Dopo che tanti musulmani - imam e gente comune, compagni di convegni o figure semi-sconosciute, sufi o esponenti di realtà vicine ai Fratelli musulmani - hanno accolto l'invito e sono entrati nella Chiese cattoliche per esprimere la loro vicinanza ai cristiani dopo l'uccisione barbara di padre Jacques Hamel, adesso che succede?
La giornata dice che incontrarsi è possibile; certo, sarebbe stupido pensare che basti una domenica a Messa insieme per fermare la scia di sangue.
Eppure quel gesto indica lo stesso due direzioni ben precise: primo, la lotta al fanatismo jihadista non è "una questione che devono risolvere loro". Dipende anche da noi. Venendo a Messa hanno accettato di mettersi nei nostri panni. Noi siamo disposti a fare lo stesso? Siamo disposti ad avere a cuore sinceramente il futuro dell'islam oltre che il nostro? O facciamo reciprocamente questo sforzo - facendoci carico sul serio gli uni degli altri - o a vincere sarà comunque chi ci vuole divisi, riducendo il mondo in un "noi" e un "loro".
Secondo: chi ha sgozzato padre Jacques ha adottato la macabra liturgia di morte dei jihadisti, dove la brutalità dell'uccidere è riportata al sangue che macchia le proprie mani. Ma di fronte a tanta violenza anche noi dobbiamo scegliere il corpo a corpo. Non c'è più posto per una pace evanescente; anche la riconciliazione oggi deve passare attraverso la carne. Non bastano il cuore e la testa, ci vogliono anche le mani. Ieri si sono incontrate nello scambio del segno di pace. Ma le nostre mani sono chiamate a fare molto di più: ora devono afferrarsi in maniera salda per continuare a camminare nella stessa direzione, devono sporcarsi per costruire insieme risposte concrete a tante forme di ingiustizia, devono anche gettarsi in avanti per ammonire chi semina odio e proteggere chi è più debole.
Nel tempo della guerra anche l'impegno per la pace si fa più esigente. Non basta più una bella immagine; ora serve la lotta, giorno per giorno.
di Giorgio Bernardelli | in www.vinonuovo.it
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