad essere a
fianco dei sacerdoti come compagne clandestine, ad aiutarli a sopportare quotidianamente la fatica
della vita ecclesiale, a dispensare consigli e suggerimenti per l’azione pastorale.
Sono insomma le donne, lo sono probabilmente sempre state, a costituire l’ossatura centrale del
popolo di Dio, a lavorare, con impegno ed entusiasmo, nella vigna del Signore. Senza di loro la
Chiesa non ha senso, perderebbe la sua gente, sparirebbe dal mondo. E non servirebbero a nulla
nemmeno migliaia di nuovi vocazioni clericali, neppure la fabbricazione di tanti preti nuovi di
zecca, casomai importati da paesi in via di sviluppo. Senza le donne il cattolicesimo si estingue.
Ed è proprio quello della fuga delle donne lo spettro che minaccia il cattolicesimo, perlomeno alle
nostre latitudini. Le giovani italiane, ce lo dicono le migliori ricerche sociali e ce lo conferma la
conoscenza empirica della vita ecclesiale, appaiono sempre meno disposte, a differenza di quello
che ancora capitava con le generazioni precedenti, ad impegnarsi in un’organizzazione così
profondamente impregnata di maschilismo come la Chiesa Cattolica. Non capiscono, molte ragazze,
perché non debbano godere, anche all'interno della Chiesa, delle stesse opportunità di cui godono
nel mondo esterno, perché non possano aspirare ai ruoli di primo piano occupati dai loro coetanei
maschi. E anche le loro mamme, soprattutto se divorziate e risposate, cominciano a pensarla così.
Anche le quarantenni si sono messa in fuga dalla Chiesa, come recita il titolo di un fortunato
libretto.
Su questo versante, c'è una grande delusione. Ai tanti
discorsi, ai mille proclami, alla moltitudine di annunci non è mai seguito niente di concreto: non
solo non si è materializzata la speranza di una riapertura del tema del sacerdozio femminile o della prima donna cardinale, ma a nessuna donna è stato
nemmeno affidato un dicastero vaticano, una qualche posizione di responsabilità e di primo piano.
Mentre la chiesa anglicana proclamava la prima donna vescovo quella cattolica riempiva le stanze
del sinodo sulla famiglia di maschi anziani, riservando alle pochissime donne non più di qualche
scampolo di scena, qualche miserissima particina in commedia. Non è quello che meritano le donne
del nostro tempo. Se la Chiesa non saprà comprenderlo, finirà per soffocare, uccidendo il futuro che
quella metà del mondo porta felicemente con sé.
di Marco Marzano in “il manifesto” del 5 maggio 2015
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