Padre Michael Davide Semeraro, benedettino della comunità Koinonia della Visitazione in Val
d'Aosta, è autore di un libro sulla sessualità dei preti ('La vérité vous rendra libres. Spiritualità et
sexualité du prêtre', Salvator, p. 152, € 16).
Qual è la sua opinione sugli scandali di abusi sessuali che scuotono la Chiesa da qualche
anno?
L'indignazione è necessaria, ma non è sufficiente. Dobbiamo andare oltre e riflettere sui segni che
questi scandali ci mandano. Dobbiamo lasciarci interrogare più in profondità sul modo in cui la
Chiesa prende in considerazione la dimensione affettiva e sessuale nella vita di fede, per entrare in
un vero processo di conversione.
Con gli apporti delle scienze umane, ma anche dopo il Concilio Vaticano II, il nostro modo di
parlare e di vivere la sessualità è cambiato. Un tempo considerata cattiva in sé, la sessualità è
ritenuta oggi un elemento della nostra vita spirituale. Anche i preti devono prendere in
considerazione la loro umanità e viverla. Questo non rimette in discussione la possibilità di avere
una vita casta. Ma la teologia della proibizione che era alla base del celibato un tempo non è più
sufficiente. La Chiesa, in tutti i suoi settori di vita, e in particolare nel suo clero, è chiamata a
misurarsi in maniera radicalmente nuova con la sfida della propria fragilità.
Insomma, la religione dell'incarnazione deve incarnarsi ulteriormente?
Esattamente. Si è pensato che la spiritualità potesse risolvere tutto, ma la grazia presuppone la
natura e anche, aggiunge papa Francesco, la cultura. Rimettere al centro il mistero dell'incarnazione
come ci invita a fare, ha delle conseguenze molto forti: per tutto ciò che riguarda la nostra fedeltà al
Vangelo bisogna sempre passare dalla carne. Non c'è storia della salvezza che non sia radicata nel
reale, e il reale è il nostro corpo e le nostre emozioni.
Ora, il rischio è che i preti, cioè coloro che, talvolta con molto amore, donano agli altri la possibilità
di confidarsi intimamente, siano personalmente incapaci di aprirsi fino in fondo, ed è pericoloso.
Bisogna dar loro la possibilità di parlare della loro vita affettiva, delle gioie che ci sono a vivere una
vita casta ma anche delle loro fatiche, delle loro difficoltà e delle loro cadute. Quando ci si
rinchiude sulla paura e sul senso di colpa, si diventa ancora più fragili e vulnerabili. Questo vale per
tutti, anche per i preti. Liberare la parola senza paura, riconoscere le nostre fragilità è un passo
molto importante per poter o rettificare le nostre vite, o prendere una strada diversa.
Come uscire dalle chiusure attuali?
Bisogna cambiare il nostro modo di concepire il ministero ordinato. Quando si comincia a pensare
che si è ricevuta una consacrazione che viene unicamente dall'alto, cioè quando parto dall'idea che
sono un uomo sacro, privilegiato, che ha un contatto diretto con Dio – questo può creare l'illusione
di avere un potere infinito sugli altri e di essere un po' esentato dalle regole morali a cui sono
sottoposti gli altri. Ci si mette su di un piedistallo, si entra in una mentalità di casta. È la tentazione
di cui parla papa Francesco nell'esortazione apostolica sulla santità, Gaudete et exsultate, quella
dello gnosciticsmo, dell'élite.
Per uscire dalla mentalità di casta, bisogna cominciare col fare un passo molto importante, mettersi
allo stesso livello degli altri, anche quando si ha un ministero diverso per gli altri. Papa Francesco
insiste molto su questo quando si rivolge ai preti: l'ordinazione presbiterale come la consacrazione
monastica sono un modo di vivere il battesimo a servizio della comunità
___________________________________________________________________________Estratto da “La Croix” del 4 giugno 2018
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