giovedì 12 marzo 2020

ASCOLTO

Quando parliamo del virus non stiamo parlando del virus, che è appena un pallino infinitesimo e
fragile, molto più mortale di noi, e destinato allo sterminio grazie al vaccino. Quando parliamo del
virus stiamo parlando di noi.
Nostri sono gli errori di sottovalutazione (i miei per primi, dieci giorni fa ho scritto cose che oggi
non riscriverei), nostra l’angoscia, nostro l’orgoglio della scienza, nostra la speranza. Prima tra tutte
la speranza, in questi giorni bene avvertibile nelle conversazioni e negli sguardi, che la mazzata ci
renda un poco più umili. Che equivale a dire un poco più intelligenti ( intus legere: leggere dentro).
Quello che sto cercando di dirvi lo dice benissimo, molto meglio di come avrei mai saputo fare,
Mariangela Gualtieri, che è una poetessa, quasi mia coetanea. L’Amaca di oggi è la sua poesia,
"Nove marzo duemilaventi", che potete leggere con un clic sulla rivista on line Doppiozero. Vorrei
rubargliela ed è quello che sto facendo, la pubblicherei per intero se lo spazio mi bastasse.
A cosa serve la poesia, in un momento nel quale tutti cerchiamo salvezza nella scienza? Serve a
portare alla luce quello che non riusciamo a vedere – solamente a intuire – dentro di noi. Il poeta
usa la parola come il virologo il microscopio, mette a fuoco l’invisibile. In questi giorni parliamo
molto, nelle case, al telefono. Ne abbiamo il tempo e perfino la voglia. Parliamo con la voce bassa
di chi ha perduto qualche certezza e guadagnato, per adesso, solo qualche incertezza. È la voce
bassa di chi si sta finalmente mettendo in ascolto.
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Michele Serra

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