martedì 14 novembre 2017

Forse serve davvero una legge sul fine vita...

Non c’è dubbio che la denuncia e la petizione pubblica di Gesualdi comporti l’andare ben oltre il problema politico e sociale e metta la coscienza del credente (e di chi non lo è) di fronte al problema dell’uso della propria libertà riguardo al fine-vita.
Già il card. Martini aveva fatto cenno alla problematica del fine-vita e lui stesso ad un certo punto della sua malattia ha detto no all'accanimento terapeutico, spiegando che non è una forma di eutanasia e precisando che non ci sono regole generali per stabilire se l’intervento medico sia appropriato, richiamando l’importanza di non trascurare la volontà della persona malata. Egli infatti disse: “La crescente capacità  terapeutica della medicina consente di protrarre la vita pure in condizioni impensabili. Senz'altro il progresso medico è  ormai positivo. Ma nello stesso tempo le nuove tecnologie che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo  umano richiedono un supplemento di saggezza per non promulgare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona”.
Ma, oltre a questo, è importante anche l’impegno di alleviare la sofferenza del malato, che è un impegno di misericordia e di rispetto alla vita, perché la vita è qualcosa di sacro, di stupefacente: basta riflettere sul lungo viaggio di ogni forma di vita nel corso dei secoli per considerarla sacra, in particolare la vita umana dal momento del concepimento fino alla fine.
Il valore della vita, inoltre, si esprime secondo diverse forme, tutte importanti, avvalorate nel corso della storia dai vari pensieri filosofici, che noi chiamiamo  vita biologica, vita animale, vita psichica, vita logica, vita spirituale. Nel nostro linguaggio abituale noi ricorriamo genericamente alla parola “vita”, ma il termine racchiude in sé questi vari aspetti.
Il rispetto per la vita, quindi, deve essere esteso a tutte queste diverse forme in modo tale che siano tra loro in armonia. Purtroppo ci sono situazioni, esperienze e comportamenti che ledono a questa armonia, che creano lacerazioni e conflittualità. La malattia, come la SLA, crea una disarmonia tra la vita biologica, la vita psichica e la vita spirituale. Le malattie croniche e inguaribili producono un conflitto irreversibile tra le diverse forme vitali: quando si espande questa disarmonia come si deve intendere il rispetto alla vita?
Probabilmente è fondamentale in queste circostanze il rispetto della coscienza e della libertà della persona ammalata.
E’ vero che possiamo trovarci di fronte a chi, nella piena consapevolezza della sua coscienza, accetti di rispettare la vita biologica, anche se minacciata da percorsi inguaribili, a scapito della vita psichica e spirituale: sono coloro che, nel nome della propria fede o di altre convinzioni, ritengono un valore accettare la sofferenza come segno di partecipazione responsabile al dolore diffuso nel mondo. Chi si dispone a vivere la malattia irreversibile in questo modo, merita tutto il nostro rispetto e il riconoscimento della sua forza e del suo coraggio.
Ma meritano altrettanto rispetto tutti coloro che non riescono o non vogliono che la vita biologica prevalga sulle altre forme di vita, non accettando la disarmonia provocata dalla malattia irreversibile.
Si deve prendere atto che ciò che è un valore per una persona, non è detto che lo sia per un’altra; ciò che può essere edificazione per uno, per un altro che la pensa diversamente si può tramutare in tortura. Una diversa concezione della vita può produrre una diversa etica e da essa si possono raggiungere valutazioni differenti nei confronti di situazioni concrete.
In questi casi che cosa significa rispettare la sacralità della vita? E’ più sacra la vita biologica o la vita spirituale che salvaguarda la coscienza e la  libertà della persona?
Rispettare la vita di una persona significa rispetto per la sua coscienza e la sua libertà e ciò avviene se il malato può disporre dell’autodeterminazione. Da qui nasce l’esigenza che il sentimento di rispetto si concretizzi dal punto di vista politico istituzionale in una adeguata legislazione riguardante la libera autodeterminazione che consenta a ciascuno di decidere della propria  morte. Il diritto alla vita è indiscutibile, ma non può essere imposto come un dovere: nessuna persona deve essere costretta a vivere subendo una continua tortura, come la Gastrotomia Endoscopica Percutanea (PEG) o con la tracheotomia quando ci sono difficoltà respiratorie.
E in questo senso si vorrebbe augurare a Michele Gesualdi la opportunità di vedere un parlamento che si rimbocca le maniche e fa la sua doverosa parte (ma ne dubito) per consentire ai malati come lui, di trovare uno sbocco dignitoso per uscire dalla sofferenza e dalla tortura.
Dal blog "Appunti Alessandrini".

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