domenica 28 ottobre 2018

La cacciata del clericalismo salverà la Chiesa

Le comunità cristiane vivono attualmente un grande disagio. La domanda più importante che si pone alla Chiesa non è chi sta dietro gli scandali, ma che cosa questi scandali – in particolare gli abusi su minori – rivelano del suo modo di essere. Di fatto, la Chiesa è costretta non solo a cercare un rimedio ai comportamenti inappropriati dei suoi preti, ma anche ad interrogarsi sulle ragioni profonde che li hanno resi possibili. La “tolleranza zero” non basta se non è suffragata dalla volontà radicale di rivedere i nostri modi di funzionamento interni alla Chiesa, in particolare per quanto riguarda l'esercizio dei ministeri ordinati. La Chiesa è incorsa nel rischio di funzionare più come un'istituzione religiosa che come una comunità di fede. La cosa veramente ambigua è che essa fa rientrare dalla finestra ciò che il Vangelo aveva fatto uscire dalla porta: il carattere sacro. Tutto ciò che viviamo oggi mette in luce le conseguenze amare di una sacralizzazione di certe funzioni ecclesiali che, in realtà, sono e restano servizi. L'identificazione tra il ministero a servizio della vita di una comunità e l'identità personale del ministro ordinato ha creato tutta una serie di abusi che, prima ancora di essere dei reati, sono in realtà un modo di porsi che è in contrasto con il vangelo, benché profondamente “religioso”. Così la Chiesa si ritrova a pagare oggi le conseguenze amare di un ripristino del funzionamento religioso e sacro. Questo funzionamento ha creato una casta – la casta clericale – che non riguarda solo i chierici, ma anche i laici clericali. Come i farisei e i sadducei del tempo di Gesù, questa casta, invece di servire il Vangelo, è tentata di servirsene. In fondo, se ci riflettiamo, il Vangelo, con le sue esigenze di libertà, di uguaglianza e di fraternità universali, è la rovina della Chiesa. Se non ci fosse il Vangelo, tutto potrebbe continuare a funzionare come sempre. Ma il Vangelo impone una conversione che passa dalla ricezione delle critiche che vengono dall'esterno. Esse devono essere a fondamento di un riposizionamento serio e generoso delle comunità cristiane. Rimettere il Vangelo al centro della vita della Chiesa significa riconoscere un errore fondamentale: quello di aver smorzato l'appello provocante ad essere una comunità di fratelli a servizio dell'umanità, e non una “religio” come le altre. Ciò che fa la differenza, non è il bagaglio dogmatico o rituale; è l'atteggiamento che consiste nel rinunciare ad ogni privilegio derivante dalla rivendicazione di una investitura venuta dall'alto, per privilegiare al contrario la relazione con l'altro, che arriva al punto di mettersi ai suoi piedi per servirlo. Che cosa facciamo realmente per rinunciare ad ogni forma di clericalismo e, anche, di maschilismo? Finché non rinunceremo all'abuso di esclusivismo e di esclusione, sarà molto difficile guarire dalla malattia che genera abusi sessuali, di potere e di coscienza. Una Chiesa che riparte con il Vangelo è una Chiesa che si è spogliata di se stessa, che rinuncia a creare delle caste esclusive arrogandosi il diritto di escludere gli altri in nome di una vocazione e di una investitura venuta dall'alto. Quest'ultima, in realtà, può venire solo dal basso. Gli avvenimenti e, soprattutto, la comprensione maggiore che abbiamo del Vangelo, esigono che non si cada nella logica del “rattoppo” (Marco 2,21), ma che al contrario ci si lanci gioiosamente verso l'orizzonte della rifondazione. Tutto questo può avvenire solo se accettiamo innanzitutto di relativizzare tutta una serie di istituzioni e di funzionamenti che, se sono stati utili – almeno in parte – fino ad oggi, non sono probabilmente più adatti. Due elementi sono non solo urgenti, ma anche rivelatori di un reale desiderio di passare dalla nostalgia di noi stessi alla nostalgia del Regno di Dio che viene a destabilizzarci: il ruolo della donna nella vita della Chiesa e il passaggio da una teologia della mortificazione ad una teologia del piacere. In entrambi i casi, il modo di concepire la sessualità, come segno del nostro modo di sentirci umani e di entrare in relazione, è la chiave di volta di una volontà – o meno – di assumere i cambiamenti antropologici attuali non come una minaccia, ma come un'opportunità. Non si tratta di relativizzare in maniera ideologica il celibato dei preti o la castità dei consacrati, ma di ricollocarli nella bontà radicale e totale della nostra umanità. Senza un'esaltazione inutile – e talvolta dannosa – della rinuncia che questo celibato presuppone, come fonte di eccellenza. Ciò ci permetterà di vivere allo stesso modo di prima – il celibato nello specifico – ma con una libertà e una responsabilità che, almeno in parte, devono ancora essere costruite, per essere non solo vivibili dall'interno, ma anche leggibili dall'esterno.
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di Michael Davide Semeraro in “La Croix” del 25 ottobre 2018 

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