Papa Francesco ha annullato le celebrazioni liturgiche previste per Pasqua. Altre Chiese cristiane
hanno fatto lo stesso, per evitare assembramenti che potrebbero esporre i fedeli al rischio di
contagio da parte del coronavirus.
Ma forse quest’anno avremo una Pasqua molto più
santa. La domenica delle Palme, quando commemoriamo l'ingresso di Gesù a Gerusalemme in sella
a un asinello, non potremo dimenticare che è presente nelle code formate da milioni di persone che
in tutto il mondo cercano medicine nelle farmacie e attenzione negli ospedali.
Gesù è anche presente tra le infermiere e i medici, i vigili del fuoco e i poliziotti, che rischiano la
vita per salvare i pazienti contagiati dal virus, un gesto simile a quello che Lui ha avuto quando ha
lavato i piedi ai suoi discepoli, un rito ricordato dai cattolici il Giovedì Santo.
Gesù si trova negli ospedali strapieni, dove si vive la stessa agonia che ha vissuto nel Giardino degli
Ulivi quando si è trovato di fronte al rischio reale della morte.
Gesù, che è stato lasciato solo dai discepoli e che ha affrontato la sofferenza di sentirsi abbandonato
anche da Dio, ora si moltiplica in miliardi di persone isolate nelle loro case e impossibilitate ad
incontrare e abbracciare i loro cari.
Gesù, imprigionato e torturato nelle celle del potere, è anche colui che vive in abbandono per le
strade, senza mezzi per isolarsi, senza accesso al sistema sanitario, senza condizioni per proteggersi
con le misure igieniche essenziali per sfuggire alla minaccia della morte imminente.
Gesù, quindi, risorge nel contadino che coltiva ciò che arriva sulle nostre tavole, nel camionista che
trasporta medicine e cibo, nel commerciante che garantisce a tutti noi i beni essenziali.
Gesù si manifesta in piccoli gesti di solidarietà, come quello della giovane donna, che ogni giorno prepara il cibo per la signora anziana, perché la cuoca è isolata. O
come l’imprenditore che offre trenta pasti caldi al giorno alle persone in strada che circolano nel suo
quartiere. O come lo studente universitario che si è offerto volontario all'ospedale pubblico per
trasportare barelle e pulire i malati.
Abbiamo un’idea sbagliata della presenza di Dio in mezzo a noi. Generalmente dissociamo Dio
dalla nostra realtà quotidiana. Sta in cielo, invisibile ai nostri occhi e raggiungibile solo per mezzo
della fede. Anche il suo silenzio di fronte alla pandemia provoca indignazione in molti. Qualcuno ricorda che questo è uno dei temi centrali del romanzo di Albert Camus "La peste". Lì il silenzio di Dio spinge verso la santità senza Dio. Camus nella sua narrazione
riflette questo malinteso di un dio che resta a volteggiare sull'umanità.
Sebbene siamo tutti, uomini e donne, immagine e somiglianza di Dio, non abbiamo occhi per
riconoscerlo nel nostro prossimo, anche se siamo in grado di identificarlo nella particola consacrata.
“Dio è più intimo a noi di quanto lo siamo a noi stessi”, ha detto sant'Agostino. Lo stesso Gesù,
quando gli è stato chiesto come dobbiamo conoscere Dio dopo questa vita (Mt 25, 31-40), ha
risposto qualcosa di sorprendente: non vedremo Dio solo nell'altra vita. Già può e deve essere visto
qui e ora. Bisogna solo aprire gli occhi e il cuore per riconoscerlo in chi è affamato, assetato,
malato, indifeso o oppresso.
Ogni volta che serviamo coloro che soffrono, è Dio stesso che serviamo, anche se non abbiamo
fede. Questa è l’essenza del cristianesimo.
Prendersi cura di un malato agli occhi di Dio vale più di
tutte le pompose celebrazioni.
Perché per Dio ciò che è più sacro è l’essere umano.
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di Frei Betto in “Religión Digital” del 8 aprile 2020
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