giovedì 16 maggio 2019

MIGRANTE O IMMIGRANTE O RIFUGIATO O ... CLANDESTINO?

«Migrante» non è che il participio presente del verbo migrare. Sembrerebbe un termine neutro. Ma
da tempo ha assunto un significato spregiativo. Né cittadino, né straniero, il migrante si situa alla
frontiera nel tentativo di varcarla. Ovunque di troppo, è un intruso che fa saltare le barriere, suscita imbarazzo. Figura di transito, presenza al mondo fluida e instabile, il migrante, questo senza-luogo, così minacciosamente fuoriluogo, appare incontrollabile, sfuggente, evasivo e invasivo.
Nessuna empatia, nessuna solidarietà per questo nuovo povero cui è stata tolta anche l’antica
dignità del povero. Nella sua nudità, oscura e illegittima, è lo spettro dell’ospite. Non promette di far ritorno. Cerca solo un posto dove esistere. Ma i sovranisti lo fermano: «tu non sei di qui!».
Gridano all’invasione, chiamano a raccolta contro il «clandestino», quel nemico subdolo e occulto.
Se «rifugiato» è la parola magica della redenzione, «migrante» è un’etichetta-frontiera innalzata per
arrestare chi pretenda di muoversi tra gli Stati-nazione. I nomi confortano la buona coscienza della
governance liberale che esercita il potere biopolitico della selezione: da una parte i buoni, dall’altra
i cattivi, da una parte i veri, dall’altra i falsi. Il migrante sarebbe il «falso rifugiato». Respingere
questo povero tra i poveri, meno bianco e meno istruito, è ormai un merito.
Il migrante non è neppure l’immigrato, quel corpo su cui si eserciterà una duplice discriminazione,
di «razza» e di «classe». Nel migliore dei casi è un «richiedente asilo», rinviato a un’attesa
interminabile. Invisibilità e immobilità sono la sua condanna. Nel peggiore è invece un’eccedenza,
un avanzo superfluo, una scoria senza diritto di esistere. Il capitalismo globalizzato lo lascia morire
in mare o lo consegna a quegli innumerevoli campi di cui è costellato il mondo degli Stati-nazione.
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 Donatella Di Cesare in “L'Espresso” del 12 maggio 2019

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