Ci sono frangenti della storia in cui il silenzio e l’inerzia diventano complici del male. Questo è uno
di quelli. Le conseguenze della crisi economica si stanno manifestando come crisi di civiltà. Sulla
paura e il disorientamento della gente soffia il vento della propaganda. Demagoghi scaltri e senza
scrupoli si ergono a paladini del «popolo» e della «nazione» e acquistano di giorno in giorno
consenso, additando nemici di comodo: erano le democrazie e gli ebrei al tempo del fascismo, oggi
sono l’Europa e i migranti.
Il sistema economico dominante – quello che Papa Francesco definisce senza mezzi termini
«ingiusto alla radice», responsabile di una «economia di rapina» – ha certo enormi colpe, a
cominciare da un’immigrazione forzata, di fatto una deportazione indotta dalle disuguaglianze. Ma
la denuncia dei suoi mali e l’impegno per eliminarli non giustifica il ritorno a società chiuse,
guardinghe, attraversate dal rancore e dalla paura, avvinghiate a un’idea equivoca di sovranità,
perché in un mondo interconnesso non si tratta di isolarsi – posto che sia possibile – ma di imparare
a convivere e a condividere con maggiore giustizia, realizzando i principi della Costituzione, della
Dichiarazione universale dei diritti umani, della Convenzione di Ginevra e di tutti i documenti
scritti per archiviare una stagione di violenza e di barbarie.
Ecco allora l’importanza di uscire e di muoversi, di denunciare la perdita di umanità ma anche di
capacità e onestà politica, perché un fenomeno come l’immigrazione non si può reprimere o
respingere con i muri e le espulsioni, si deve governare con lungimiranza, pragmatismo e, certo,
umanità. Senza smettere di chiederci come vorremmo essere trattati se al posto dei migranti ci
fossimo noi.
Mettersi nei panni degli altri è la chiave dell’etica evangelica, ma lo è anche di una società
consapevole che la vita non ha confini, così come non hanno confini i bisogni, le speranze, i diritti
delle persone.
Facciamo sentire la voce di un’Italia che per quei diritti non smette di lottare.
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di Luigi Ciotti
in “il manifesto” del 27 ottobre 2018
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