martedì 1 ottobre 2019

A PROPOSITO DEL DIBATTITO SUL FINE VITA

"Chiedevo perché non possiamo avere in Italia la stessa possibilità che esiste in altri Paesi civili di scegliere serenamente il modo in cui morire quando la sofferenza è grave e irrimediabile. Mi rispose allora l’Osservatore Romano, presentando argomenti contrari. Ritengo che il rispetto delle opinioni diverse sia il fondamento della democrazia, e sia particolarmente importante su un tema delicato come questo. 
La prima riguarda le dichiarazioni recenti di alcuni rappresentanti del mondo medico, che chiedono di non essere obbligati ad assistere una persona che vuole terminare la sua vita. Mi ha colpito la frase di un medico che diceva «si parla della libertà del paziente, ma che ne è della libertà del medico?». Il medico curante che per motivi legati alle sue convinzioni morali non può farlo, secondo la legge del Paese, dirige semplicemente il paziente verso un collega che non ha simili impedimenti e salvaguardando la libertà tanto del paziente che del medico. Mi sembra una soluzione civile. Non dobbiamo imporre l’uno all’altro le nostre convinzioni religiose o morali; dobbiamo rispettare le convinzioni di ciascuno, e avere leggi che permettano questo, e limitino la nostra libertà solo se la nostra libertà può nuocere ad altri. Nel rispondere al mio articolo, l’Osservatore Romano presentava l’alternativa fra una morte «in un freddo letto di ospedale», «oscura, tremebonda e piena di tabù», oppure una morte in casa propria, scelta e vissuta serenamente. Sono d’accordo. Il suicidio assistito deve avvenire in casa, serenamente. Eventualmente attorniati dai propri cari. Noi tutti dovremo affrontare l’ultimo giorno della nostra vita. Io spero intensamente che il mio possa essere in una situazione di serenità e affetto. I medici sanno che ci sono condizioni che portano a sofferenze estreme e senza rimedio, e a un degrado e un abbrutimento senza ritorno. Alcuni fra noi vogliono affrontare questo degrado comunque. Li rispetto. Altri preferiscono non farlo. Ritengo meritino eguale rispetto. L’Osservatore Romano mi obietta che se la ragione della scelta di morire è una sofferenza estrema e incurabile, la risposta è che oggi ci sono «cure palliative» che risolvono il problema. Sarebbe bello se tali cure fossero sufficienti, ma purtroppo non lo sono. Aumentare fortemente la dose di farmaci come la morfina è talvolta possibile, ma equivale in molte situazioni a un’eutanasia, perché accelera la fine della vita. Questo lascia una zona grigia, ben conosciuta dai medici, in cui si gioca fra ambiguità e ipocrisia, a fin di bene, per fare senza dire. Non è un modo onesto di gestire qualcosa di sacro e importante come la morte, secondo me. Dopo la nascita, la morte è il passo più importante della vita. Trattiamolo con il rispetto che merita, con il viso scoperto e la fronte alta, non con non-detti e mezze parole oscure. Di fronte a sofferenze irrimediabili e terribili, che purtroppo esistono, di fronte a un degrado fisico e sopratutto spirituale senza ritorno, quando il paziente non chiede altro che smettere di soffrire, e la famiglia ne è consapevole, credo che pochi medici che abbiano un poco di cuore neghino davvero la pace a chi la vuole con tutta l’anima. Non lasciamo che questo avvenga in un oscuro limbo di semi-illegalità, che può poi portare a degenerazioni che arrivano fino alla cronaca nera. I primi beneficiari di una legge su questo argomento sono i medici, che non siano più obbligati a dover far fronte non solo a difficili scelte umane, ma anche ad assurdi rischi legali. Il problema del suicidio assistito non è, e non deve essere, una questione fra laici e religiosi. 
Una delle condizioni che porta al suicidio assistito è che la sofferenza sia grave e irrimediabile. Un’altra, ovvia, è che il desiderio di morire sia forte, sincero, motivato e genuino. Forse non sarà una legge perfetta. È solo una delle soluzioni che Paesi diversi hanno adottato. A me sembra comunque molto migliore della situazione italiana, che mette i medici nella posizione dolorosa di dover scegliere se violare la propria umanità oppure violare la legge. Perché la vera questione qui non è la libertà. È l’umanità. Permettere, a chi lo desidera fortemente, di evitare la sofferenza. Questa è umanità. Quella stessa umanità che anima chi si adopera ad alleviare le sofferenze in tanti altri ambiti, e che anima tantissime persone, tanto nel mondo religioso che in quello delle persone che non sono religiose. La morte è sempre difficile. La si affronta con timori e lascia in chi resta le emozioni più dure. Ciascuno di noi è diverso. Arriviamo con sentimenti diversi alla morte dei propri cari e alla propria. Non pretendo di dire agli altri come dovrebbero avvicinarsi alla morte. Ma penso che questo rispetto dovrebbe essere reciproco. Se una persona, i suoi medici, i suoi familiari, convergono tutti nel ritenere giusto e sereno un modo di morire, penso dobbiamo interrogarci tutti se non sia meglio accettare la possibilità che di fronte al dolore irrimediabile qualcuno preferisca scegliere lui stesso il momento, che viene comunque, in cui sentirsi, come Abramo nella Genesi, «sazio di giorni»."
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ESTRATTO DA UN ARTICOLO DI CARLO ROVELLI in “Corriere della Sera” del 1 ottobre 2019

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