Noi esseri umani impariamo a stare al mondo interagendo con gli altri, specialmente con le figure di riferimento che ci accudiscono. La dimensione relazionale è lo spazio in cui ci appropriamo della nostra umanità. Fin dall’infanzia, osserviamo e riproduciamo comportamenti e modi di fare che, intrecciandosi con i nostri bisogni, plasmano i nostri desideri, i nostri modelli di pensiero, il nostro modo di concepire la vita e, di conseguenza, il nostro modo di amare.
Giudicare la realtà intorno a noi è un processo inevitabile: è il modo in cui interiorizziamo le informazioni e le organizziamo dentro di noi. Ogni giudizio nasce da un confronto tra il nostro mondo interiore e ciò che accade fuori. Quando giudichiamo qualcuno, non stiamo solo dicendo qualcosa su di lui, ma stiamo anche rivelando molto di noi stessi. Spesso, ciò che critichiamo negli altri è in realtà una parte di noi che non vogliamo vedere e riconoscere.
A poco serve dichiarare che quello che stiamo vedendo dell’altro è “oggettivo”. Appellandoci all’oggettività stiamo dichiarando che quello che vediamo non riguarda il nostro modo di guardare, bensì riguarda solo l’esterno. Riveliamo così la nostra cecità all’altro. C’è qualcosa che non vogliamo vedere di noi, che non ci piace e che proiettiamo all’esterno. Più tentiamo di ignorarla, più l’ombra agisce nell’oscurità, emergendo attraverso proiezioni e giudizi severi sugli altri.
L’altro non è solo il bersaglio del nostro giudizio, ma anche uno specchio che ci permette di vedere ciò che da soli non saremmo capaci di riconoscere. Quando giudichiamo, abbiamo l’opportunità di interrogarci su noi stessi, di comprendere cosa quel giudizio sta rivelando di noi. La sfida è smettere di puntare il dito e orientare l’attenzione all’interno. Alla fine, è la relazione che ci salva. Non possiamo proprio salvarci da soli.
Flavio Emanuele Bottaro SJ
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