venerdì 6 febbraio 2015

UN MARTIRE DI FEDE O DI GIUSTIZIA?

di Luigi Sandri , in “Trentino” del 5 febbraio 2015
Martirizzato “in odio alla fede”, o perché “proclamava la giustizia”? Il dilemma - riguardante monsignor Oscar Romero - non si estingue ma, piuttosto, si riavvia, dopo l’annuncio dato dalla Santa Sede e ribadito in Vaticano, che entro l’anno sarà beatificato l’arcivescovo di San Salvador assassinato il 24 marzo 1980. Per capire la questione – ecclesiologica e politica insieme – occorre brevemente inquadrare la vicenda.
Nel 1977 Romero fu nominato da Paolo VI arcivescovo della capitale del piccolo Stato centroamericano; egli era un “moderato” che, prima, da vescovo di una piccola diocesi, non aveva mai denunciato i soprusi della giunta militare che reggeva il paese, e l’oligarchia che di fatto la controllava. Ma, un mese dopo il suo ingresso nella capitale, gli squadroni della morte (bande paramilitari protette dal regime) uccisero p. Rutilio Grande, un gesuita suo amico, difensore dei diritti dei “campesinos”, i contadini oppressi. Vegliando sul corpo del sacerdote, Romero comprese di dover diventare “la voce dei senza voce”, e da quel giorno, con un crescendo inarrestabile, denunciò le violenze dei militari, le ingiustizie dei latifondisti, l’ondata tremenda di “desaparecidos”(persone sequestrate e assassinate), l’uccisione di centinaia di catechisti; ma, anche, la rivolta armata al regime, riunita nel Frente Farabundo Martí. La maggioranza dei vescovi salvadoregni erano critici contro Romero, accusato di “fare politica”, e alcuni di loro sostennero la tesi del governo, e cioè che l’arcivescovo fosse un “comunista”. Ricevuto in udienza da Giovanni Paolo II il prelato provò – lo dirà poi egli stesso – un senso di “profonda solitudine” e grande freddezza. In effetti, per il papa polacco era difficile capire che in America latina non “comunisti”, ma “cristiani” (tali erano i membri della giunta salvadoregna, e i capi dell’esercito), uccidessero preti. Infine, il 23 marzo 1980, parlando nella cattedrale, l’arcivescovo lanciò un appello agli uomini dell’esercito: “La legge di Dio dice: non uccidere. In nome di Dio, e in nome di questo popolo sofferente i cui lamenti salgono fino al cielo ogni giorno più impetuosi, vi supplico, vi scongiuro, vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione!”. Il giorno dopo, un killer prezzolato dal regime sparò a Romero, proprio mentre il prelato, durante la celebrazione della messa, elevava il calice, offrendo inconsapevole il petto al carnefice. Asperrima fu, sotto papa Wojtyla, l’opposizione di molti vescovi latinoamericani,e di larga parte della Curia romana, all’ipotesi di elevare Romero agli onori degli altari. Con Francesco l’iter della beatificazione si è sbloccato. Ma, secondo il Vaticano, l’arcivescovo, ora definito “martire”, fu ucciso “in odio alla fede”, e non “per aver difeso la giustizia”.Un fatto è certo:se non avesse denunciato le ingiustizie sociali e l’oppressione degli impoveriti, sarebbe ancora vivo.E’ vero, amava Dio; ma fu assassinato perché amava l’uomo sofferente.

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