Don Alessandro Santoro, 50 anni, parroco alle Piagge nella periferia di Firenze, il prete di “frontiera”, ha da poco dato alle stampe il volume “Le strade dell’amore” (Edizioni Piagge) inviato a tutti i padri sinodali e ai vescovi diocesani, un libro che ha anche dato il titolo alla conferenza internazionale apertasi ieri a Roma sulle pastorali cattoliche inclusive «con le persone LGBT e le loro famiglie».
Don Santoro, come giudica l’uscita di Charamsa?
«L’ho visto e sentito come un grande atto di liberazione. Diventare se stessi, esprimere ciò che si è, è la cosa più vera che un uomo possa fare. E il suo senso di liberazione mi sembra una cosa bellissima. Gesù in fondo questo voleva: che ognuno potesse diventare se stesso e capace di “generare” vita».
La Santa Sede ha reagito nel modo sbagliato?
«Provo una tristezza profonda nel vedere che nel momento in cui una persona racconta se stessa non si è capaci di dimostrargli amore, sostegno, cura. La Chiesa parla spesso di accoglienza, ma poi reagisce al contrario e si chiude in se stessa. L’accoglienza per gli omosessuali e transessuali è
parziale, non avviene mai in modo pieno».
Il Sinodo potrebbe recepire il messaggio di monsignor Charamsa?
«È il mio auspicio. Il coming-out è importante perché è un invito a che il Sinodo possa avere una
dimensione evangelica, di apertura e franchezza. In un Sinodo dove purtroppo soltanto i maschi
hanno diritto di voto, ci sarebbe bisogno di maggiore parresìa, maggiore franchezza anche rispetto
al Vangelo. Se guardiamo bene la Scrittura non troviamo mai una condanna dell’omosessualità,
piuttosto si parla di amore e l’amore si può vivere ed esprimere in diversi modi. Il Sinodo dovrebbe
essere un momento di maggiore democrazia».
Nel libro “le strade dell’amore” è tutto questo che si chiede?
«Sì. I gruppi omosessuali credenti hanno voluto consegnare questo testo al Sinodo. Perché possa essere un contributo sincero per uno sguardo attento e più libero. L’amore omosessuale ha bisogno di essere liberato. Come prete mi sono posto da tempo in una situazione di obiezione di coscienza rispetto alla Chiesa che non mi permette di vivere una piena comunione ecclesiale con gay e transessuali e per fedeltà al Vangelo.
Monsignor Charamsa però aveva abbracciato il celibato. La sua convivenza con un altro
contraddice questa promessa.
«Ritengo che l’obbligo del celibato debba essere revocato. Ci vuole un celibato volontario.
Charamsa ha fatto questo passo consapevole delle conseguenze e credo che anche per questo
motivo il suo gesto sia importante, perché le coscienze nella Chiesa si scuotano».
in "La Repubblica" del 4 Ottobre 2015
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